A oggi la comunità rom in Italia è stimata intorno alle 130-160 mila persone, più della metà hanno cittadinanza italiana. Schematizzando un po’: molti sono rom di antico insediamento, cioè arrivati a partire dal 1400.
Mi trovo in un piccolo container adibito a cucina e salotto, in un campo rom di Prato, e oggi mangerò tedesco. Il cortocircuito è solo apparente, e racconta una dimensione della cultura romaní che sono sicura conoscono in pochi.
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Questa gran mangiata di cibo rom che mi aspetta, e altre che seguiranno, saranno il mio tentativo di aggiungere un piccolo tassello alla conoscenza di un popolo che da sempre è frettolosamente relegato al ruolo del capro espiatorio perfetto. Un “popolo della resistenza” – la definizione è di Henriette Asseo, una storica francese – perché sfugge all’omologazione e per salvare la propria identità è stato capace di adattarsi alle condizioni più disparate.
I canederli di nonno Kokho erano delle sfere perfette. Lo chiamavano Kokho, che in lingua sinta vuol dire cuoco. Era diventato il suo nome, tutti i sinti hanno un nome di comunità, oltre a quello ufficiale.
Il campo si trova ai margini della città, lungo uno stradone.
Qui le macchine corrono e si tuffano poco dopo nel nodo di viadotti che allaccia la zona di capannoni industriali all’autostrada Firenze-Mare. È uno dei quattro campi rom di Prato ed esiste da trent’anni. Per arrivare al container-cucina delle sorelle Piave bisogna attraversarlo quasi tutto, tra prefabbricati e roulotte; ci abiteranno un centinaio di persone, ma vado a occhio.
I canederli del nonno Kokho
La prima cosa che impari quando metti il naso nella storia dei rom è che è un bel casino. La cultura è orale e gli storici si dannano per ricostruirla in modo certo.
“I suoi canederli erano delle sfere perfette. Non c’era un centimetro di pane che sporgeva. Per fare il brodo usava la gallina e legava strette le verdure, perché il brodo rimanesse trasparente. Lo chiamavano Kokho, che in lingua sinta vuol dire cuoco. Era diventato il suo nome, tutti i sinti hanno un nome di comunità, oltre a quello ufficiale.”
Il nomadismo è stato quasi sempre una risposta al fatto di essere perseguitati, scacciati o stigmatizzati. E questo loro rompere continuamente confini politici e geografici è raccontato egregiamente dalla cucina.
A raccontarmi di Kokho sono le sue nipoti, Elena e Lucia Piave, che a molti decenni di distanza da quei canederli perfetti cucineranno per me alcuni piatti tradizionali sinti. E se mi faranno mangiare fino al limite dell’indigestione: crauti, wurstel e pretzel è perché la famiglia Piave arriva in Italia dopo che i loro antenati hanno stazionato a lungo tra Austria e Germania. Nello specifico: il nonno Kokho era originario di Villach, in Austria, mentre la nonna era tedesca. Il risultato è che Elena e Lucia si definiscono sinte, parlano una lingua con forti assonanze col tedesco e sono nate e cresciute a Prato.
La prima cosa che impari quando metti il naso nella storia dei rom è che è un bel casino. La cultura è orale e gli storici si dannano per ricostruirla in modo certo.
Le traiettorie partono intorno all’anno Mille dall’attuale Pakistan (almeno questa è la versione più accreditata) e poi si diramano e confondono, dando origine a vari gruppi (rom, sinti, manouches, kale, romanichals) con le loro specificità, ma che si riconoscono in uno stesso popolo, il popolo romaní. Il nomadismo è stato quasi sempre una risposta al fatto di essere perseguitati, scacciati o stigmatizzati.
E questo loro rompere continuamente confini politici e geografici è raccontato egregiamente dalla cucina. Le cucine anzi, perché ce ne sono varie, a seconda di qual è stata la rotta migratoria. Insomma l’idea è assaggiarle tutte.
Gnocchi alla sinta – Pare Knefli
Iniziamo dagli knefli, gnocchi di pasta fresca conditi con sugo di carne. Guardo Elena che prepara l’impasto con uova, farina e acqua. Poi aggiunge sale e latte e aggiusta la consistenza. Nel frattempo c’è il sugo sul fuoco: su una base di soffritto cipolla e carota scoppietta nell’intingolo uno spezzatino di salsiccia e muscolo di bovino. Con l’acqua che bolle, Elena separa l’impasto a mano, un cucchiaio per volta, e lo mette a cuocere. Siamo nell’ecosistema degli Spätzle però gli gnocchi sono massicci e irregolari, diversi da quelli che ti ritrovi nel piatto se vai in Germania e forse è ciò che rende questo piatto un piatto sinto.
A tavola siamo in sei. Oltre a me e Alice la fotografa ci sono le cuoche; Giuseppe Piave loro padre, taciturno signore sulla settantina; ed Ernesto Grandini, anche lui sinto nonché Presidente dell’associazione Sinti Italiani di Prato e la persona che devo ringraziare per essere seduta qui. Ernesto è un pozzo di conoscenza e una specie di divulgatore automatico di cultura sinta. Parla in continuazione come se fossimo a lezione, mi pone domande di cultura rom a cui non so come rispondere un po’ per ignoranza un po’ per imbarazzo e mi mostra tutte le foto del suo cellulare: foto d’epoca di famiglie sinte, personaggi famosi sinti, incontri sulla storia dei sinti.
In un momento in cui Ernesto probabilmente sta masticando, le cuoche si fanno coraggio e tirano fuori la storia che fa la mia giornata: “noi discendiamo dagli Eftawagaria” mi dicono, e fanno riferimento a una leggenda che poi tanto leggenda non è. Eftawagaria vuol dire sette carri, quelli dei sette fratelli della famiglia sinta Lehmann-Reinhardt, che dalla Germania si spostarono verso sud all’inizio del Novecento. In quegli anni infatti il capo della polizia della Baviera, Alfred Dillmann, aveva catalogato le famiglie rom presenti in Germania e proibito loro di svolgere i lavori girovaghi con cui si sostenevano. Qualche decennio più tardi il Terzo Reich fece largo uso dei dati di Dillman per individuare i rom e metterli nei campi di concentramento. Insomma alcuni sinti tedeschi capiscono che non è aria e si spostano verso l’Italia. L’ho riassunta brutalmente ma per approfondire rimando a chi questa cosa l’ha indagata direttamente (qui, pp. 27-35).
Gli Eftawagaria sono un piccolo fenomeno che si inserisce in uno scenario migratorio complesso.
Grazie all’aiuto di Luca Bravi, ricercatore di storia e cultura rom, metto insieme qualche dato di base. A oggi la comunità rom in Italia è stimata intorno alle 130-160 mila persone, più della metà hanno cittadinanza italiana. Schematizzando un po’: molti sono rom di antico insediamento, cioè arrivati dal Nord Europa a partire dal 1400 (i Piave e in generale i sinti germanici stanno in questa direttrice). Poi ci sono due ondate più recenti, che corrispondono grossomodo alla guerra nella Ex-Jugoslavia, con rom di origine balcanica, e all’allargamento dell’Unione Europea, con rom di provenienza soprattutto rumena.
Crauti alla sinta – Shutle Shakh
Il secondo piatto è imponente, nel senso della quantità e della pesantezza. Le cuoche mi dicono crauti, ma il crauto è solo il denso sottofondo a un tripudio carnivoro di wurstel e speck a pezzi grossi.
La cottura è lunga, si parla di 4/5 ore, e Elena precisa: “l’importante è che i crauti perdano tutta la loro acqua, devono cucinarsi nell’olio, non nell’acqua”.
Il risultato però non è particolarmente unto e anzi l’olio non copre affatto il profumo acidulo del cavolo e quello del pepe. Da accompagnare al piatto di crauti ci sono le patate, si chiamano stickade matreli, cioè patate soffocate. Anche loro devono perdere tutta l’acqua, dice Elena: “le devi cuocere a lungo, girandole spesso, finché iniziano a sfaldarsi e assumono una consistenza a metà tra la patata e il purè”. E aggiunge: “nella ricetta sinta insieme alle patate ci va anche il wurstel, ma oggi non l’ho messo”. Sento di esserle grata per questo.
Se il cavallo è vietato, in compenso tra i rom si mangiava molto porcospino e la ragione è sempre la stessa: la reperibilità, per chi vive con pochissimi soldi a disposizione.
Giuseppe, il padre, in generale defilato, ogni tanto attacca a raccontare aneddoti di cucina e lo vedi che si illumina tutto. Da buon figlio di Kokho, ha ereditato la passione per il cibo e ha smesso di cucinare solo quando le figlie erano diventate abbastanza brave e lui abbastanza vecchio.
Da lui imparo due o tre cose sulla carne nella cucina sinta. “Qui hanno usato il maiale ma nella tradizione sinta la carne era di gallina o di papera, erano gli animali che riuscivamo a trovare più facilmente. Si andava dal contadino e si barattava qualche gallina con qualche manufatto artigianale. Altre volte si rubavano proprio, era per sopravvivenza.” Le figlie lo guardano male, lui ride con gli occhi.
“Una volta poi – prosegue – ho cucinato il cavallo. Mio padre ha riconosciuto l’odore da fuori e mi ha urlato: butta via tutto compresa la pentola e non ti permettere mai più.” Nella cultura rom il cavallo non si mangia, è un animale sacro, considerato parte della famiglia, perché trainava le carovane, permetteva gli spostamenti. Ma Giuseppe c’ha in viso quella fiamma di curiosità tipica dei cuochi che vanno a mettere le mani dove non si dovrebbe solo per scoprire che sapore ha. E insomma ha cucinato il cavallo.
Se il cavallo è vietato, in compenso tra i rom si mangiava molto porcospino e la ragione è sempre la stessa: la reperibilità, per chi vive con pochissimi soldi a disposizione. Adesso capita molto di rado e Giuseppe è l’unico del campo che ancora saprebbe come cucinarlo.
Strudel – Shtrudla
Finiamo con uno strudel, un classico strudel con un ripieno di mele, noci, uvetta e cannella. “L’unica variante rispetto alla ricetta sinta è la pasta – mi spiega Lucia – quella tradizionale fatta a mano è simile alla pasta fillo. Qui invece ho comprato una pasta sfoglia al super”. Compromessi della modernità, ma considerato che è da ieri sera che preparano questo pranzo, come fai a biasimarle?
Mentre mi sforzo di trovare spazio per ingerire ancora qualcosa, Ernesto è ancora pieno di energia. E ci racconta cosa è stato nascere in Italia nel ’55 ed essere messo nelle scuole speciali, quelle dedicate ai bambini rom, che aprivano negli scantinati quando non era orario di lezione per gli alunni “ordinari”. Come è stato essere guardato sempre con sospetto e paura oppure sentir parlare della tua gente solo come spauracchio nelle campagne elettorali. Che lui non ha problemi, è uno scafato e un chiacchierone, ma per un sinto dire chi sei richiede coraggio, perché può voler dire perdere un lavoro.
Le donne iniziano a rassettare, Ernesto ha molti impegni nel pomeriggio. Giuseppe riceve una chiamata, deve andare ad affilare dei coltelli da una ditta pratese: “arrivo fra 20 minuti, e riattacca.”
“Vedi – mi fa Ernesto – questa è la scaltrezza del lavoro per i sinti. Non sai dove sarai fra un’ora, ma se vuoi lavorare ci devi essere”.
Ernesto un giorno ti racconto dei freelance, ora però andiamo a digerire.