Il Trentino è la patria di vini sostenibili spettacolari

Trento DOC

“Nei nostri vigneti abbiamo anche messo delle api. Una volta ci abbiamo trovato un orso che si fregava il miele.”

Ho sempre pensato che chi fa vino non può semplicemente trattare male le proprie piante, la propria terra. Chiamatela ingenuità, chiamatela come volete. La mia visione di una vigna non è una chilometrica distesa di monocoltura bensì qualcosa che richiede pazienza, amore, speranza in un tempo favorevole per fare in modo che tutto riesca al meglio. La complessità del vino è affascinante proprio perché i suoi mille fattori di riuscita dipendono tanto dall’uomo quanto dalla terra e dal tempo che si affronta durante l’anno.

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Ma chi mi conosce sa che tendo a sognare un po’ troppo e il mondo del vino ha, come ogni business, la sua parte malvagia fatta di sfruttamento delle risorse del terreno, diserbanti a pioggia e solfiti a manetta, per garantire un prodotto sempre il più simile possibile a quello dell’anno precedente. Non sono la persona più adatta a spiegare il mondo dei vini naturali (questo articolo dell’ottima Diletta Sereni può eccome), ma in generale il mondo enologico italiano è segnato da una regolamentazione labile, in cui sostanzialmente si rimette al tuo giudizio come trattare le tue uve, come coltivarle e come vinificarle.

Ferrari trentodoc etica vino

Ecco perché, quando mi hanno chiesto di andare a visitare i territori dove si fanno gli spumanti Trento DOC, sono partito con l’idea che qualcosa non sarebbe quadrato. Le DOC, come avevamo spiegato tempo fa per DOP e IGP, non sono sempre emblema di etica e qualità, ma associazioni territoriali punto. Ecco, dopo qualche giorno passato a conoscere persone, cantine, aziende e territorio, posso dire con piacevole stupore che da quelle parti le cose le fanno come si deve. E nessuno gliel’ha appunto chiesto: fanno tutto in autonomia.

Per chi non sapesse di cosa si tratta quando si parla di Trento DOC, è giusto spenderci due righe: è l’associazione che, dal 1984, tutela lo spumante Metodo Classico prodotto in alcune zone intorno a Trento. L’azzeccato “sottotitolo” del Trento DOC è “bollicine di montagna”. Oltre ad essere un’associazione di produttori, come qualsiasi DOC o DOP, Trento DOC ha al suo interno una collaborazione strettissima con l’Istituto Agrario di San Michele sull’Adige, con il preciso scopo di formare ragazzi nel mondo dell’enologia e di fare ricerca per un territorio salubre. Insomma, apparentemente tutto molto bello, compresi i punti salienti del disciplinare, che fanno leva sul territorio, il rispetto, la serietà nella lavorazione, le limitazioni di resa per ettaro e le consuete caratteristiche che ne fanno un Metodo Classico (quindi permanenza sui lieviti per un dato periodo minimo, remuage – quella cosa in cui i vignaioli palpano le bottiglie girandole dal culetto – e altre cose tecniche).

Ferrari spumante trentodoc
La tenuta della famiglia Lunelli. Alcuni vigneti sono sulle montagne ad alta quota.

La particolarità di questa DOC è che nel documento, che potete leggervi in dieci minuti in maniera trasparente, si fa riferimento più volte al non sfruttamento delle risorse, seppur evitando di parlare di etichette come biologico o biodinamico.

“Nella vinificazione sono ammesse soltanto le pratiche enologiche leali e costanti, atte a conferire ai
vini le loro peculiari caratteristiche,” si legge a un certo punto. Se si parla di lealtà e territorio, qualcosa vorrà pur dire.

Spumante etico trentodoc
Abbiamo anche imparato la sboccatura dei lieviti a la volèe nella cantina Revì.

“Può un’azienda da 5 milioni di bottiglie l’anno essere davvero rispettosa dell’ambiente e continuare a far crescere i profitti? A quanto pare sì. Dal 2017 hanno convertito in biologico tutti i vigneti”

Arrivato di corsa da Roma, nemmeno il tempo di scambiare due chiacchiere con i miei compagni di viaggio che già si era pronti per la prima tappa, la più grossa: la casa spumantistica Ferrari. Ferrari lo conosciamo tutti, è tipo la bottiglia che si vede in qualsiasi manifestazione statale o sportiva e almeno una bottiglia è passata da ogni casa italiana. E la storia di Ferrari, prima di addentrarci nel discorso etico, è decisamente interessante. C’era una volta Giulio Ferrari. A Giulio Ferrari piaceva il vino e gli piaceva anche la Francia. Se ne va in Champagne, impara il Metodo Classico e pensa: “Secondo me se pianto questo Chardonnay dove sto io a Trento viene fuori una roba clamorosa.” E così si porta le prime barbatelle di Chardonnay che l’Italia avesse mai visto, più di un secolo fa, e le pianta in montagna, pensando (a buona ragione) che il sole di giorno, e l’escursione termica di notte, ne avrebbero dato un buono spumante. Che verrebbe da chiamarlo champagne italiano ma sarebbe un’idiozia. Però, scusate, volevo dirlo. Il fatto che Mattarella offra ai suoi ospiti un calice di quel Ferrari vuol dire che quel tipo aveva ragione.

Non avendo eredi, alla sua morte Giulio Ferrari lascia tutto in mano a Bruno Lunelli, gestore di un’enoteca a Trento. E tuttora è la famiglia Lunelli a gestire l’azienda Ferrari. Finite le dovute premesse storiche, è il momento di farsi la domanda per cui siamo qui. Abbiamo parlato di DOC con tendenze smaccatamente giuste ed etiche. Ma può un’azienda da 5 milioni di bottiglie l’anno essere davvero rispettosa dell’ambiente e continuare a far crescere i profitti? A quanto pare sì. “Dal 2017 abbiamo convertito in biologico tutti i nostri vigneti. E anche chi ci fornisce le uve devono attenersi a questa regola,” dice Camilla Lunelli dopo un giro in cantina. Una cantina dove, tra l’altro, veniamo portati nella sala del remuage, che in parte viene fatto ancora a mano.

La considerazione principe di Ferrari e della famiglia Lunelli si racchiude molto semplicemente in “Vogliamo dare lunga vita ai vigneti.” Quindi niente diserbanti, niente pesticidi e un documento da firmare in cui i viticoltori che li riforniscono con le loro uve si impegnano a trattare le loro vigne nel rispetto dell’ambiente. “Abbiamo 500 produttori che ci forniscono le loro uve” continua Camilla. “E nella maggior parte dei casi parliamo di un ettaro o due. Lo scopo primario è quello di fare star bene le loro famiglie.” Cosa che difficilmente accadrebbe se il campo accanto casa fosse pieno di schifezze chimiche. E il riscaldamento globale? “Il riscaldamento globale è qualcosa che già si sente, è sotto gli occhi di tutti. La nostra fortuna, se così vogliamo chiamarla, è che possiamo sfruttare l’altezza delle montagne. Non è una soluzione, ma un palliativo e abbiamo già iniziato a spostare alcuni vigneti a più alta quota.”

Quindi gli spumanti Ferrari riescono a mantenere alta la qualità, generando profitto in maniera sana. E siccome la conversione al biologico non era abbastanza, hanno deciso anche di abbracciare l’etichetta “Biodiversity Friend”, nel nome non solo delle pratiche agricole di base, ma di una vera e propria biodiversità all’interno delle vigne. “Nei nostri vigneti abbiamo messo anche delle api” mi raccontano a cena. “Per dirti: una volta ci abbiamo trovato un orso che si fregava il miele.”

Cantina romanese trentodoc
Cantina Romanese ha la cantina sotto l’acqua del lago. Usa dei sub per ripescare le bottiglie.

Ma non di solo Ferrari vive la Trento DOC. Quindi era bene toccare con mano anche l’operato delle altre cantine. Due giorni esclusivamente a base di bollicine hanno provato la mia capacità di giudizio, ma ne sono uscito abbastanza vivo.

“I masi, le abitazioni rurali tipiche del Trentino, sono nati sotto il concetto di auto-sostenibilità. Anche per questo rispettiamo la terra intorno”

Insomma, la mattina dopo ci siamo ritrovati alle dieci di mattina ad assaggiare qualche decina di vini – non è stato facile, non ve lo nasconderò. Le zone di produzione del Trento DOC si sviluppano attorno all’area di Trento – naturalmente – e toccano diverse tipologie di terreni e climi. In ognuno di queste zone, però, c’è sempre un Protocollo d’Intesa da sottoscrivere, attivo dagli anni Ottanta, in cui i vignaioli si impegnano ad utilizzare concimi organici, promuovere la confusione sessuale per scacciare insetti infestanti senza torcergli una zampetta e affidare la lotta ai parassiti agli uccelli, che si nutrono di insetti fra le viti. A tutto questo aggiungiamoci anche la razionalizzazione dell’acqua a seconda del terreno. Tra le cantine visitate, quella di Cesarini Sforza è stata una delle più convincenti.

L’enologo della cantina, Ezio Della Giacoma, mi ha raccontato un sacco di cose interessanti. “I masi (le abitazioni rurali tipiche del Trentino, NdR) sono nati sotto il concetto di auto-sostenibilità. Anche per questo si rispetta la terra intorno,” mi dice Ezio. “In questa cantina la produzione rispetta l’equilibrio ambientale, utilizzando pratiche antiche e efficaci, come i sovesci.” I sovesci sono un’ottima alternativa a una sparata di pesticidi chimici: si concima a ridosso delle piante con del letame in autunno e si piantano fiori e graminacee. In questo modo si arricchisce il terreno e si crea biodiversità, oltre che esaltare le caratteristiche del territorio. Il vignaiolo invece mi ha spiegato come sopperisce al problema dei bruchi che si pappano le foglie di vite. “La sera mi metto una torcia in testa, carico la bimba su un marsupio e tolgo i bruchi a uno a uno. Li metto da parte e li uso come mangime per le galline.” Serve pazienza e può essere una bella rottura, ma si fa. Si fa e fa bene.

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Cantina Cesarini Sforza. Quella piccola bimba si addormenta nel marsupio mentre il padre toglie i bruchi di notte.

Il Trentino ha, soprattutto nel caso di Trento DOC, un protocollo molto più rigido rispetto a quello nazionale. Fatto di continui controlli a cui i vignaioli si sottopongono senza problemi: si percepisce questa sorta di energia condivisa che potrei presuntuosamente riassumere con “Far bene alla terra inteso come far bene a se stessi”.

Un’altra grande lezione di civiltà sono le cantine sociali. Che poi sono semplicemente un modo intelligente di valorizzare le uve di piccoli appezzamenti – e da queste parti difficilmente ce ne sono di grandi. Essendo in montagna, spesso si raccoglie tutto a mano, visto che non ci passa letteralmente un trattore tra i filari. In sostanza i produttori viticoli si aggregano e insieme comprano gli strumenti per vinificare e assumono gli enologi per far sì che il risultato sia il migliore possibile. Aggregandosi, restando insieme, si ottiene tutti il risultato migliore. Usando macchinari validi ed esperti che sanno esaltare le caratteristiche dei territori. Una cantina sociale è difficile da certificare, ma non possiamo etichettare tutto, è importante anche la fiducia umana.

Tra le altre cose abbiamo anche visto una cantina sotto l’acqua di un lago. Giustamente non avevano lo spazio per la cantina, quindi perché non sfruttare il fondo freddo del Lago di Levico? E quindi i ragazzi della Cantina Romanese hanno pensato bene di sfruttarlo.

Vigne

Mentre i miei colleghi hanno concluso il loro giro di cantine e si sono meritatamente fatti un giro alle terme, io ho deciso che mi mancava un pezzettino. Va bene l’etica, va bene la biodiversità, ma ero ancora alla ricerca di qualcosa. Insomma, fare vino in maniera sana è molto figo, ma se lo fai a 27 anni è ancora più figo. Ed è così che ho conosciuto Daniele Endrici. Appena l’ho visto pensavo avesse più di trent’anni: i capelli ordinati e brizzolati, il volto serio. Poi ho scoperto che per qualche strana ragione sia lui che sua sorella hanno già i capelli grigi (il che li rende fichissimi) e che Daniele è serio, sì, ma fa anche morire dal ridere. Ma torniamo alle cose importanti.

La sua cantina, Endrizzi (c’è una storia di storpiatura di nomi, ma non me la ricordo, ho bevuto troppo), esiste dal 1885. Fa biodinamico dagli anni Ottanta ed è una delle cantine fondatrici di Trento DOC. “Siamo stati pionieri della sostenibilità,” mi dice Daniele dopo avermi offerto delle ciliegie appena colte in questo scenario di viti, sole e gelsomini. “In mezzo ai filari crescono altre piante, abbiamo dei nidi d’uccelli che si mangiano gli insetti e non stressiamo mai le viti per avere una sovrapproduzione.” Le sue vigne non includono solamente gli Chardonnay e i Pinot che si usano per fare Metodo Classico, si producono anche bianchi e rossi fermi. E il concetto alla base è sempre quello della sostenibilità come principio base della qualità.

“Senti, ma tu devi partire per forza subito?”, mi fa Daniele.

“Beh, dipende cosa vuoi propormi.”

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Ed è così che mi sono ritrovato a una festa di produttori di Teroldego, vitigno a bacca nera coltivato quasi solo in Trentino, a 1000 metri di quota. L’età media non superava i 40 anni. Decine di ragazzi che si sono associati da soli per fare al meglio un vino locale con la testa che guarda al futuro, al presente, al fare bene le cose e divertirsi. Quel giorno ero a pezzi per vari motivi personali, poi mi sono sdraiato sul prato, ho bevuto un numero di calici di cui mi vergogno, mi sono mangiato un chilo di porchetta calda e tutto è passato.

E ho capito una cosa: fare vino in questo modo non serve a fare soldi a palate. Serve a vivere bene. E in Trentino, a quanto pare, tra api e fiori, concimi a base di letame e viticoltori che acciuffano bruchi a mano, sanno vivere alla grande.

E bere ancora meglio.

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