Sepolti vivi: luci e ombre del 41-bis, il più duro regime carcerario italiano

Soffriva di diabete, insufficienza renale, problemi cardiaci, un cancro polmonare scoperto quando aveva già raggiunto i sette centimetri di massa ed una metastasi al fegato.

Feliciano Mallardo, condannato in primo grado a 24 anni per estorsione aggravata e associazione camorristica, è morto in queste condizioni al 41-bis, nel maggio del 2015, nella cella detentiva dell’ospedale San Salvatore a l’Aquila.

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La moglie e i figli l’avevano visto l’ultima volta venti giorni prima, attraverso un vetro divisore, senza nessuna possibilità di contatto. Avevano chiesto un ultimo colloquio straordinario, privo di barriere; richiesta considerata ragionevole dal tribunale di Napoli, data la salute del detenuto e il prevedibile “exitus improvviso.” Ma non c’è stato tempo: il necessario nulla osta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, pur sollecitato, non è mai arrivato.

Poco meno di un mese prima, Palmerino Gargiulo è morto suicida a Cuneo. Il 55enne – già monitorato per tendenze autolesionistiche – è stato trovato impiccato nella sua cella dalle guardie penitenziarie, appeso a una corda rudimentale fatta di lenzuola e lacci. Secondo uno studio dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, la frequenza di suicidi tra i detenuti al 41-bis è 3,5 volte maggiore rispetto al resto della popolazione reclusa.

In Italia, insomma, oggi si può morire così al 41-bis – isolati in un regime carcerario speciale che, tra le varie restrizioni, prevede l’isolamento in cella per 22 ore al giorno; la possibilità di un solo colloquio familiare al mese, di massimo un’ora, attraverso un vetro divisore; il divieto di ricevere libri e “qualsiasi altra forma di stampa” dall’esterno; e la stretta limitazione dei rapporti sociali tra reclusi.

Secondo diverse associazioni a tutela dei detenuti, si tratta di restrizioni che non sempre riflettono la necessità di impedire i contatti tra prigionieri e gruppi criminali, ma potenzialmente sconfinano nella pura vessazione.

Le origini del carcere duro

Il regime speciale è nato nel clima delle stragi mafiose del 1992. Probabilmente, solo entrando nella storia drammatica di quel periodo è possibile capire come mai – a distanza di 24 anni – non solo sia ancora in vigore, ma regoli la vita di 729 detenuti. Più di un quarto dei quali in attesa di sentenza definitiva, 161 reclusi da un periodo che va dai 10 ai 20 anni e 29, tra cui diversi ultra ottantenni, al 41-bis da oltre 20 anni.

Quando il 19 luglio 1992 esplode la bomba di via D’Amelio a Palermo, uccidendo il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta, il cosiddetto “carcere duro” in Italia ancora non esiste. Solo il giorno dopo la strage, l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli decide di firmare i primi provvedimenti di 41-bis. Lo Stato vuole mostrare la sua reazione di forza alla mafia e al Paese; così, nel cuore della notte, 55 detenuti (dei 532 complessivi che saranno trasferiti al regime speciale nei giorni successivi) vengono prelevati dal penitenziario palermitano dell’Ucciardone e deportati a bordo di aerei militari verso l’isola di Pianosa.

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La decisione del ministro Martelli poggiava su un comma varato dopo l’altra sanguinosa bomba del 1992, quella che il 23 maggio aveva colpito il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca, e tre componenti della scorta. La norma – voluta dallo stesso Falcone e alla quale non era stata data attuazione anche per via della sua estrema rigidità – fu quindi “sbloccata” dalla strage di via D’Amelio. Da allora, il ministro di giustizia può sospendere, in caso di “gravi motivi di sicurezza pubblica,” le normali garanzie dei detenuti. L’obiettivo formale è impedire il passaggio di ordini o altre comunicazioni tra i criminali in carcere e le organizzazioni d’appartenenza sul territorio.

Come funziona il regime speciale

Ispirato alla carcerazione speciale anti-terrorismo abolita nel 1986, e nato come misura temporanea, il 41-bis è stato periodicamente prorogato fino al 2002, quando con la legge 279 entra stabilmente nel nostro sistema penitenziario. In base alle ultime modifiche del 2009, il ministro della giustizia – sentiti gli uffici giudiziari antimafia – può disporre il carcere duro per qualsiasi detenuto accusato di reati legati al crimine organizzato con un primo decreto della durata di 4 anni, rinnovabile (potenzialmente all’infinito) ogni due anni.

Nel tempo, il numero dei detenuti al 41-bis è passato dai 543 del 1993 ai 729 (tra cui sette donne) del dicembre 2015, dislocati in 13 penitenziari tra il centro, il nord Italia e la Sardegna. Si tratta soprattutto di persone accusate o condannate per associazione mafiosa, ma ci sono anche terroristi politici (circa il 20 per cento del totale).

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Il ricorso del detenuto contro il regime 41-bis è sottoposto al vaglio esclusivo del Tribunale di sorveglianza di Roma che, peraltro, molto raramente accoglie i reclami. Secondo alcuni osservatori, è a questo livello che il meccanismo del carcere duro presenta maggiori criticità, soprattutto quando si tratta di contestare i decreti di proroga del ministro della Giustizia.

Come indicato dalla Corte costituzionale, infatti, ogni rinnovo dovrebbe presentare delle ragioni “attuali” che giustifichino la permanenza del detenuto al carcere duro. Tuttavia, come spiega a VICE News Carlo Fiorio, avvocato e professore di Procedura penale all’Università di Perugia, “nella prassi le proroghe forniscono motivazioni stereotipate, quasi un copia-incolla del decreto precedente. Spesso non tengono neppure conto di fatti concreti che rendono il rapporto tra detenuto e gruppo criminale esaurito o non più possibile.”

Il caso Provenzano

Per molti, un esempio in questo senso è rappresentato da Bernardo Provenzano, al 41-bis da quando è stato arrestato nel 2006, dopo 43 anni di latitanza. Il boss è morto nel luglio 2016 a 83 anni, e da oltre due era ricoverato nella camera ospedaliera di massima sicurezza dell’ospedale San Paolo di Milano.

A settembre 2015 il primario del reparto aveva descritto così le sue condizioni di salute: “Allettato, totalmente dipendente per ogni atto della vita quotidiana. Portatore di pluripatologie cronicizzate, portatore di catetere vescicale a permanenza, alimentazione spontanea impossibile se non attraverso nutrizione enterale (sondino naso-digiunale).”

E ancora: “Grave decadimento cognitivo, sindrome extrapiramidale, esiti di emorragia cerebrale. L’eloquio spontaneo, quando presente, è di tipo confabulante e assolutamente incomprensibile.”

Nonostante questa perizia – e il parere delle procure di Caltanissetta e Firenze, contrarie al rinnovo del 41-bis – nel marzo dello stesso anno il ministro Andrea Orlando ha prorogato il carcere duro per Provenzano, considerato ancora in grado di “mantenere contatti con esponenti tutt’ora liberi dell’organizzazione di provenienza.”

In questo caso persino giuristi tutt’altro che contrari, in linea generale, al carcere duro come l’ex magistrato Antonio Ingroia e il giudice Alfonso Sabella, hanno criticato l’applicazione del 41-bis a una persona in stato di semi incoscienza – ragione per cui, peraltro, la posizione giuridica di Provenzano è stata sospesa in diversi processi che lo vedevano ancora imputato.

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Del resto, data la sua natura emergenziale, il potere di applicazione del 41-bis appartiene all’esecutivo, cioè al ministro della giustizia. In altre parole, a un uomo politico, le cui scelte sono per definizione soggette al giudizio e al consenso degli elettori.

È lecito chiedersi, dunque, quale personaggio o gruppo politico si assumerebbe oggi la responsabilità di essere associato alla revoca del carcere duro a un boss di Cosa Nostra, sebbene ammalato. “In questo senso,” continua Fiorio, “sarebbe auspicabile che la decisione di sottoporre un detenuto al carcere duro fosse in capo al sistema giurisdizionale e non a quello politico-amministrativo. Anche per non inquinare il principio democratico della separazione dei poteri.”

La trattativa

Per comprendere, almeno in parte, l’intransigenza che oggi contraddistingue il 41-bis è utile ritornare al 1992. Dopo l’introduzione del carcere duro, e fino all’ottobre del 1993, gli attentati di Cosa Nostra diventano sempre più cruenti. Per la prima volta la mafia siciliana attacca lo Stato e colpisce cittadini inermi “in continente,” con le bombe di Milano, Firenze e Roma che causano dieci morti e quasi 100 feriti.

L’esplosione in via Palestro al Padiglione d’Arte Contemporanea a Milano, il 28 luglio del 1993. Via

In questo clima, nel febbraio del 1993, i familiari dei prigionieri al carcere duro scrivono al presidente della Repubblica Scalfaro una lettera, dai toni piuttosto aggressivi, contro le condizioni detentive del 41-bis. Nel novembre del 1993 il ministro della giustizia Giovanni Conso, succeduto a Martelli, non rinnova il regime speciale per 334 reclusi.

Questa catena di eventi (insieme al misterioso “papello” con le richieste di Cosa Nostra alle istituzioni) è sufficiente per inserire il tema del 41-bis al centro della presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Ascoltato nel 2010 dalla Commissione parlamentare antimafia, Conso sostiene di aver deciso di non prorogare il carcere duro per quei detenuti “in piena solitudine” e con “l’intenzione di fermare la minaccia di altre stragi,” ma senza cedere a nessuna trattativa. Parole che non possono essere ulteriormente precisate, visto che l’ex ministro è morto lo scorso agosto a 93 anni.

È plausibile, dunque, che proprio l’origine del 41-bis – nato come risposta emergenziale alla mafia e subito risucchiato nell’ombra della trattativa – spinga oggi lo Stato a tenere un atteggiamento talmente inflessibile da lambire, talvolta, la disumanità? “Io credo di si,” risponde il professore Fiorio. “È chiaro che alcuni detenuti non devono entrare in contatto con l’esterno ma, spesso, il carcere duro è solo un’icona, un simbolo. Come nel caso di Provenzano.”

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C’è comunque da notare che l’opposizione dei boss al carcere duro si è protratta nel tempo, anche con scioperi della fame e dell’ora d’aria da parte di alcuni detenuti. Il 2 luglio 2002, durante un udienza a Trapani, Leoluca Bagarella – cognato di Totò Riina – legge un testo (che secondo alcuni celava una minaccia concreta alle istituzioni) di protesta contro il 41-bis.

Nello stesso anno, a dicembre, alcuni tifosi espongono uno striscione allo stadio La Barbera durante il match Palermo-Ascoli: “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia.” Nessuna di queste contestazioni, tuttavia, ha favorito l’alleggerimento del regime che anzi, proprio nel dicembre 2002, è stato stabilizzato in modo definitivo nel nostro sistema penitenziario.

I punti critici del 41-bis

In ogni caso, dalla sua introduzione il 41-bis è stato al centro di critiche mosse da importanti istituzioni. Nei primi periodi di applicazione, i detenuti sottoposti al carcere duro erano reclusi anche nelle carceri di Pianosa e l’Asinara, prigioni speciali definitivamente chiuse nel 1998. È in questa fase che le denunce di violenze subite dai detenuti (alcuni dei quali poi risultati innocenti) si sono moltiplicate; culminando – nei casi di Benedetto Labita e Rosario Indelicato – con la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per non avere indagato adeguatamente sugli abusi.

Tra il 2003 e il 2013, a seguito delle periodiche visite nelle carceri italiane, è il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT) a definire il 41-bis “fortemente dannoso per i diritti fondamentali dei detenuti” e “non privo di effetti sullo stato delle condizioni somatiche e mentali di alcuni prigionieri.”

Un volantino della campagna “Pagine contro la tortura

In una delle sue relazioni, il CPT ha criticato anche la “militarizzazione” delle sezioni speciali, la cui sicurezza è affidata a un nucleo specifico della polizia penitenziaria, il Gruppo Operativo Mobile; lo stesso reparto che presidiava, durante il G8 di Genova nel 2001, la caserma-carcere di Bolzaneto dove si verificarono ripetuti episodi di violenza contro i manifestanti fermati.

Secondo il CPT, inoltre, utilizzare il 41-bis come strumento di pressione per favorire il pentitismo rischia di essere contrario alle convenzioni internazionali sottoscritte anche dall’Italia e alla stessa Costituzione della Repubblica. Proprio su queste basi, nel 2007, il giudice americano D.D. Sitgraves, negò l’estradizione in Italia di Rosario Gambino, presunto boss di Cosa Nostra detenuto in California, tenendo conto della testimonianza di un agente FBI che riferì la prassi di usare il carcere duro per “ottenere informazioni.”

A inasprire il 41-bis, infine, contribuiscono anche una serie di prescrizioni legate alla vita quotidiana che possono variare a seconda dell’istituto penitenziario. Tra queste, il divieto di fare piccoli lavori di artigianato in cella, di appendere foto e poster alle pareti e l’obbligo di possedere un numero limitato di libri e riviste. Tutte restrizioni raccolte e pubblicate lo scorso aprile in una relazione della Commissione straordinaria diritti umani del Senato, nella quale si auspica un alleggerimento del carcere duro.

“Qualsiasi ragionamento sul 41-bis deve partire dal presupposto che lo scopo della norma non è rendere più afflittiva la pena ma interrompere i legami del detenuto con l’organizzazione criminale,” spiega a VICE News Luigi Manconi, senatore del PD e presidente della Commissione diritti umani. “Tutto ciò che eccede tale scopo è illegale; e al 41-bis abbiamo riscontrato tante, tante, illegalità.”

È realistico, dunque, ipotizzare che la politica nel suo insieme raccolga il messaggio della commissione e modifichi il carcere duro? “Oggi, dato il clima di populismo penale, temo di no,” conclude il senatore Manconi. “Mi auguro, però, che da parte del ministro della Giustizia possa iniziare una riflessione, quantomeno sugli abusi e gli eccessi più evidenti.”

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Foto in apertura di jmiller291 via Flickr in Creative Commons – foto sui social network della Polizia di Stato, via Wikipedia