In Italia i Cannabis Social Club sono ancora un’utopia

Foto via.

In Italia il dibattito sulla legalizzazione della cannabis è parecchio indietro rispetto a tanti altri paesi. La questione, infatti, è sempre rimasta relegata a una zona d’ombra che ha portato nel migliore dei casi alla cancellazione della Fini-Giovanardi, e nel peggiore alle metriche rap di quest’ultimo.

Da qualche tempo però, forse anche grazie all’osmosi delle iniziative intraprese altrove, sembra che qualcuno abbia iniziato a muovere i primi, timidi passi. Sto parlando di una battaglia legale portata avanti dal basso, con una visione a lungo termine, e legata a una disputa che in Spagna ha avuto successo.

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Ho letto qualcosa su questi “primi passi” nel novembre scorso, quando Il Tirreno titolava “A Pisa nasce il Cannabis Social Club.” Un riferimento al modello spagnolo, appunto, paese dove l’utilizzo personale nel privato è de facto consentito. Curioso di capire se a breve qualcosa come i Cannabis Social Club (CSC da qui in avanti) spagnoli avrebbe davvero aperto in Italia mi sono messo in contatto con Franco D’Agata, uno dei principali animatori del movimento anti-proibizionista del nostro paese.

Ho scoperto che con i Cannabis Social Club spagnoli (a parte il nome) quelli italiani—o meglio: quelli che partiranno a metà febbraio se non ci sono imprevisti—hanno davvero poco a che fare: le legislazioni dei due paesi sono ancora molto lontane, e sperare in un cambiamento italiano nel breve termine è al limite dell’inverosimile. Prima di tutto perché l’area grigia legale sfruttata dai CSC iberici in Italia non esiste, e il primo passo è dunque crearla.

Per valutare questa possibilità è innanzitutto necessario capire la situazione in Spagna. Qui, i successi del movimento anti-proibizionista sono cominciati più di venti anni fa. “Il primo passo verso quelli che oggi sono i Cannabis Social Club è del 1993,” mi racconta D’Agata al telefono.

Le cose, stando allo storico attivista di Pannagh (uno dei primi CSC spagnoli) Martín Barriuso, sono andate più o meno così: nel 1993 Arsec, un’associazione mista tra pazienti e consumatori ricreativi di base a Barcellona, decise di mandare una lettera al Fiscal Antidroga catalano (un’autorità legata ai tribunali spagnoli) chiedendo: “Se il consumo personale di cannabis non è illegale, perché non dovrebbe esserlo anche la coltivazione per uso personale?”

Al centro della foto: Martín Barriuso. Via.

Il Fiscal rispose di essere soltanto un organo legislativo e di potersi quindi esprimere soltanto ad azione compiuta. Per tutta risposta i 100 soci Arsec coltivarono 200 piante di marijuana. Di lì a poco Arsec fu denunciato e la polizia decise di sequestrare il raccolto. Il gruppo fece ricorso al Tribunale Supremo—l’equivalente della nostra Corte di Cassazione—e vinse la causa.

A questo primo successo ne seguirono altri, tra i più eclatanti quello dei 200 associati del Kalamudia di Bilbao che nel 1994 coltivarono 600 piante di marijuana e, dopo essere stati denunciati e condannati, vinsero il ricorso in tribunale. Casi simili si susseguirono negli anni a venire finché due giuristi andalusi, Juan Muñoz e Susana Soto, affermarono che in Spagna sarebbero potute nascere coltivazioni collettive nell’ambito di un gruppo chiuso di maggiorenni per uso personale e senza scopo di lucro. Ovvero le basi di quello che diventerà il modello del CSC e, come aggiunge D’Agata, l’inizio “dell’accettazione culturale a livello di opinione pubblica dell’uso di cannabis, questione che in Italia rimane ancora fortemente ideologica.”

Alla base della proposta di Muñoz e Soto c’è la netta distinzione operata dal sistema legale spagnolo tra quello che costituisce “sfera pubblica” e quello che invece costituisce “sfera privata”. Una demarcazione che garantisce un maggior numero di libertà individuali: sia all’interno delle proprie abitazioni, sia all’interno di associazioni—e non solo.

Come mi spiega durante una conversazione telefonica Elia de Caro, uno dei consulenti legali dell’iniziativa di Pisa, “mentre in Italia la detenzione per uso personale è comportamento illecito, per l’ordinamento spagnolo non lo è. Un esempio? In Italia la detenzione per uso personale di hashish è un illecito amministrativo punito con la sospensione della patente o del passaporto da uno a tre mesi. In Spagna è lecito, ed è punito esclusivamente il consumo in pubblico con una sanzione amministrativa di circa 250 euro.”

È su questo concetto di “sfera privata”, ma soprattutto su una legge che consente l’uso privato, che i circa 300 CSC spagnoli oggi in attività hanno fatto leva per espandersi.

Un Cannabis Social Club a

Barcellona

Ma come funziona, nella pratica? A differenza di quanto avviene in Olanda con i coffee shop, i CSC sono associazioni senza scopo di lucro. Come mi spiega D’Agata, “un numero X di membri si mette assieme, redige uno statuto ed elegge un numero di incaricati. Poi dichiara il proprio consumo mensile (per un massimo di 80 grammi pro capite, numero stabilito dalla legge spagnola oltre il quale diventa spaccio), le diverse quantità vengono sommate e l’equivalente in piante del quantitativo prefisso viene messo a coltivazione.” In questo senso, aggiunge De Caro, il CSC diventa “un’estensione collettiva di una facoltà individuale.” Dunque un luogo protetto dal concetto di sfera privata della legge spagnola.

Non a caso, il consumo di cannabis in spazio pubblico è illegale e ai membri del club è vietato vendere cannabis a chi non è membro. E se molti—soprattutto a Barcellona—hanno sfruttato un ordinamento favorevole all’uso privato per creare un business intorno ai CSC, altrove (come ad esempio nei Paesi Baschi) è prevalsa la natura associazionistica del CSC. A ogni modo, evidenzia D’Agata, il motore primo dei CSC non dovrebbe essere la speculazione, bensì la diffusione di una pratica e dei suoi benefici.

In Italia, per il momento, non c’è nulla di tutto questo. “Il modello che i movimenti anti-proibizionisti italiani hanno adottato ha poco a che fare con quello spagnolo,” spiega d’Agata. “La somiglianza principale è, come hanno fatto gli spagnoli negli anni Novanta, nel voler creare le basi giuridiche per una depenalizzazione dell’uso personale di cannabis partendo da esperienze concrete dal basso. Ed è esattamente su questo terreno che intendiamo batterci.” Come in Spagna venti anni fa, dunque, e senza potersi avvalere della stessa concezione di “sfera privata.”

Per questo motivo, invece di forzare una definizione di spazio privato, la lotta del movimento italiano anti-proibizionista parte dall’aspetto medico e dal potenziale terapeutico della cannabis. Il motivo è che in Italia ci sono un numero di pazienti che hanno diritto ad acquistare determinati medicinali a base di cannabinoidi. “Al momento sono un numero limitatissimo, una sessantina al massimo, ma il numero di potenziali beneficiari è molto più alto. Saranno migliaia.”

Roma, manifestazione nazionale antiproibizionista del febbraio 2014. Foto di Federico Tribbioli

I problemi su questo fronte sono principalmente tre: i tempi della burocrazia, i costi e lo stigma sociale legato all’utilizzo di medicinali a base di cannabinoidi. In Italia oggi ci sono due modi per accedere a questi farmaci (tra questi il Bedrocan è il più importante), e il primo è tramite le ASL. Siccome ogni regione impone le proprie regole, ognuna deve decidere sull’acquisto e inoltrare poi la richiesta al ministero della Sanità, il quale a sua volta ordina i prodotti all’estero. Un iter che richiede tempi lunghi e costi elevati sia per il paziente sia per il contribuente.

L’acquisto del farmaco è a carico dello stato e avviene presso rivenditori esteri. Questo crea una situazione per cui il ministero finisce per pagare un prezzo alto per un farmaco che se fosse prodotto sul territorio nazionale avrebbe un costo molto minore. Nel settembre scorso, comunque, il Ministero della Salute ha dato il via libera alla produzione di cannabis all’interno dello stabilimento militare di Firenze, e da quest’anno gli acquisti dall’estero dovrebbero cessare.

Il secondo è tramite un medico privato, grazie a quella che viene chiamata una “ricetta bianca”. I tempi di questo secondo percorso sono più rapidi, ma i costi per il paziente sono molto elevati: i medicinali vengono a costare fino a 40 euro al grammo. Inoltre, non è così facile trovare un medico disposto a prescriver medicinali a base di cannabis.

“Quello su cui la rete anti-proibizionista sta lavorando al momento, il gruppo di Pisa in primis, è la creazione di un numero di associazioni (a Pisa seguiranno Torino, Roma, Bologna e Napoli) il cui statuto specifichi in maniera inequivocabile l’intento di coltivare cannabis a scopo terapeutico e che preveda la possibilità della coltivazione a scopo ricreativo,” spiega D’Agata.

Roberto, uno dei membri del gruppo di Pisa, mi spiega l’idea nel dettaglio: “Il modo migliore di affrontare la legislazione italiana rispetto alla cannabis è di prenderla di petto, in maniera diretta. Al momento ci stiamo ancora consultando con alcuni avvocati riguardo agli ultimi dettagli della nostra strategia, ma per ora—anche se la strategia potrebbe cambiare—la nostra idea è di annunciare la nostra iniziativa e tenere una piantagione nascosta nel pisano con cui servire sia chi ne ha bisogno a scopo medico, sia chi ne necessita per scopi ricreativi.”

La speranza è che davanti al fatto compiuto—”creare le base giuridiche partendo da esperienze concrete dal basso,” come diceva D’Agata prima—i tribunali locali facciano decadere il reato. Più saranno i casi, più saranno i precedenti legali in grado di giustificare un’eventuale depenalizzazione a livello comunale/regionale/nazionale. In questo modo da iniziativa dal basso, la depenalizzazione diventerebbe una decisione dall’alto. È successo a San Sebastian, nei Paesi Baschi, dove il comune ha ufficialmente riconosciuto i CSC alla fine dello scorso anno.

In Italia, i precedenti su cui questa nuova battaglia del movimento anti-proibizionista si può costruire sono pochi, ma qualcuno esiste. C’è il caso di Torino del 2014, in cui il comune ha approvato un ordine del giorno che richiedeva un “sì per l’utilizzo della cannabis a fini terapeutici.” C’è il caso del Tribunale di Avezzano, che nel 2010 ha stabilito che è “doveroso” per i pazienti affetti da sclerosi multipla ricevere medicine a base di cannabis e che queste vengano rimborsate dal servizio sanitario nazionale.

C’è poi il caso di Cagliari del luglio scorso, dove una sentenza del tribunale ha indirettamente dichiarato che la coltivazione di due piante di marijuana sul proprio terrazzo non costituisce reato. C’è il caso del 2013 di Ferrara in cui un giudice ha assolto due giovani, arrestati per aver coltivato quattro piante. E altri ancora: Monza, Ravenna e Milano.

I Cannabis Social Club a cui il titolo de Il Tirreno ha dedicato l’articolo in Italia non esistono. “Sono al massimo un’aspirazione,” conclude D’Agata. E la strada per gli attivisti italiani, seppur strutturata e con una visione che va al di là della tragi-commedia del Canapisa, sarà decisamente in salita.

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