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Sono in quarantena a Codogno, e questo è ciò che sta succedendo

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È domenica e ho appena controllato le provviste di casa insieme alla mia famiglia: saremo abbastanza tranquilli per qualche giorno. I supermercati dove ci riforniamo di solito invece sono attualmente chiusi, e davanti a quelli aperti nelle vicinanze si sono create code di persone e resse, perché l’accesso ai clienti è consentito a turni. Effetti sul breve periodo della quarantena, suppongo.

Mi trovo a Codogno—il mio paese, nonché il luogo in cui si è registrato il primo caso noto di contagio secondario da coronavirus—e sono fra i cittadini che in questo momento non possono uscire dalla zona rossa del focolaio, che ieri sera in tv ho sentito definire “blindata”. Nel frattempo il blocco stradale tramite forze dell’ordine è entrato in funzione, e i treni non effettuano più fermate qui.

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Il Consiglio dei Ministri ha varato un decreto urgente per gestire la situazione: nessuno può entrare o uscire dai comuni maggiormente colpiti; le scuole, i musei, alcuni tipi di esercizi commerciali, di imprese, e di servizi comunali restano chiusi; sono sospese manifestazioni, eventi, e ogni forma di riunione pubblica o privata; l’accesso ai servizi di trasporto pubblico e merci è limitato o sospeso. Non è stato vietato di uscire di casa, come è stato detto da alcuni, ma è consigliato di limitare il più possibile la frequentazione di luoghi pubblici, cercando di rimanere in “ambienti domestici”.

Personalmente, sto attraversando questo momento sforzandomi di utilizzare tutte le facoltà logiche e le informazioni di cui dispongo. Ho 33 anni, e insegno scienze naturali e igiene e anatomia all’istituto superiore Cesaris di Casalpusterlengo, un altro dei comuni lombardi attualmente isolati per il coronavirus. Ho un dottorato in biotecnologie industriali, e nel tempo libero mi dedico alla divulgazione scientifica tramite il mio profilo Instagram, e un canale collettivo su Twitch. Mi occupo soprattutto di chimica, biologia e antropologia. Nella prima mattinata di venerdì, quando ho saputo del caso di contagio di Codogno, mi stavo appunto preparando per andare a lavorare.

Inizialmente è stato un po’ destabilizzante vedere le immagini dell’ospedale di Codogno sui siti dei principali quotidiani italiani, perché di colpo una questione astratta e lontana come era stato il coronavirus fino a quel punto si era concretizzata. E la prima reazione è quella di perdere il controllo dei pensieri: ipotesi, ruminazione, rielaborazione ossessiva degli spostamenti nei giorni precedenti e delle persone incontrate.

A scuola molti ragazzi erano scioccati, e alcuni colleghi sono stati costretti a interrompere le lezioni perché la tensione era troppo alta. La stessa reazione impaurita l’ho vista nei miei genitori, che vista la mia professione a contatto con molte persone mi hanno intimato di telefonare al servizio d’emergenza per farmi fare i tamponi e una visita (finora, però, a chi non presenta sintomi e non ha avuto contatti diretti con malati è semplicemente richiesto di rispettare le linee guida del Ministero della Salute). Mio fratello era rimasto a casa perché l’azienda in cui lavora gli aveva telefonato per avvertirlo, quindi ho cercato di far ragionare tutti e tranquillizzare gli animi.

Cosa che non è esattamente successa per tutti gli altri abitanti di Codogno. L’assalto alle mascherine (che come dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono utili “solo se sospetti di aver contratto il nuovo Coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti o se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo Coronavirus,” peraltro) è scattato fino a esaurimento scorte, le richieste di tamponi faringei sono fuori controllo, e il sindaco ha dovuto chiedere di non andare a fare la spesa in aree off-limits, in preda al panico, perché i supermercati riapriranno regolarmente.

Le strade, come era prevedibile, sono quasi vuote. Non che Codogno fosse questa metropoli frenetica: come ogni piccolo/medio centro (15.000 abitanti) italiano sta invecchiando, per questo fa molto ridere quando nei telegiornali si sente di una “movida di Codogno bloccata”. La movida di Codogno non è mai esistita, ma in compenso sono subito arrivati in massa giornalisti a intervistare i passanti su impressioni insignificanti.

Online, l’ansia del virus si è facilmente trasformata in morbosità: nonostante i miei rimproveri, mia madre continua a frequentare i gruppi Facebook cittadini, dove è stato postato di tutto. False notizie, inutile allarmismo, ricostruzioni dettagliate (con calunnie e insulti annessi) della biografia del 38enne che per primo è risultato positivo nella zona ed è ora ricoverato in prognosi riservata. Una giornalista che cercava gentilmente qualcuno disposto a raccontare la situazione è stata aggredita verbalmente e accusata di sciacallaggio. Ancora adesso su WhatsApp girano vocali registrati da anonimi, che non si capisce bene come siano informati dei fatti, e che propagano sciocchezze a tutto spiano sul virus, sui contagiati e su quanto il comune ci stia mentendo a riguardo.

Allarmismo e mediaticità di Codogno a parte, la quarantena per ora è uno sforzo di occupazione del tempo. Ho passato due giorni a casa, al telefono, disdicendo gli impegni che avevo preso per questi giorni e rispondendo ai tanti messaggi degli amici che chiedevano informazioni. La mia famiglia si tiene occupata, e se abbiamo bisogno di uscire di casa, usciamo senza troppe paure e adottando le precauzioni del caso. Il morale si sta pian piano stabilizzando, insomma.

Ho sentito più tranquilla anche una mia conoscenza diretta che ha un parente contagiato, e che giustamente sta seguendo una quarantena totale. Mi ha detto che per ora le autorità non hanno ancora provveduto ai tamponi per tutti i parenti prossimi dei colpiti dal virus, probabilmente perché in questa fase si stanno concentrando sulle situazioni più a rischio.

Come divulgatore, intanto, mi sento di dare qualche consiglio a chi dovesse trovarsi in una situazione simile alla mia. So che l’isolamento può acuire la paura: ti fa percepire in modo molto più netto il pericolo, rischiando di sovrastimarlo. Perciò, innanzitutto, niente panico. Prima di pensare al peggio, cercate di informarvi seriamente sul coronavirus e sulla realtà di questo fenomeno. Seguite le indicazioni ufficiali con scrupolo, ma non andate oltre quelle—e non intasate le linee predisposte a meno che non sia necessario. Infine, state lontani dai gruppi Facebook cittadini e dalle chat WhatsApp in cui ci si scambiano pareri e notizie a caso: quella è la vera quarantena che dovete imporvi, perché sono la vera peste.

Informazioni utili: Se riscontri sintomi influenzali o problemi respiratori e ti trovi in Lombardia o Veneto, non devi andare in pronto soccorso né in ospedale, ma chiamare il numero unico (rispettivamente 800 894545 e 800 462340 a seconda della regione) che valuterà ogni singola situazione. Per informazioni generali sul coronavirus puoi chiamare il 1500, il numero di pubblica utilità attivato dal Ministero della Salute. Il 112, infine, è il numero nazionale per le chiamate di emergenza. Per le città al di fuori della quarantena—e per informazioni su scuole, università e altri servizi sospesi—il posto migliore dove trovare informazioni aggiornate è il sito ufficiale della regione/comune/istituzione.

Tutti i cittadini che hanno sostato o sono passati nelle zone “focolaio” del virus in Lombardia e Veneto hanno l’obbligo di comunicarlo alle Asl, riporta il decreto attuativo della presidenza del Consiglio, “ai fini dell’adozione, da parte dell’autorità sanitaria competente, di ogni misura necessaria, ivi compresa la permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva.”

Altre fonti utili: linee guida del Ministero della Salute sul coronavirus.
Sezione della Protezione Civile sull’emergenza coronavirus.
Informazioni su trasmissione, prevenzione e trattamento del coronavirus dall’Istituto Superiore di Sanità.
Consigli della Croce Rossa su mascherine e farmaci.