Tornate dalle vacanze. La casa è più brutta e più in disordine di come vi ricordavate di averla lasciata. Riscoprite l’ovvia nozione per cui quando nessuno parla c’è silenzio, ed era un po’ che non vi ritrovavate in quella condizione per più di mezz’ora. Avete una serata da riempire, da soli, e cominciano a farsi largo pensieri infimi che da tempo non ascoltavate. Ecco, in quel momento probabilmente vi sentite soli.
Se questa sensazione vi prende molto spesso, non solo in casi oggettivamente desolanti come il rientro dalle vacanze, e se alla domanda “vi sentite soli” tendete a rispondere in modo affermativo, non siete degli alieni che non si stanno godendo la loro età, ma dei comunissimi giovani—che come molti altri loro coetanei, alle volte accusano la solitudine.
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A confermarlo è un sondaggio Demos dello scorso dicembre, che rivela che quasi quattro italiani su dieci nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni si sentono soli. Nello specifico, su un campione di 1330 persone, il 38 percento di questi dichiara di sentirsi “molto o abbastanza” solo—una percentuale più elevata rispetto a qualsiasi altra fascia d’età, e che conferma una tendenza ancora più diffusa in altri paesi d’Europa.
Per capire radici e conseguenze di questo senso di solitudine ho contattato Antonio Lo Iacono, presidente della Società Italiana di Psicologia e autore del libro Psicologia della solitudine.
Se di primo acchito quello del sondaggio può sembrare un risultato controintuitivo—del resto sono gli anziani a essere più spesso associati al concetto di solitudine nella nostra società—la prima cosa che Lo Iacono mi dice è che in realtà è piuttosto logico. “È, quella delle persone a partire da i 25 anni, una fascia d’età particolare: in questo periodo i giovani si trovano al limite del percorso di studio—hanno finito o stanno finendo–e hanno un problema di collocamento,” mi dice. Il problema di collocamento, continua, non riguarda solo l’ambito lavorativo, ma anche quello prettamente esistenziale.
Quello di cui parla Lo Iacono dovrebbe essere un sentimento familiare a qualsiasi persona tra i 25 e i 34 anni. È l’età in cui, generalmente, cerchi di barcamenarti tra relazioni e lavori, o la loro mancanza. In entrambi i casi, ti senti profondamente lontano da come ritieni un essere umano adulto dovrebbe essere, e contemporaneamente cosciente del fatto che dieci anni fa guardavi persone che avevano l’età che hai tu oggi e le consideravi adulte da un pezzo.
Se quindi un certo senso di precarietà è del tutto naturale, a trasformarlo in solitudine, e a renderci una generazione che si differenzia da quelle passate, è proprio quella banalità per cui i trenta sono i nuovi venti—e le condizioni che oggi quell’età necessariamente comporta.
“Se vogliamo tornare indietro nel tempo e fare un paragone con altri periodi, a 21 anni mio padre lavorava e aveva una figlia. In qualche senso, aveva già una sua ‘definizione’,” mi dice Lo Iacono. “Adesso, al contrario, c’è questa difficoltà a maturare, non perché i giovani sono bamboccioni, come li ha definiti qualcuno, ma proprio per la situazione pragmatica che c’è in Europa e soprattutto in Italia,” continua.
Se Lo Iacono assolve i giovani solo in parte, e in molti casi individua in una certa dose di pigrizia e negligenza le cause dell’eccessivo e prolungato attaccamento che questi—soprattutto i ragazzi—sviluppano con il nido familiare, non ha dubbi sul fatto che si tratti di un attaccamento malsano. “È un attaccamento rabbioso: i giovani provano rabbia per il fatto di non potercela fare da soli,” mi dice. “Sviluppano una forma di aggressività e invidia nei confronti dei genitori che invece hanno già trovato una loro definizione, un loro posto.”
Ma qual è il collegamento tra le condizioni di precarietà economica e il sentimento di solitudine che i giovani dicono di provare? Innanzitutto è necessario capire cosa si intende con l’espressione “sentirsi soli”. Ci sono diverse definizioni di solitudine, ma di base si tratta semplicemente dell’assenza di compagnia. Un concetto, dunque, che non ha alcuna accezione negativa e che è anzi considerato, in una certa estensione, salutare.
Ben altra cosa è il sentirsi soli. Per Lo Iacono, il sentirsi soli è una questione prettamente identitaria, e coincide con il non sapere chi si è. “Se uno è un contenitore di qualcosa, ovunque va, si porta dietro quel che è. Ma se uno non sa chi è, non c’è niente che possa contenerlo: è una questione di essere, non di avere,” commenta. “Saper stare in solitudine senza sentirsi soli, è una specie di test per capire come si sta con se stessi: come diceva Leopardi ‘se sei solo e stai bene stai benissimo, se sei solo e stai male stai malissimo’.”
Nel caso di assenza di un’identità propria, mi spiega Lo Iacono, ci si arrabatta per trovare un senso e lo si cerca all’esterno. “Scavare genera sofferenza, e interrogarsi sul senso che si sta dando alla propria esistenza è un lavoro lungo e faticoso. Pur di distrarsi, ci si appiglia a qualsiasi cosa, si sposa qualsiasi cosa vada a rappresentare un modello temporaneo che ci esoneri da questo percorso di ricerca.”
Qualsiasi cosa… tipo internet!, diranno gli opinionisti da salotto televisivo. Ed è ovvio che internet intervenga in qualche modo in questa solitudine, dato che è una parte fondamentale della giornata di ogni persona tra i 25 e i 34 anni. Ma non va certo cercata lì l’origine di tutti i mali.
Internet, mi spiega Lo Iacono, agisce in modo negativo in due casi. Il primo, è quello in cui lo si usa, così come i modelli che ci propone, come diversivo a una ricerca di se stessi. Il secondo, è quando si cade nell’illusione di poter vivere in tempo reale ogni situazione. “La percezione di vivere 10mila vite ci porta a un’illusione di onnipotenza che crea una grossa confusione, una discrasia tra ciò che vogliamo essere e ciò che siamo che fa sì che, quando le cose non vanno come vogliamo, entriamo in crisi,” conclude.
Stando così le cose, internet o non internet, l’unico antidoto al senso di solitudine sembra essere la solitudine stessa. In caso sia troppo faticoso, potete sempre provare a seguire i consigli di WikiHow.