Ho appena investito una quantità spropositata del mio tempo di quasi trentenne a guardare la seconda stagione di Skam Italia—quella serie di derivazione norvegese che attraverso l’uscita giornaliera di clip e contenuti sui social in tempo reale ti coinvolge per almeno tre mesi della tua vita.
Per la critica italiana l’esperimento transmediale è passato pressoché inosservato, nonostante i milioni di visualizzazioni e il seguito composto soprattutto da teenager in fissa con Niccolò, Martino, Eva e tutti gli altri protagonisti di Skam.
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Questo probabilmente perché i giornalisti italiani hanno superato l’adolescenza da un pezzo. Come me, del resto. Ma so anche di appartenere a un’altra categoria molto più vasta: quella che naviga sulla soglia dei trent’anni o oltre, e continua a preferire serialità che facciano rivivere tutte le proprie prime volte della sua vita—il primo sesso, il primo vomito, la prima canna—a suo rischio e pericolo.
Il paradosso, infatti, è che non è detto la visione delle suddette serie alla fine ci soddisfi: per esempio la serie Baby, ispirata alla vicenda delle baby squillo dei Parioli, presenta in realtà dei topoi adolescenziali così poco sviluppati che mi ci sarei rivisto probabilmente solo se avessi avuto sedici anni. Soltanto che ne ho 27, di anni, e alla fine della sesta puntata mi sono chiesto perché io e tutti i coetanei di mia conoscenza ci ostiniamo a propendere per prodotti con adolescenti che fanno cose, e preferiamo nel profondo contenuti frivoli alla The End of the F***ing World senza batter ciglio.
Ma perché? È un problema generazionale? Quali sono i motivi che ci spingono in questo circolo vizioso? L’ho chiesto a Gianluca Franciosi, psicoterapeuta focalizzato sullo studio del rapporto che abbiamo con le serie tv, e che ho avuto modo di ascoltare a un talk Fox sul perché scegliamo prodotti seriali che sappiamo già ci faranno probabilmente piangere o angosciare—qualcuno ha detto, per caso, 13 Reasons Why?
Franciosi mi spiega che ‘nostalgia’ è una parola di fondamentale importanza in questo discorso, perché l’adolescenza, “oltre ad essere la fase di passaggio per antonomasia” più delicata nel corso della vita, è soprattutto il momento in cui tutte le emozioni sono “vivide” e “amplificate al massimo.” Con il passare degli anni e delle esperienze queste diventano maggiormente ponderate. Si tratta di una delle principali conseguenze che ci spinge a ricercare “prodotti dall’effetto déjà vu” che ci ricordino quando vivevamo sentimenti ed esperienze con maggiore intensità e sregolatezza. Ciò però non significa per forza che siamo rimasti bloccati nel passato, piuttosto è da considerarsi come una spinta a volersi mettere in discussione senza correre davvero dei rischi.
“Rivedere da adulti quella che è l’adolescenza ci dà la possibilità di fare un test conoscendo le risposte,” chiarisce Franciosi. “Riuscire spesso a prevedere quello che farebbero i protagonisti alla luce dell’esperienza che abbiamo maturato ci dà un senso di maggiore potenza: perché col sorrisetto sappiamo che noi, col senno di poi, ci saremmo comportati differentemente.”
E questo può legarsi, ovviamente, a un altro genere di nostalgia—”nostalgia per l’adolescenza che non si è vissuta.” Attraverso “il processo del come se, immedesimandosi in un personaggio specifico,” mi spiega Franciosi, “abbiamo la possibilità di riavvolgere il nastro del film della nostra vita, tornare a quel punto in cui avremmo voluto agire diversamente, e vedere cosa sarebbe potuto accadere.”
Questo vale non solo per momenti o situazioni potenzialmente piacevoli, ma anche per avvenimenti negativi e segnanti: “Se scelgo un contenuto che mi parla di tematiche come il bullismo e da adolescente ne sono stato vittima, posso farlo per avere una sorta di riscatto, una ‘piccola vendetta’—perché a monte il bullo dagli atteggiamenti denigratori, solitamente un personaggio che si ripete spesso nelle serie tv del genere, viene alla fine punito, si redime o fa una brutta fine.”
Del resto, nelle serie tv adolescenziali esistono degli archetipi, declinati sempre un po’ diversamente, in cui possiamo rivederci in qualche modo o rivedere personaggi del nostro passato—non solo il bullo con problemi a casa, ma anche il personaggio queer che sta processando la fase di coming out, la ragazza che si toglie un attimo gli occhiali e diventa miss mondo, il ragazzo disagiato dalle grandi potenzialità e via discorrendo. Ovviamente sono generalizzazioni, e per fortuna da quando negli anni dieci del Duemila, grazie soprattutto a Skins, sono tornati con forza i teen drama, mediamente i personaggi sono diventati molto più accurati e veri—per dire, c’è un abisso di sfumature che separa la trattazione della salute mentale da Marissa Cooper a Cassie Ainsworth.
Ma rimane comunque qualcos’altro da non sottovalutare. “Il fatto che il più delle volte in queste serie i personaggi non siano reali adolescenti ma attori più grandi, contribuisce a far sì che un adulto riesca a empatizzare molto più facilmente,” spiega Franciosi. “Molto spesso troppa barba o muscoli su un sedicenne ti rendono perplesso, ma è anche per questo che ti ritrovi più a tuo agio.” O a innamorartene senza provare grandi colpe, aggiungerei.
Al di là di delle spinte interne o di come vengano pensati a monte i prodotti adolescenziali, secondo Franciosi bisogna non sottovalutare, come ormai dimostrano diversi studi, il fatto che il periodo adolescenziale, per gli “adulti”, si sia allungato per una serie di fattori esterni. “Da un punto di vista sociale, e per gli effetti politico-economici della nostra società, capita sempre più spesso che i giovani adulti vivano una vita simil-adolescenziale, in camerette simili a quelle delle serie tv o ancora coi propri genitori,” spiega. “E questo depone a favore del ricercare contenuti che siano in linea con la propria età percepita piuttosto che alla propria età anagrafica reale.”
Inoltre, dato che ormai le serie tv sono il nostro argomento di conversazione preferito, e messo in conto che sempre più trentenni conducono una vita da post-adolescenti, è fondamentale rimanere aggiornati sulle tendenze. “Guardare dei contenuti adolescenziali condivisi con gli altri favorisce l’interazione coi propri coetanei,” chiarisce Franciosi. “Se tu guardi una serie e voglio interagire con te, è utile che la guardi anch’io in modo da avere un argomento di cui discutere. Si tratta ormai di un vero e proprio fenomeno sociale, oltre che individuale.”
“Può sembrare il punto più banale, ma è anche il più importante: scegliere una serie tv o contenuto che parla di adolescenti, quindi di argomenti un po’ più leggeri, che abbiamo già vissuto, ci aiuta a staccare dalla nostra routine e vivere dei momenti di leggerezza, guardando al passato per non pensare al futuro,” conclude Franciosi.
In tutto questo, almeno per quanto mi riguarda, mi aggrappo al ‘mal comune mezzo gaudio’: se le serie adolescenziali alla Sex Education sono ormai un po’ la coperta di Linus della mia—pardon, nostra post-adolescenza—direi che non è andata poi nemmeno così male. Del resto, per iniziare a sentire proprie serie come Grace and Frankie, in cui degli anziani iniziano a comportarsi come dei teenegar, c’è ancora un sacco di tempo.
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