BBC Radio 1 ha da poco annunciato che stanno per lanciare una lineup tutta al femminile per celebrare la festa delle donne. Il cast include la speaker Annie Nightingale, famosa per aver detto che “le questioni di genere non sono affatto un problema, anzi, quando si tratta di cercare nuovi nomi per Radio 1, che si è sempre dimostrata più che favorevole a supportare le donne in questo senso. E poi, ci piacerebbe essere giudicati per le nostre abilità, solo per quelle, in questo campo che ha già un sacco di competizione, questo anche per il rispetto del nostro gruppo e della nostra audience.” Sull’altro piatto della bilancia, HARD, un mastodontico festival elettronico statunitense, ha appena annunciato e sottolineato che ha in programma di patrocinare un weekender di sole DJ donne, la prossima primavera. Il fondatore di questo festival, Gary Richards, ha promesso che a questo evento parteciperanno “tutte le donne DJ più fighe”, così, per fare un po’ di colore.
A questo punto ti viene il dubbio che sia la BBC Radio 1 che HARD siano imputabili di crimini contro il buon gusto, dato che stanno protraendo una concezione abbastanza avvilente, nonostante sia molto diffusa: quella che le DONNE DJ siano una novità, una nicchia, una specie protetta di un mondo inondato dagli uomini, e dovremmo debellare tale nozione nella maniera più totale. Ciononostante, ci sono varie sfumature e gradazioni in un argomento così spinoso. Certo, il concetto in sé di una line-up di sole DJ donne mi prende in contropiede, ma il Women Day della BBC Radio 1 dà l’impressione di essere davvero un campionario di talenti; in linea con l’abbondanza di speaker femminili fisse nella stazione radio, e all’annuncio da parte del direttore generale della BBC, Tony Hall, sul combattere le diseguaglianze di genere. Sono d’accordo con la Nightingale quando dice che è un “ambiente competitivo”, eppure diversamente dalla Nightingale credo che la BBC Radio 1 tratti effettivamente il genere come un problema—sebbene in una maniera positiva e progressista che dovrebbe essere lodata.
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Posto a confronto, il résumé di HARD nella promozione di talenti femminili è irrisorio. Le donne hanno occupato un misero otto percento nelle lineup di festival tra il 2008 e il 2013, e in un‘intervista del 2013 con WildSpice, Richards ha affrontato tali cifre insistendo che “mi è stata posta questa domanda così tante volte che sento ci sia bisogno di approfondire la questione. Sapete, sviluppare il marchio o cose simili, offrire più opportunità alle ragazze.” Incalzato su come avrebbe strutturato l’evento, ha proseguito dicendo che, sebbene avrebbe personalmente investito del tempo nella sua organizzazione, “il fatto è che non posso pagarle così tanto [quanto DJ uomini]. Vedete, quando si tratta di un festival, quando si parla di 60-70.000 persone, puoi dare più soldi agli artisti. Ma questo live probabilmente sarà al Palladium, perciò se voglio che arrivino cinque-sei ragazze da varie parti del mondo, potete immaginare che sarà difficile far funzionare tutto.”
Non è solo il sessismo dolorosamente manfesto in ciò che mi offende, ma anche il disfattismo insito nel fatto che l’ingaggiare DJ donne sia un investimento scadente da parte di un promoter d’alto profilo, in un’industria in ebollizione, quasi da miliardi di dollari; nel fatto che Richards sarebbe disposto a dimezzare i forfait e ridimensionare gli eventi per “far funzionare tutto.” Richards non giudica unicamente sulla base dell’abilità musicale, ma sull’essere donna come strumento di marketing.
Lasciando da parte i vecchi miliardari che si comportano come mentecatti sessisti, mi chiedo: cosa c’è nella cultura della musica elettronica che ci fa continuare a trattare le donne come una novità? Non starò a fare un’accurata disamina di questa massa amorfa di stronzate, ma si è verificata tutta una serie di micro-trend sotterranei che hanno contribuito alla situazione attuale. Talvolta se ne parla, ma raramente vengono discussi apertamente, e così, un pezzo dopo l’altro, si cancellano quei pochi progressi fatti nel costruire una discussione positiva sugli atteggiamenti di genere nella musica elettronica.
Per amore della sintesi ne sceglierò uno. Avete notato quanti produttori e DJ uomini stanno lavorando sotto pseudonimi apertamente femminili? C’è la new entry di Numbers, SOPHIE, il socio di Night Slugs, Neana, Miss Modular (che fa dischi per Her Records) e Patricia, il cui album di debutto in Opal Tapes è intitolato, uhm, “Body Issues”. C’è anche la collaborazione tra Andy Stott e Miles Whittaker chiamata Millie and Andrea, che pubblicano per una sub-label di Modern Love, di nome, sì, Daphne, e poi ci sono Lucy, Agnes, Margaret, Daphni, Samantha Glass e la triplice minaccia del progetto Sheworks di Karenn, pubblicata per Works The Long Night. E questa non è nemmeno una lista esaustiva, il che è parzialmente il problema.
Questo micro-trend dice tutto perché, sebbene gli alias artistici siano giochi di parole pressoché innocui e solitamente i fan ci spendano pochi pensieri al riguardo, c’è qualcosa che mi irrita nel vedere uomini scegliersi pseudonimi che sono o esplicitamente femminili (Lucy, Millie, Agnes) o implicano femminilità (Miss Modular, She Works The Night, Body Issues), in un tentativo di mantenere l’anonimato o di giocosa indulgenza. Il progetto Millie and Andrea a quanto pare è stato formulato come opportunità per “esplorare sonorità di solito non associate alle loro produzioni soliste”, e SOPHIE ha persino deformato la propria voce durante una tramissione radiofonica per sembrare una ragazzina. Entrambi fatti assurdi, entrambi superflui, entrambi nascosti dietro una femminilità fittizia in un tentativo stilistico di generare una produzione migliore tramite un personaggio falso.
Uomini che adottano pseudonimi esplicitamente femminili e non si rapportano con le questioni insite in tale scelta, in un’industria in cui le donne vengono spesso trattate come una novità, rischiano di lavorare sotto false convinzioni. Usare la femminilità per crearsi un’aria di mistero non solo asseconda lo stereotipo misogino della donna come figura invisibile e senza voce,ma, rapportandosi alla figura femminile e alla femminilità solo a un livello superficiale, potrebbe addirittura portare alla penalizzazione attiva delle donne che giustamente cercano solo di fare il proprio lavoro, senza che il proprio genere venga trattato come materia di vendita.
Questo micro-trend mi sta infastidendo da un po’ ormai, perciò ho chiamato Miss Modular per chiedergli perchè si fa chiamare Miss Modular. È stato soprendentemente franco riguardo tutta la faccenda. “Ho scleto Miss Modular molto, molto tempo fa, persino prima che iniziassi a produrre”, insiste. “Lo usavo per un blog che avevo ai tempi. Quando l’ho scelto inizialmente, non mi è venuto subito in mente che facesse riferimento a un genere, ma poi quando ho iniziato a produrre e ad attirare più attenzione, la gente mi mandava messaggi tipo: ‘Ehi, stiamo facendo un pezzo sulle produttrici donna, vuoi partecipare?’ Rispondevo che ero un uomo e allora loro dicevano, ‘Oh, ok, be’, non siamo più così interessati a scrivere di te’.”
Come reagivi? “Pensavo fosse frustrante,” confessa. “Non perchè non ricevevo attenzioni perchè ero un uomo, ma perchè ritenevo che il concetto stesso di una rivista che vuole scrivere un pezzo sulle produttrici donne fosse strano. Come se l’essere donna fosse un qualche sorta di handicap per loro, e che se erano brave a fare quello che facevano allora si avrebbe dovuto, non so, encomiarle di più?”
Come ti senti ad essere Miss Modular ora, tenuto conto di ciò? “In tutta onestà, mi sono trovato un po’ ingarbugliato in tutto questo fenomeno. Mi chiedo se gli uomini che lavorano sotto pseudonimi femminili stiano intenzionalmente cercando di rimanere anonimi; per qualche tipo di colpa inerente all’essere un produttore uomo e bianco, e per presentare te stesso come qualcun altro. Di certo ho notato che da quando uso uno pseudonimo femminile la gente mi tratta come una novità, e si interessa al mio lavoro esclusivamente perchè convinti che io sia una donna. Tutte le volte che cerco il mio nome su Twitter, è di quello che parla la gente.”
Pensi davvero che sia una tendenza di cui vale la pena di parlare, o la stiamo vedendo in maniera ipercritica? “Oh no”, dice. “Penso davvero che questa tendenza si stia impennando ora. Ho incontrato ragazzi che stanno muovendo i primi passi come DJ e mi hanno detto, ‘Eh sì, forse mi chiamerò così perchè è femminile’, al che gli ho chiesto, ‘Stai davvero dicendo che hai deliberatamente scelto questo nome perchè ti presenterà come donna?!’ Avrei davvero dovuto indagare più a fondo allora,” Gli ho chiesto se gli avesse aperto gli occhi al sessismo insito nella cultura della musica dance, e lui ha ammesso di sì.
“È sia affascinante che frustrante. Ti mostra come funzionano queste politiche di genere. È stato piuttosto illuminante. Mi sembra un po’ strano farne parte, ad essere onesti. Ci tengo seriamente a sottolineare che in quanto uomo che lavora sotto pseudonimi femminili, non avevo alcuna intenzione di nascondermi dietro una qualche facciata di femminilità. Mi è venuto in mente di cambiare nome del tutto, o perlomeno di variarlo, ma poi ho pensato che sarebbe stato più efficace sfruttare questa strana situazione in cui mi sono trovato per parlare apertamente della questione, e inquadrarla in modo più positivo.”
Quindi cosa pensi dei line-up tutti al femminile? “Penso che sia una fottutissima assurdità. Perchè non mettete semplicemente le donne nel cartellone originale? Il genere dovrebbe essere completamente irrilevante, dunque perchè fare un festival completamente separato solo per le donne? Quel genere di cose mi fa veramente incazzare.”
Certo, questo micro-trend lascia piuttosto perplessi. La maggior parte degli avventori non dà troppa retta ai nomi degli artisti, e continuerà ad andare a vedere i propri produttori e DJ preferiti indipendentente da quanto siano banali. Ciò non cambierà. Quello che potrebbe succedere, invece, è che guarderò la line-up di un enorme festival dance nel 2014 e troverò una lista di nomi femminili in cima al cartellone, che non sono donne in realtà. Le donne? Loro si beccano il proprio festival personale—quello più piccolo, con paghe misere, un’affluenza ridotta e la puzza di sessismo sottinteso che permane nell’aria impregnata di sudore. Promoter, non ingaggiate DJ donne per i vostri locali e festival per il loro sesso. Ingaggiatele perchè sono grandi DJ. Non lo farete per dare “una mano” alle donne in un’industria iper-competitiva imbevuta di sessismo, lo fate per alzare il livello di una cultura che rischia di accettare e scivolare in micro-trend che potrebbero diventare lo scheletro nell’armadio.