È capitato a chiunque, soprattutto durante gli anni dell’adolescenza, di avere difficoltà nel far convivere due lati di sé—l’io che conoscono i genitori e l’io che conoscono gli amici, o ancora quello “pubblico” e quello privato. Quando a dover convivere non sono solo due lati della propria personalità ma due modi di vivere e due culture diverse, le cose si complicano ulteriormente.
È il caso di Karim El Maktafi, un fotografo 24enne nato a Desenzano del Garda da genitori marocchini e cresciuto a metà tra due culture, quella italiana e quella marocchina. Karim ha raccontato queste due identità e la difficoltà di farle convivere in Hayati (in arabo, “la mia vita”) fotografando la sua vita e quella di amici e parenti, per metterne in luce le differenze.
Videos by VICE
Il progetto, presentato da Fabrica—il centro di ricerca sulla comunicazione dove Karim ha studiato per un anno, a Treviso—ha già ottenuto diversi riconoscimenti ed è esposto a FotoLeggendo, festival di fotografia di Roma, dal 16 giugno al 1 luglio. Alla vigilia dell’apertura dell’esposizione ho parlato con Karim della sua adolescenza, dei diversi aspetti della sua identità e di cosa vuol dire essere un italiano di seconda generazione in questo momento.
VICE: Da dove nascono la tua passione per la fotografia in generale e questo progetto in particolare?
Karim El Maktafi: La passione per la fotografia nasce verso i 15 anni in modo molto casuale, scattando con uno smartphone. Con il tempo la cosa è diventata sempre più forte, e poi una vera e propria passione, nonché il mio modo di esprimermi. Così ho continuato a fotografare, mi sono diplomato all’Istituto Italiano di Fotografia, e poi un anno fa sono arrivato a Fabrica.
Per quanto riguarda questo progetto, è nato da un’intuizione: una volta finito il corso mi sono messo a pensare a una storia da raccontare. Facevo ricerche su ricerche, concentrandomi però sugli stimoli che venivano dall’esterno. A un certo punto il mio capo dipartimento mi ha suggerito di provare a fare un lavoro di introspezione e di raccontare la mia storia. All’inizio ero abbastanza scettico: fare una cosa personale significa guardarsi dentro e aprirsi. Ma piano piano ho capito che la mia storia mi offriva tutti gli spunti necessari per un progetto e che valeva la pena provare a raccontarla.
Come sei arrivato al tema dell’identità, centrale nel tuo lavoro, e cosa significa essere un ragazzo italo-marocchino?
Innanzitutto significa che ovunque vengo guardato un po’ come uno straniero: succede in Italia e anche in Marocco—dove con la mia famiglia quasi tutti gli anni passiamo il mese di agosto, dopo un viaggio che come molte famiglie marocchine facciamo in auto attraverso lo stretto di Gibilterra.
Il fatto è che ripensando alla mia storia è stato evidente che in me convivono due identità, che ho cercato di cogliere con la fotografia: una è legata agli amici, alla scuola, alla vita sociale, al divertimento, ed è completamente italiana; l’altra legata invece alla casa, alle tradizioni e alla famiglia, che è completamente marocchina. Con il tempo si impara a farle convivere e a dare il giusto valore a entrambe, ma crescendo non sempre è facile.
Nel tuo caso, in che modo è stato difficile far convivere queste due identità?
Non è una problematica che si è mai palesata in modo esplicito, nel mio caso. Magari arrivato all’adolescenza mi sono scontrato spesso con i miei genitori perché facevano fatica ad accettare il mio modo di divertirmi, di vivere il sociale.
Poi ovviamente c’erano tutte le trafile burocratiche: ricordo che dovevo andare ogni tot a rinnovare il permesso, occasione in cui mi prendevano le impronte digitali. Non si tratta di grandi drammi, ma quando sei piccolo sono scene che hai visto solo nei film e che non comprendi.
Con la nuova legge sulla cittadinanza, arrivata qualche giorno fa in Senato, gli italiani di seconda generazione avrebbero vita un po’ più facile.
Sì, trovo assurdo che ancora non ci sia una legge in tal senso. Io sono fortunato perché ho ricevuto la cittadinanza italiana a 14 anni, dopo che mio padre l’aveva a sua volta ottenuta. Ma non averla crea un sacco di complicazioni. Non capisco come sia possibile che una persona che nasce o cresce in Italia non sia considerata italiana.
Restando all’attualità, è più difficile essere un italo-marocchino in Italia in questo periodo?
Io vivo in un paesino di 5.000 abitanti, ci si conosce tutti e i miei sono lì da 30 anni, completamente integrati. Però percepisco più diffidenza, la gente ha paura. Venendo agli ultimi casi [l’attentato al London Bridge], ti senti anche un po’ chiamato in causa perché [uno degli attentatori] era un ragazzo della mia età e italo-marocchino, e non riesci davvero a spiegarti in nessun modo cosa può portare ad atti del genere.
Torniamo al progetto: la particolarità di queste foto è che sono fatte con uno smartphone. Da dove deriva questa scelta? E quella di non usare le didascalie?
Non ci sono le didascalie nelle foto perché uso molto poco la scrittura. Per fare questo lavoro ho svolto delle ricerche e scritto la presentazione introduttiva del progetto e volevo fermarmi lì. L’ho pensato come degli appunti: invece di usare una penna ho usato uno smartphone, e mi piacerebbe che chi lo vede riuscisse a farsi un’idea di quello che voglio trasmettere senza bisogno di parole.
Per quanto riguarda lo smartphone, invece, la scelta si deve a vari motivi. Ho iniziato a fotografare con lo smartphone anni fa, e mi piaceva l’idea di usarlo di nuovo ma con più consapevolezza. In più c’è il fatto che i miei genitori erano molto riluttanti all’idea di farsi fotografare: non volevo rubare fotografie, ma uno smartphone era meno invadente.
Con il tempo sei riuscito a convincerli?
No, niente da fare. È una battaglia che porto avanti quotidianamente, non è assolutamente facile. Credo che sia un fatto generazionale come di origine. I miei non vedono quello del fotografo come un lavoro vero e proprio e la fotografia come un mezzo di espressione. In più, essendo marocchini prevale la riservatezza e non capiscono perché dovrei mostrare tratti della mia vita privata a persone che non mi conoscono.
Che progetti hai per il futuro?
Innanzitutto mi piacerebbe che questo lavoro diventasse un libro. Poi vorrei continuare a lavorare sulla tematica dell’identità, a cui vorrei legare quella della memoria. Mi piacerebbe andare oltre la mia storia, e quindi fare un lavoro più vasto sugli italiani di seconda generazione.
Guarda altri lavori di Karim sul suo sito. Segui Flavia su Twitter