Per la prima volta nella storia d’Italia, ieri la magistratura ha messo sotto sequestro un’ intera caserma dei carabinieri (la “Levante” di Piacenza) perché dentro si commetteva ogni tipo di reato—al punto tale che gli inquirenti hanno parlato di circostanze e atteggiamenti “alla Gomorra.”
L’operazione Odysseus, coordinata dalla procuratrice Grazia Pradella, ha messo sotto indagine un totale di 22 persone, tra cui ben dieci carabinieri. Cinque di loro sono finiti in carcere, uno (il comandante della stazione) è ai domiciliari, tre hanno l’obbligo di firma e un altro l’obbligo di dimora. In sostanza, soltanto un unico carabiniere in servizio in quella stazione è risultato immacolato.
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Come ha scritto il gip Luca Milani nell’ordinanza di custodia cautelare, “non è stato semplice rendersi conto […] che dietro i volti sempre cordiali e sorridenti di presunti servitori dello Stato, incrociati più volte nei corridoio e nelle aule del tribunale di Piacenza, potessero celarsi gli autori di reati gravissimi.”
E in effetti, i reati contestati sono davvero tanti: si parla di traffico di sostanze stupefacenti, estorsione, ricettazione, abuso d’ufficio, falsità ideologica, truffa ai danni dello Stato, violenza privata, arresti illegali e tortura. I crimini sarebbero stati commessi a partire dal 2017, con una decisa accelerazione nel bel mezzo della pandemia di coronavirus.
Stando all’accusa, infatti, durante il lockdown i carabinieri curavano l’approvvigionamento e la custodia delle droghe, tenevano i contatti con gli spacciatori e svolgevano attività di staffetta per conto loro di modo che non mancasse la disponibilità di sostanze e Piacenza. A volte si procuravano gli stupefacenti direttamente dai sequestri. “Uagliò, la devi far sparire quanto prima,” dice un militare intercettato, “un chilo e mezzo gli ho trovato, il resto l’ho sequestrata, questa qua buona l’ho tenuta. Ho fatto un colpo della madonna.”
Per il resto, il riquadro che spunta fuori dalle intercettazioni e dalle carte è una specie di remake italiano di The Shield. In un’altra conversazione, un carabiniere si vanta di aver fatto “un’associazione a delinquere” a forma di piramide: “Sopra ci stiamo io, tu e lui, ok? Siamo irraggiungibili, ok? A noi non ci deve cagare nessuno.”
Gli inquirenti hanno anche ricostruito diversi pestaggi avvenuti all’interno della caserma ai danni di cittadini stranieri e presunti spacciatori. A marzo gli indagati arrestano un pusher di origine nigeriana e lo picchiano selvaggiamente, tanto da lasciare una pozza di sangue a terra. “Quando ho visto la chiazza di sangue,” commenta uno di loro, “ho detto ‘mo l’abbiamo ucciso.”
In un altro caso, la microspia installata negli uffici registra in diretta il pestaggio di un cittadino di origine egiziana che spiega ripetutamente di non avere niente con sé. A ogni giustificazione si sente il rumore dei pugni, mentre i carabinieri inveiscono con frasi come “stai vedendo quanto tempo ci fai perdere?”. L’uomo invoca pietà, si mette anche a piangere e ha singulti—scrive il Corriere della Sera—“forse indotti da una tecnica simile al waterboarding.” È in quell’audio che il giudice per le indagini preliminari ha ravvisato il reato di tortura.
Nelle carte trovano spazio anche i favori fatti agli spacciatori di fiducia. Uno dei carabinieri, sempre nei mesi scorsi, si presenta “attrezzato” (cioè armato) da un concessionario di Treviso per farsi dare un’Audi A4 a prezzo stracciato. Il militare picchia e minaccia i dipendenti, e uno di questi “si è pisciato addosso” per la paura. In una conversazione intercettata, un altro indagato parla della spedizione e dice: “Hai presente Gomorra? Guarda che è stato uguale. Tu devi vedere gli schiaffoni che gli ha dato.”
Dall’ordinanza emerge anche il tenore di vita dei carabinieri indagati, assolutamente sproporzionato rispetto al loro stipendio, nonché una clamorosa spavalderia (“a noi non arriveranno mai”). Uno di questi era il proprietario di una villa con piscina dove—in totale spregio alle misure di contenimento del coronavirus—organizzava feste e ritrovi.
A Pasqua, ad esempio, una vicina aveva chiamato il 112 per segnalare un assembramento in giardino; quando però è arrivata la pattuglia, i militari si sono accorti che si trattava della casa del collega e sono andati via. L’operatore in seguito ha girato l’audio della chiamata al carabiniere arrestato, il quale ha detto di “voler sentire la voce per capire se è la mia vicina, per togliermi lo sfizio.”
E sempre a proposito di sprezzo del lockdown, la procuratrice Pradella ha segnalato un altro episodio piuttosto esemplificativo nel corso della conferenza stampa tenutasi ieri. Nel momento più duro della prima ondata, uno dei carabinieri indagati “firma e controfirma un’autocertificazione per permettere allo spacciatore di muoversi verso la Lombardia per procacciarsi lo stupefacente.”
In sostanza, mentre gli italiani stavano a casa e magari si beccavano multe per aver passeggiato nel posto sbagliato, quelli che dovevano vigilare sul rispetto delle regole spacciavano e torturavano in totale tranquillità—e lo facevano convinti di farla franca, perché la divisa li poneva al di sopra della legge.
“Tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi nel lockdown” ha sottolineato la procuratrice. “Faccio fatica a definire questi soggetti ‘carabinieri’, perché i comportamenti sono criminali. Non c’è nulla di lecito nei comportamenti.”
Dal canto suo, il comandante provinciale Stefano Savo ha parlato di un “colpo al cuore” e garantito la “totale disponibilità a collaborare per fare piena luce sui fatti.” Sempre ieri l’arma dei carabinieri ha rilasciato un comunicato in cui annuncia “la sospensione dall’impiego nei confronti dei destinatari del provvedimento giudiziario,” aggiungendo che “i gravissimi episodi oggetto di indagine [sono] ulteriormente aggravati dall’incommensurabile discredito che gettano” sul corpo.
Le reazioni del mondo politico sono state più o meno concordi—nel senso che, dal centrodestra al Movimento Cinque Stelle, si è ribadita la fiducia nei carabinieri e tirato in ballo la solita figura retorica delle “mele marce” da levare dal cestino sano. Il segretario della Lega Matteo Salvini ha dichiarato che “l’eventuale errore di pochi” non deve essere “la scusa per infangare donne e uomini in divisa.”
Tuttavia, e senza necessariamente tirare in ballo l’omicidio di Stefano Cucchi, se si scava un attimo nelle cronache ci si accorge che di “errori” simili ce ne sono diversi. Per restare nella stessa città, nel 2013 quattro poliziotti in servizio alla Questura sono stati arrestati perché acquistavano e vendevano cocaina insieme ad una banda di pusher.
A Roma, invece, un’inchiesta antidroga del 2015 aveva beccato tre carabinieri che gestivano un giro di spaccio: i militari rubavano la droga sequestrata e la consegnavano ai pusher pretendendo denaro in cambio. Nel 2011, altri due carabinieri di Roma erano stati fermati mentre vendevano tre panetti di cocaina. Sempre intorno allo stesso periodo, un’indagine aveva scoperto che un gruppo di carabinieri di Montagnana (provincia di Padova) aveva l’abitudine di gettare in un fiume gli immigrati “molesti” per “fargli rinfrescare le idee.”
Più recentemente, nel 2017, ben ventisette carabinieri di stanza in Lunigiana (Toscana) sono finiti sotto indagine (e in seguito rinviati a giudizio) per un totale di oltre 130 capi d’imputazione, avvenuti nel corso di 108 episodi di abusi “sistematici e metodici” contro cittadini italiani e stranieri. Nell’ordinanza, che riporta anche una caterva di frasi razziste, il gip ha sottolineato come “l’imponente mole di elementi indiziari ne dimostra un impressionante abituale ricorso alla violenza.” Uno dei carabinieri imputati è persino descritto come qualcuno “non in grado di svolgere la sua attività senza commettere numerosi e frequenti delitti.”
Il caso di Piacenza, insomma, è indubbiamente gravissimo; ma non nasce dal nulla, ed è meno isolato di quello che potrebbe apparire a prima vista.