‘Pensavo fosse scoppiata una guerra atomica’: italiani ricordano il disastro di Chernobyl

chernobyl

In Italia, le prime notizie di quanto accaduto a Chernobyl nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1986 arrivarono quattro giorni più tardi, perché l’Unione Sovietica decise inizialmente di non fare trapelare informazioni.

Solo il 29 aprile i telegiornali e la stampa annunciarono all’Italia l’incidente avvenuto alla centrale nucleare. L’allora ministro per la Protezione Civile Giuseppe Zamberletti attivò immediatamente il sistema di rilevamento della radioattività, assicurando (e rassicurando) che non si erano registrati aumenti. Dunque sembrava non ci fossero motivi di preoccupazione.

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Ma sabato 3 maggio 1986 i quotidiani cominciarono a parlare di divieti alimentari, quelli sanciti da un’ordinanza drastica del ministro della Sanità Costante Degan. “Divieto di vendere, per quindici giorni ‘verdure a foglia’ (insalata, spinaci, ecc.) e di somministrare il latte fresco ai bambini con meno di dieci anni di età e alle donne in stato di gravidanza,” riporta L’Unità. “A testimoniare questo stato di confusione nel governo è anche la contraddittorietà dell’annuncio della Sanità che in un primo tempo aveva vietato la vendita di latte fresco e, successivamente, davanti all’enormità del provvedimento, aveva trasformato il divieto in suggerimento.”

Anche la Protezione Civile iniziò a elargire qualche consiglio: da non bere acqua piovana a non fare pascolare il bestiame nei campi, alimentandolo con foraggio conservato, l’allarmismo cominciò ad aumentare, ben più del livello di radiazioni. Sui quotidiani di allora si parlò anche di veri e propri assalti alle farmacie: i cittadini in preda al panico facevano scorte di pasticche di iodio stabile, in grado di saturare la tiroide e di evitare così l’assorbimento dello iodio 131, una delle sostanze radioattive rilasciate al momento dell’incidente.

I divieti decaddero ufficialmente il 24 maggio, quando Craxi con un appello televisivo lanciato dalle reti RAI comunicò all’Italia che poteva tornare a mangiare tutto ciò che voleva.

La catastrofe ucraina ha sicuramente rafforzato il movimento antinucleare italiano—che nel 1987 incassò la netta vittoria al referendum sul nucleare—e la linea sindacalista fino ad allora sconosciuta del lavoro sostenibile. Prima di Chernobyl la sostenibilità sul lavoro non era minimamente presa in considerazione. Da quel momento in poi tutto cambiò.

Ho chiesto a chi nel 1986 era un bambino in Italia di raccontare cosa si ricorda di quel periodo.

GIORGIO, 39 ANNI, GALLERISTA DI ROMA

Se penso alla parola “Chernobyl” immagino immediatamente mutazioni genetiche. Quando è successo il disastro avevo circa sette anni, ma ricordo che mi intimoriva la mutazione della natura, l’idea di avere dei figli con due teste o sei dita.

Mi è stato vietato di bere il latte, ma in famiglia non si respirava un clima di esagerata preoccupazione, anche se in tv era impossibile non sentire nominare il disastro almeno una volta al giorno. Allora non sapevo nulla del nucleare e devo dire che non ne so nulla ancora oggi. Le mie massime informazioni sul nucleare provengono da Homer Simpson, quindi se domani accadesse qualcosa di simile non saprei minimamente come gestire la cosa.

Non credo che quel disastro abbia influito sulla mia formazione. Mi capita di pensare alla ciminiera a Montalto di Castro e tutte le volte che vado in quella zona mi chiedo come mai stia ancora lì, dopo trent’anni.

CECILIA, 40 ANNI, MARKETING MANAGER DI MODENA

All’epoca avevo solo sette anni e poca consapevolezza di cosa succedeva nel mondo esterno. A scuola le insegnanti parlavano dell’accaduto dicendoci come comportarci per la nostra sicurezza, mentre in famiglia si tendeva a discuterne limitatamente davanti ai bambini, credo per proteggerci e per evitarci traumi. Però ricordo che c’era una certa ansia legata a frutta e verdura—ovviamente questo per i bambini non era una grossa limitazione.

Una limitazione notevole invece era non potere più andare a giocare al parco. Io e mio fratello andavamo sempre nei giardinetti pubblici vicino a casa, ma per un po’ sono stati off limits.

Da quel momento in avanti parlare di “atomico” significava parlare di qualcosa di estremamente pericoloso, qualcosa di potentissimo ma di difficile gestione da parte dell’uomo.

Sicuramente è cambiato il mio modo di pensare all’energia nucleare: tutt’ora associo questo concetto a Chernobyl e alle conseguenze del disastro.

SALVATORE, 42 ANNI, DIRETTORE CREATIVO EVENTI DI PALERMO

Credo di avere appreso la notizia mentre guardavo il TG a tavola con i miei, a cena. Ma sono sicuro che abbiamo continuato a mangiare anche dopo averlo scoperto.

La vicenda aveva innescato in me un misto di paura e curiosità. Ricordo che si guardava il TG1 per sapere dove fosse arrivata, come si guarda il giro d’Italia: oggi è qui, domani è lì… Io non la vedevo e quindi mi preoccupavo fino a un certo punto. Per dire: c’era allarmismo, sì, ma niente di troppo serio, almeno a casa mia. Forse perché da Palermo sembrava più lontana Chernobyl.

Per quanto riguarda il cibo, dicevano di stare attenti ai vegetali, addirittura di non acquistarli, ma a nove anni non era sicuramente un mio problema, anzi. A scuola andavo dalle suore e se ne parlava, soprattutto si pregava tutti insieme.

Ricordo comunque una certa eccitazione perché sapevo che c’era qualcosa che poteva avvicinarsi, poteva fare male… Insomma “qualcosa di brutto,” ma non sapendo bene cosa la vivevo anche un po’ come un gioco.

ALESSIO, 46 ANNI, FOTOGRAFO DI MANTOVA

La prima volta che ho sentito nominare Chernobyl è stato al telegiornale. Trattandosi di un evento successo così lontano da noi, non ci ho dato peso inizialmente.

Poi però è incominciata quella paura di mamme, nonne e adulti in generale che ha fatto nascere un senso di preoccupazione anche in noi bambini, lieve ma comunque persistente. Raccomandazioni sul non mangiare frutta e sul non toccare la terra, limitazioni circa il giocare all’aria aperta… Non è durato a lungo ma comunque un po’ ha interferito con la vita di tutti i giorni.

Percepire l’ansia degli adulti è stato strano. Anche perché vedevo Chernobyl come qualcosa di lontanissimo da noi, non credevo che le scorie potessero essere trasportate fino in Italia.

Ho un vago ricordo di pastiglie che davano per contrastare i possibili danni provocati dalle radiazioni nucleari [le già citate pasticche di iodio stabile]. Di Chernobyl mi è rimasto il pensiero indelebile che l’utilizzo di energia nucleare sia molto pericoloso. Ma forse non viene da lì, credo più da Fukushima.

FRANCESCO, 37 ANNI, INSEGNANTE DI VOGHERA

Le riprese aeree del reattore in fiamme nei giorni seguenti il disastro: credo siano quelle le immagini che mi riportano alla mente l’incidente di Chernobyl. Pensavo che fosse scoppiata una sorta di guerra atomica. La credevo però una cosa così lontana da me da non potere intaccare la mia vita e le mie abitudini. Perché tutto era invisibile, la nube tossica non la vedevi, non la percepivi, non riuscivi nemmeno a immaginarla.

Allora abitavo in un piccolo centro dell’Oltrepò pavese in cui la mia famiglia gestiva un’azienda agricola. La notizia uscì solo alcuni giorni dopo il disastro, e ci fu una riunione con il consorzio, le aziende agricole e i contadini locali per decidere cosa fare.

Andavano buttati via i primi tagli del foraggio (erba medica, fieno etc.) destinati agli animali così come tutte le verdure a foglia larga, tipo insalate e cavoli. Il danno economico è stato abbastanza contenuto dato che l’incidente è avvenuto alla fine di aprile e quindi gli alberi non avevano ancora prodotto frutti. Fosse capitato più tardi, la situazione per la mia famiglia e per tutte le aziende agricole sarebbe stata peggiore.

Ricordo i miei nonni straniti: era difficile fare capire a contadini vecchio stampo il concetto di emergenza nucleare e di un danno che si poteva estendere nei decenni successivi.

L’emergenza era invisibile e il clima di psicosi è durato solo pochi mesi; tra le mamme dei miei amici ci fu un tam tam di informazioni incontrollate ma non appena i telegiornali hanno smesso di parlarne, tutto è tornato come prima.

EDOARDO ROSSI, 43 ANNI, AUTORE TELEVISIVO DI TORINO

Sentendo la parola Chernobyl mi viene in mente la “voglia” di Gorbaciov. Mi chiedevo se fosse una conseguenza dell’esposizione alle radiazioni nucleari.

Un altro ricordo è il senso di nausea al pensiero di che cosa stessero provando le persone che abitavano in quella zona. E poi la tristezza delle immagini che ho visto in documentari postumi, come le sequenze della “premiazione” che è stata fatta ai primi soccorritori intervenuti per spegnere gli incendi, ai quali vennero date delle medaglie al merito consegnate in una location orribile.

Tornando all’epoca dell’accaduto, è stata la prima volta che ho sentito parlare così tanto di nucleare. Da quel momento partì tutta una serie sensibilizzazioni da parte dei media sul tema “radiazioni.” Tutto fu messo sotto accusa, anche la radio sveglia che era meglio non tenere sul comodino vicino alla testa.

Il disastro di Chernobyl ha influenzato la mia vita perché ha acceso la mia attenzione sul discorso delle radiazioni, del nucleare, dei tumori ma soprattutto sulla spregiudicata incuria e arroganza della classe dirigenziale.

Un ultimo ricordo riguardante il periodo finale delle restrizioni: un comico, credo su reti Mediaset, stava imitando probabilmente Bruno Vespa, rappresentandolo come molto stressato da questa serie di informazioni contrastanti su cosa fosse dannoso o meno. In un moto di liberazione con fare compulsivo, durante questo finto TG, si metteva a mangiare insalata e a bere il latte, il che mi fa riflettere su quanto gli organi di informazione abbiano insistito sull’argomento fino a saturarlo oltre il fatto il stesso.

CHIARA RIBICHINI, 41 ANNI, GIORNALISTA DI ROMA

Avevo otto anni. Ricordo che a scuola ne avevamo parlato a lungo e io avevo paura che potesse accadere anche a noi. Che ci fossero centrali nucleari anche qui in Italia.

Per quanto riguarda il divieto di consumare alcuni alimenti, c’era molta paura e si cercava di comprare frutta e verdura solo da rivenditori affidabili che potevano garantire la provenienza. Nella mia famiglia aleggiava un clima di preoccupazione, non esagerato ma c’era.

Sul fronte mass media, ricordo anche lì allarmi continui sui cibi. E le immagini dei bambini con gli occhi e i volti sofferenti. Ma anche le richieste di solidarietà e di aiuti.

Quello è stato il mio primo impatto con “i disastri”, pieno di paure, di domande. In parte mi sentivo rassicurata dall’essere lontana: all’epoca avevamo una diversa percezione delle distanze, dovuta sia al fatto di essere bambini sia alle maggiori difficoltà di spostamento rispetto a oggi.