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Come il punk hardcore ci salverà dalla gentrificazione

xm24

XM24 è stato sgomberato ad agosto 2019, ma continua a resistere. Questo articolo racconta l’atmosfera culturale che si viveva tra le sue mura—e tra quelle di Bologna—negli anni prima dello sgombero.

Da qualche mese a questa parte soffro di dolori al collo. Roba di cervicale, non lo so. Spesso mi trovo a scrocchiare il collo senza neanche accorgermene, è diventato un gesto praticamente involontario. Una roba brutta, una roba che mi sta oggettivamente imbruttendo. Fa parte dell’invecchiare, soprattutto se la tua attività sportiva preferita sono gli scacchi.

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Dicono faccia male far scrocchiare le ossa. Dicono ti rovini la cartilagine e sia una cosa che succede lentamente. Negli anni, tutta l’aria che passa finisce per farti somigliare le articolazioni a quelle dei polli sventrati sul piatto del pranzo.

Quando le mie articolazioni ancora funzionavano bene Bologna era una città dove potevi assicurarti una dose settimanale di concerti. Sempre. Inverno, estate, domenica, venerdì. Di quelli che, manco a farlo apposta, ti entravano nelle articolazioni. Concerti da trenta, quaranta spettatori. Di quei quaranta spettatori una decina erano lì con la scusa di bere birra; un’altra decina avevano l’impellente bisogno di sfondarsi i timpani, questioni private di relazioni andate a male o lavori del cazzo; poi c’erano gli amici di quelli che suonavano e poi quei veri cinque fanatici della band, con la maglietta dei Flipper addosso; e infine c’era il solito tizio che si immolava con uno stage diving ad altissima statistica di rischio caduta a terra.

Nei primi anni del millennio Bologna aveva un certo numero di luoghi occupati e autogestiti. C’era, ad esempio, il Bartleby: un collettivo studentesco occupava un grosso edificio in disuso in via San Petronio Vecchio, una storica via cittadina che incontra via Zamboni. Al Bartleby ci passavi le serate, ascoltando musica all’interno del cortile e chiacchierando e scambiando opinioni con le matricole o i ragazzi più grandi. Le tipiche cose che si facevano a Bologna, e la bellezza stava nel sentirsi importanti quando si era davvero ingenui.

Poi c’era Atlantide, una roba strana che si trovava in Porta Santo Stefano. Bologna è circondata da porte medievali costruite verso il XIII secolo e attraversate dalle tipiche mura difensive che tanto andavano di moda ai tempi. Negli anni le mura si sono perdute ma sono rimaste in piedi le porte e i loro casseri, e i due casseri di Santo Stefano furono trasformati, tra le varie cose, in un bagno pubblico, una sede dei vigili urbani, una sezione di quartiere del Partito Socialista, una sede di un circolo anarchico. Agli inizi dei Duemila ci fu l’invasione di un manipolo di punk, queer, freak, anarchici. Luogo di politica attiva, la politica della strada, quella dei diritti inevitabili. Per me Atlantide era il luogo nel quale poteva finire che una domenica pomeriggio ti ritrovavi nel mezzo di un concerto di una band come i Dope Body. Non sono mai stato attivo politicamente, ho vissuto l’Atlantide come molti, approfittando cioè delle band della madonna che gli organizzatori portavano da quelle parti.

Succede che verso il 2010 una parte dei residenti della zona, probabilmente un culto di non-morti tenuto in piedi da un necromante leghista (o piddino) vede nell’Atlantide Occupata un virus da estirpare. Seguono cinque anni di tira e molla, finché un giorno non si presenta la polizia armata di cazzuola, malta e mattoni: è il 9 ottobre 2015 e la porta di Atlantide si trasforma in un muro. Non si è mai capito bene in nome di cosa mandarono avanti la loro battaglia, lo chiamano decoro. La notizia veste a lutto opinione pubblica e stampa in Italia e all’estero.

Oggi in Porta Santo Stefano le cose più decorose che si possono trovare, oltre l’inevitabile silenzio, sono centinaia di blatte che si drogano di smog e rifiuti a onorare le parole del sindaco, Virginio Merola, che definì lo sgombero di quei fatidici giorni “un esempio” per il futuro. In effetti si tratta di un fulgido esempio di quartiere dormitorio, non-luogo nel quale puoi avvelenarti gli occhi e la mente con la televisione in santa pace tra le mura della cucina. Un luogo nel quale la musica al massimo la si guarda durante i provini dei talent show dopo cena.

Nel 2013 anche il Bartleby viene sgomberato e poi murato, se ne fa carico l’Università, desiderosa di riappropriarsi dei suoi luoghi: manganellate celerine da una parte, uova marce che volavano dall’altra. La storia finisce con il Comune che riempie di mattoni e fantasmi l’edificio di via San Petronio Vecchio. Un’altra vittoria per le blatte.

Nel giro di due anni la comunità dei non-morti si accresce. In realtà solo a livello mediatico, tenuta in piedi da logorroiche televisioni regionali e un quotidiano bolognese che si è dimenticato di fare giornalismo, del quale non faccio il nome, ma che potete intuire quale sia: una sorta di organo del partito del decoro.

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Il cortile dell’XM24.

A Bologna si sogna una città nuova: una stazione ferroviaria d’acciaio luccicante, metropolitane alla luce del sole che collegano le periferie, creare un campus universitario in stile ‘mmeriga. Sono davvero dei sogni, perché per il più delle volte i progetti falliscono miseramente. Nel mentre, locali storici sono costretti a chiudere a causa di una totale scollatura tra ordinanze comunali ed esigenze commerciali.

Il progetto della Bologna luccicante tira dritto e adesso punta alla conquista dell’ultima fortezza, di quello che per le istituzioni della città è il male. Ovvero, l’XM24. È difficile spiegare cosa sia a chi non ha mai sentito parlare di uno degli spazi sociali più importanti d’Italia, almeno degli ultimi anni.

È un centro sociale? Sì, cioè, non solo. L’XM (che sta per Ex Mercato) è anche un centro di coordinamento e scuola d’Italiano per migranti; un centro di hacker informatici; una palestra popolare; un orto e un mercato ortofrutticolo settimanale; un collettivo di precari; un centro medico e un consultorio e altra roba.

L’XM è uno dei simboli della Bolognina, un rione che se ne sta a nord, rispetto a un sud che per decenni ha rappresentato la Bologna grassa (andando sempre più giù ci sono i colli, per dirne una). Per arrivare nella Bolognina devi superare il “ponte della stazione”, una roba che in inverno ti congela e in estate ti scioglie, protagonista di migliaia di selfie e foto intitolate “Vasco Brondi” per la quantità di ferraglia degradante che si vede dall’alto e che brilla alle luci del tramonto e dell’alba, cioè la stazione ferroviaria. Nella Bolognina si trova il Museo della Strage di Ustica, nella Bolognina una mattina del 1989 Achille Ochetto si è svegliato e ha deciso di farla finita col comunismo in Italia. Popolare e multietnica la Bolognina, bella lì.

In realtà un annetto fa si era già parlato a livello nazionale dell’XM, a causa del murales che Blu decise di cancellare in un gesto estremo di rottura contro una città che rigetta il proprio stesso sangue culturale. Non ci vuole un genio per trovare un filo rosso tra la sete di appropriazione culturale della Fondazione Roversi, quando si mise in testa di rinchiudere in un museo i murales urbani, con quelli che dicono che l’XM è un bene, ma va sgomberato perché ci sono i drogati e le bestie di satana. Blu venne criticato da molti per la sua scelta, vista come un gesto di indebolimento nei confronti della Bolognina. Il suo murales, e il suo valore culturale riconosciuto anche da chi vede “i centri sociali” come delle minacce all’ordine costituito, aveva infatti salvato l’XM dalla demolizione già nel 2013. Ora il centro sociale di via Fioravanti si ritrova di nuovo a un passo dallo sgombero, inserito nel classico “progetto di riqualificazione” della Bolognina. Riqualificazione, ricordiamo, che è già passata per lo sfratto di decine di famiglie.

Come Atlantide, anche l’XM24 è un posto dove si suona. E si è suonato tanto, tantissimo, grazie anche e soprattutto al collettivo Frigotecniche, sorto in una cella frigorifera dello stabile divenuta sala prove.

Ieri sera sono stato all’ultima serata delle Frigotecniche. Non eravamo in tanti, ma perché Bologna a fine luglio si svuota. Diventa un po’ come la Roma di Verdone in Un Sacco Bello, quel deserto lì, solo che invece di andare in Polonia si pensa di scappare in Spagna.

Dicevo, ieri hanno suonato un po’ di gruppi, è stata una festa ma all’XM ogni festa è anche una lotta. Ho deciso di far parlare di Bologna e di cose importanti chi ha vissuto attivamente quei luoghi. Hanno partecipato a questa intervista i Marnero (nello specifico Raudo, Sabata e Pastura), i Lleroy (Francesco, Riccardo e Chiara), i Cani dei Portici (Claudio e Demetrio) e Luca Rocco degli Storm{o}.

marnero lleroy xm24 bologna
John D. Raudo dei Marnero e Francesco dei Lleroy.

La prima parte è una chiacchierata quasi a due con Raudo, figura centrale dell’hc locale e tutto sommato nazionale (frontman, oltre che dei Marnero, dei leggendari Laghetto).

Se in questi giorni siete a Bologna fate un salto in Via Fioravanti 24, magari nel tardo pomeriggio a bervi una birra tra i tavoli di legno o a farvi un giro per il mercatino dei CampiAperti del giovedì. Se invece siete da un’altra parte, ma anche se siete a Bologna, firmate l’appello per difendere XM24 e tornare a respirare.

Raudo: Bologna aveva un grande numero posti occupati nel 1996. Oggi ci rimangono XM24 e poche altre realtà liberate [Làbas, anche questo sotto minaccia di sgombero, Crash, TPO, N.d.R.]. Questo è il frutto della paurosa svolta a destra del PD, ma non solo. XM24, in particolare, costituisce un problema per il loro nuovo modello di città. C’è un progetto di “rigenerazione” che significa, a lungo termine, gentrificazione. Questo quartiere, la Bolognina, vogliono trasformarlo da quartiere popolare a nuova vetrina hipster di questa nuova città/capitale del cibo. Oscar Farinetti (il capo dei cattivi) è uno degli artefici di questo rendering dell’orrore.

Noisey: Intendi Eataly?
Sì, Farinetti, Eataly. Vedi il progetto FI.CO e capisci un po’ la situazione di Bologna. Stanno cambiando la Bolognina, facendo una vera e propria operazione di spostamento dei suoi abitanti originari verso le periferie. Emarginano le classi più basse, sostituendo le vecchie botteghe, gli alimentari dei migranti e i negozietti con il business del food, cioè il cibo bio come nuova forma di capitalismo e di profitto in mancanza di spazi di mercato. Il tutto, ovviamente, raddoppia i costi e impedisce agli abitanti di questo quartiere di potersi permettere di rimanere qui. Intanto gli affitti raddoppiano e presto la classe meno abbiente se ne dovrà andare. Basta vedere cos’è successo a Kreuzberg, a Berlino, e già si intuisce a che punto siamo e dove si va a finire. L’XM non può esistere all’interno di questo progetto speculativo che riguarda la Bolognina: per questo non lo vogliono più qui.

Come funziona la gentrificazione a Bologna?
Raudo mi indica un complesso mostruoso di fronte a XM24, alti palazzoni rimasti incompiuti nella campagna urbana a due passi dal centro sociale.
Questa cosa gigantesca contiene appartamenti che dovevano essere venduta a un’ipotetica classe media acquirente: terreno venduto a un tot a metro quadro, poi però in realtà quella classe media non esiste, così il prezzo è crollato e il consorzio è fallito. Ma comunque per l’amministrazione questo quartiere deve essere un nuovo SoDoSoPa: un quartierino nel quale quell’immaginaria classe media può bersi i cocktail con vista sulla casa di Kenny.

Ecco, questo SoDoSoPa sarà in Bolognina perché qui c’è la nuova entrata della stazione di Bologna. La vecchia stazione si affaccia su Via Indipendenza, la parte fighetta della città. Adesso la nuova stazione dell’Alta Velocità si apre verso la Bolognina. Deve quindi nascere una vetrina per quelli che arrivano in città. È il principio con il quale si fanno le Banlieu, le Favelas, spostando sempre più in periferia le eccedenze, gli scarti. È tutta una questione di immagine. Solo che siamo in Italia e questa cosa non sta funzionando. La stazione non funziona. La costruzione della stazione di Firenze, che era un progetto fatto ad immagine e somiglianza di quella nuova bolognese, è stata interrotta, proprio perché quella di Bologna è stata un crack totale. La stazione è progettata sul modello di un aeroporto dove tu vai, saluti al Kiss and Ride, aspetti il treno e intanto compri, che ne so, una borsetta. Un progetto che non ha funzionato, perché basato sull’idea un di paese che non è reale. Secondo questa idea immaginaria, sui treni ci dovrebbero essere tutti imprenditori-di-se-stessi nella sala Executive con i sedili in pelle umana. Il paese reale, invece, viaggia accalcato sugli Euronight carro-bestiame con ore di ritardo.

Per tornare a XM, è certo un luogo incompatibile con i rendering di questo tipo di città inesistente. Non va bene per questioni di immagine. Ma è compatibile con la realtà delle cose, anzi, è un luogo ancora più necessario di prima.

Cambiare una città nei suoi aspetti urbani e sociali. È un modello che si sta allargando, qualcosa sta succedendo anche a Torino.
La riqualificazione urbana o, come la chiamano loro, la “rigenerazone”, è la modalità aggiornata con cui cooperative di costruttori e loro amici fanno il business coi soldi pubblici. Ogni resistenza a questo modello viene duramente repressa: ci sono migliaia di case sfitte che, se vengono occupate, sono sgomberate violentemente e all’istante. C’è un stretta della repressione.

Ad esempio, quello che è successo a Torino in Piazza Santa Giulia è un esempio del livello a cui possono arrivare grazie al decreto Minniti. Da una semplice ordinanza anti-vetro che derivava dal caso della finale di Champions (un terrore indotto, dai media alla folla) si passa automaticamente a permettere alla polizia in assetto antisommossa di fare delle cariche nei bar, così, a caso. A fianco, c’è il sistema dei media che da un caso del genere riporta: “Due poliziotti feriti”. E siamo daccapo.

Marnero XM24 Bologna
Marnero.

A proposito di cariche, qualche giorno fa fuori dal Làbas è successo qualcosa.
Chiara: Al Baraccano stavano facendo una presentazione di un libro su Sergio Ramelli. Qualcuno aveva pensato di fare una manifestazione di protesta, ma non se n’è fatto nulla. Quelli di Làbas stavano semplicemente facendo le attività del mercoledì. La polizia li ha aspettati e li ha caricati, senza nessun motivo. Anche lì, sul giornale: “due poliziotti feriti”.

È stato inquietante leggere alcuni articoli de Il Resto del Carlino, a seguito dell’evento del 30 giugno Bologna Loves XM24 e del Cotechino d’Oro (una festa canora bolognese che si tiene da trent’anni, dai tempi dell’Isola nel Kantiere, e che questa volta si è svolta in supporto a XM). Si parla continuamente di lamentele da parte dei residenti del quartiere, ma queste critiche mi sembrano recentissime. Come se i residenti si fossero svegliati quest’anno, rendendosi conto di un luogo che c’è da 15 anni.
Raudo: Anche questo è un discorso che riguarda i media. Quattro stronzi che telefonano ai carabinieri alle 21 ci sono sempre stati, il punto è che adesso le loro lamentele vengono amplificate in prima pagina. Figurati che i residenti incazzati ci sarebbero anche di fronte al Cavaticcio, il parchetto dell’estate bolognese chic, istituzionalizzata per eccellenza. Solo che con il Cavaticcio ci sono interessi economici importanti e un grosso business dietro. Quindi, al vecchietto che si lamenta per il rumore del Cavaticcio, il sindaco risponde “Eh no, ti attacchi, andiamo in rovina”. C’è anche un video! Il problema però è mediatico, fra seimila persone che hanno partecipato alla festa per XM24 in questo parco e quattro persone che telefonano alle 21, indovina chi finisce sul giornale? Quei seimila cittadini sono di serie B? Qual è il rapporto di forze? Dipende da cosa viene megafonato. Tra l’altro, parliamo di un quotidiano che esce all’una di notte con un articolo che parla dell’alba. Due sono le cose, o hanno la DeLorean oppure sono dei pagliacci.

Torniamo ai tempi del ballottaggio di due anni fa: non sarebbe stato meglio se avesse vinto la Lega? Forse, meglio un avversario vero. Leggo dichiarazioni di alcune figure del PD, come Lepore, e non comprendo come facciano a considerarsi di sinistra.
Raudo: A Padova hanno avuto la Lega per cento anni, ma è stato il PD a sgomberare, ad esempio, il C.S. Gramigna. Perché mentre la Lega vede i posti occupati come un nemico, come un corpo estraneo, monnezza, per il PD sono un problema interno. Loro spingono per l’associazionismo più sterile e inquadrato. Sai, un discorso davvero di sinistra a loro dà più fastidio che agli ignoranti della Lega. Perciò, per statistica, è più probabile ti sgomberi il PD.

Ma questo non vuol dire sia meglio ritrovarsi il sindaco leghista. La Lega sgombera per ragioni ideologiche, il PD deve mascherarsi dietro delle scuse tecniche. Lepore è un abile oratore: riesce a farti credere di essere in buona fede, che ci tiene ai luoghi creati dal basso, alle attività controculturali. Ma vuole sgomberare anche lui (vedi il caso di Atlantide), però senza assumersene la responsabilità politica per non pagarne il prezzo: così usa scuse come il disagio acustico, l’inagibilità dello stabile e una marea di altre scuse che cambiano di giorno in giorno. In realtà quelli del PD non si vogliono assumere la responsabilità politica di uno sgombero. In questa partita a scacchi, le loro mosse sono sempre le stesse: “Vi abbiamo proposto l’alternativa: lo spostamento fuori città”, oppure il “Laboratorio partecipato per il quartiere”, un’istituzione tipica del “fascismo democratico” in cui delle decisioni già prese vengono fatte passare come elaborazioni collettive dal basso. Mentre invece è chiaro che le decisioni le prendono dall’alto e poi cercano nei laboratori un lasciapassare mediatico.

Ma se gente come Lepore venisse qui, a passare una giornata all’XM, cambierebbe idea?
Lepore è entrato a XM24 il 9 aprile per un incontro: ma uno come lui, qua dentro, ci vede solo un palazzo nuovo da costruire, vede la metratura, o cerca in giro delle scuse buone per lo sgombero (la ristrutturazione dell’immobile). Soprattutto pensa alle mosse mediatiche per diventare il prossimo sindaco di Bologna: fa la parte di quello che non ha paura di dialogare. Questa è gente che semplicemente ragiona in termini di potere. Senti, se hai seimila persone ad una serata nel parco, e il giorno successivo parli di incompatibilità con i cittadini, allora siamo alle solite: quelle seimila persone sono cittadini di serie B? O non esistono?

Pastura: La confusione dell’amministrazione locale è un riflesso di quella più ampia del PD a livello nazionale, la loro forte confusione interna si vede anche nel locale.

Chiara: Quel partito dovrebbe, per eredità politica, tutelare gli spazi come l’XM, ma non lo fa per niente. La doppiezza dell’atteggiamento del PD è un’ulteriore prova che sia uno dei nemici. Ti ricordi la storia di Blu? Se non hanno un atteggiamento di esclusione, diciamo di eliminazione, allora cercano l’assimilazione. Sussumono le cose, anche totalmente a sproposito.

A proposito, per voi il gesto di Blu fu coerente?
Tutti: Assolutamente.

Chiara: Era l’unica cosa da fare, che avrebbe dovuto generare un dibattito grosso; molte cose che abbiamo letto ai tempi hanno dimostrato che molte persone non hanno capito.

Pastura: In città non c’è stato dibattito, a livello politico. Non hanno compreso il gesto di portata internazionale di Blu, lo hanno preso come una bambinata. E neppure hanno capito cosa quel pezzo raccontava, cioè la battaglia fra due modelli di città. E manco hanno capito che loro erano i cattivi.

Chiara: E sai cosa fa male? Non esisteva alternativa. E questo fa capire molte cose, che qui puoi esistere solo se vieni istituzionalizzato. Blu era stato “riconosciuto” come artista internazionale e allora ci pensarono due volte prima di tirare giù il muro di XM24. Se lo volevano prendere direttamente, staccando il disegno da dove è nato.

Per tornare al discorso gentrificazione, c’è questa cosa che sto percependo negli ultimi anni qui a Bologna. L’impossibilità di fare cultura e socialità dal basso. Per portare iniziative culturali, artistiche o di rinvigorimento di un luogo, dovrai sempre passare per questioni burocratiche, bandi, insomma, deve esserti concesso dall’alto il diritto di rendere migliore un posto.
Sabata: Le iniziative dal basso sono le più facili da sussumere da parte loro: sono facilmente disgregabili, anche quando accolgono il favore dei cittadini. Le cancellano, in nome del decoro, dell’ordine, del degrado, a meno che non ci si possa attaccare un patrocinio, un logo del comune. Queste iniziative dall’alto servono anche per rivendere ai media chissà cosa, ma in realtà hanno solo confermato di poter frustare il cittadino come e quando vogliono.

Raudo: Il decoro è tale solo se è accompagnato da uno scontrino fiscale. Luoghi come XM danno fastidio perché creano valore ma di relazione, creano reti di relazioni, e non mettono un valore economico alla cultura. Sono le reti di relazioni che stanno attaccando quando attaccano XM.

A livello di underground, diciamocela tutta, oggi l’indie commerciale vorrebbe tanto portarsi appresso un linguaggio a volte politico, o che gli giri attorno. Ma rispetto alla roba che poi va a Sanremo o su Radio Deejay, che differenza c’è?
Chiara: Noi non facciamo testi politicizzati, nessuno dei gruppi qui li fa. Forse i Marnero sono al limite… Questo provoca una percezione, da parte di chi non conosce i luoghi e le persone, che non è certamente politica. Dietro lo schermo del PC nessuno può verificare quello che c’è oltre le parole, quindi è facile sia assumere una posa e farla passare per impegno, sia – all’inverso – non cogliere che già solo andare, trovarsi in certi posti è un gesto politico.

Detto chiaramente, io penso che il problema non sia la divisione in classifiche. Io penso ci sia solo un unico grande problema, che è pericolosissimo: fingere di fare politica. E lo fai per altri motivi, ma non lo fai per il bene pubblico in sé.
Raudo: Si può fare politica in molti modi. Un gesto politico è una scelta, un’azione. Per difendere questi luoghi, si possono fare molte cose: passarci a suonare, anche solo una volta senza chiedere cachet mostruosi. Inoki e Angela Baraldi la settimana scorsa sono venuti a suonare per XM24 solo per la voglia di fare qualcosa per la città, di supportare la battaglia. Puoi fare la spesa al mercato che l’XM24 fa ogni settimana. O, ancora, potresti prestare un amplificatore quando ne manca uno. Puoi venire a vedere cosa succede. L’antagonismo non si fa con una particolare successione delle note. Noi, ad esempio, veniamo da un mondo che si definisce underground, o forse da qualcosa che sta ancora più giù, come disse una volta Napo: noi all’underground gli abbiamo visto le mutande da sotto [ride].

Suonare per noi è una scusa per creare queste reti di relazioni. Siamo, però, tutti gruppi che vivono a metà fra due zone: una zona composta di militanti, che non ci considera politicizzati perché nei testi non usiamo slogan tipo “ACAB! Poliziotti demmerda!”. Poi c’è l’altra zona, quella della volpe e dell’uva, che vede l’underground come una serie minore di un campionato di calcio. Sono in serie D, vogliono essere promossi in serie C; dalla C vogliono essere promossi, e così via. Ma in Italia manca proprio la serie B, per strutture e organizzazione. E tra la serie D e la serie Z, che siamo noialtri, c’è di mezzo un fossato con gli alligatori. Non sono categorie diverse, sono proprio due sport diversi.

Le vostre musiche e i vostri testi sono legati in effetti da una certa disperazione.
Raudo: Si chiamava attitudine una volta. Davvero, credo che il punto non sia cosa facciamo ma come lo facciamo. Anche nella nostro giro c’è gente che suona con la chitarra acustica canzonette d’amore. Ma dipende da come si fanno le cose. Dipende se il fine è inseguire una qualche corrente oppure stabilire una rete di relazioni, per rimanere meno soli nelle difficoltà dell’andare “in direzione ostinata e contraria”. Non stiamo parlando solo di musica, ma di una modalità di essere nel mondo, che a volte si chiama DIY.


Ho avuto il tempo di fare due domande a Luca Rocco, il frontman degli Storm{O}. Si parla di ispirazioni musicali e dell’anno passato in assenza di Gabriele, il batterista storico. Gli Storm{O} sono particolarmente legati alla città e ad uno dei suoi luoghi oggi più affascinanti, il Laboratorio l’Isola.

Luca Storm{O} Claudia Lleroy XM24 Bologna
Luca Rocco e Chiara dei Lleroy.

Noisey: Per rimanere legati alla questione bolognese, ho saputo che Emidio Clementi è una delle tue fonti d’ispirazione, ma le vostre sonorità sono ben distanti dai Massimo Volume. Vorrei chiederti chi sono gli altri tuoi maestri di scrittura.
Luca Rocco: Agota Kristof sicuramente. Ma sai, non faccio poi riferimento a testi o scrittori in particolari, c’è qualcosa che mi sento ed esce fuori. Uno sfogo personale, qualcosa che a volte non capisco neanche io, che esce fuori. Ovviamente ci sono letture bellissime, Emidio Clementi è uno di quelli.

I testi e la musica nascono in momenti diversi, nel momento in cui bisogna unirli nasce una relazione, tra la parola e la nota, dove una esalta l’altra. E bisogna capire in quella precisa canzone, quale dalle due sia più incisiva.

È passato un anno da quando il batterista ha lasciato il gruppo. Cos’è successo intanto?
Abbiamo cercato di riprendere le fila del discorso in tre. Non è stato facile riprendere in mano il progetto, perché il gruppo era un gruppo di amici che si conoscevano fin da bambini. Non era scontato andare avanti. Non lo so, mi sembra che ci siamo riusciti però, ci stiamo muovendo in una direzione giusta. La nostra era una relazione a quattro, bisognava fermarsi per capire e riprendersi con calma. Da un anno è pronto un disco nuovo, che è stato registrato con il vecchio batterista e uscirà se tutto va bene a settembre.


I Lleroy fanno male. Non scherzo, ogni concerto ti sfonda il cuore e le orecchie. È uscito l’ultimo album, si chiama Dissipatio HC ed è probabilmente uno dei dischi più belli che siano usciti in Italia negli ultimi anni. La prima volta che ho visto Riccardo, il batterista, è in un video YouTube nel quale suona una chitarra giocattolo da sbronzo marcio durante un live dei Laghetto all’Anti-MTV Day del 2011. Poi l’ho conosciuto anche di persona.

Noisey: Di Dissipatio HC mi ha colpito un senso di solitudine che attraversa l’album. Una solitudine che viene psicosomatizzata in disturbi come il bruxismo. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più su questo legame. E poi ho letto una recensione del disco su Bastonate e vorrei capire se davvero questo album è segnato dall’esistenza bolognese.
Chiara: La relazione con Bologna nella recensione è evidenziata perché l’autore ci conosce personalmente e sa che viviamo qui da almeno dieci anni. E che tutti questi posti, come l’XM, ci hanno segnato.
Riccardo: E, come si diceva, sono luoghi che non esistono più. Forse il legame è anche basato su questo, su dei luoghi perduti.
Francesco: Vivendo a Bologna da dieci anni è normale sentirsela dentro. Ma sai, Jesi [la sua città d’origine, N.d.R.] è la stessa cosa, nei suoi quarantamila abitanti.
Riccardo: Jesi aveva quattro centri sociali in attivo e anche lì le cose sono andata male. Forse, per far andare avanti certe cose, bisogna crederci… A meno che tu non voglia far cambiare strada alla cose.

Lleroy Bologna XM24
Lleroy.

Fate parte della scena hardcore. Siete una band che fa una musica ragionata, i vostri album sono studiati e si sente. Sono sicuro che i ragazzetti del futuro che vorranno suonare questo genere avranno anche i Lleroy tra i loro ascolti. Ma avete anche un lavoro. Per campare, intendo, come fate?
Francesco: Non c’abbiamo mai campato con la musica ed è sempre più difficile.
Riccardo: Ma te lo chiedi anche a diciott’anni. È un esigenza che viene da dentro. Per collegarci col discorso della domanda precedente… Se ascolti SOMA, l’album precedente, e questo, noterai che c’è un filo conduttore. Una sorta di sofferenza fisica. Come se qualcosa dovesse uscire. La copertina di SOMA era abbastanza significativa. Ci sono sei donne “un po’ sovrappeso” che hanno uno sguardo sofferente, come se stessero alzando qualcosa di pesante. In quegli anni lì me la sono sentita addosso.
Francesco: Suonare diventa quasi ripulire le interiora, svuotare. O si focalizzano delle cose, che sai, ti senti sempre di più. Però rimane sempre il divertimento, alla base.
Chiara: Se ne vanno via tempo, soldi, lavoro, vita sociale. Ma continuiamo a farlo. È come se continuassimo a guadagnarci qualcosa dentro.


I Cani dei Portici quando si mettono a giocare con i loro strumenti tirano fuori qualcosa di indefinibile. Puri, roba paragonabile ai Lleroy ma sotto forme diverse. Claudio se non lo guardi pare suoni tre chitarre alla volta e Demetrio ha un groove primitivo. Su tutto aleggia lo spettro dei Melvins. Se c’è una critica da fare la faccio a Demetrio: per mesi mi ha invitato al cinema ma poi mi ha sempre bidonato.

Cani dei Portici Marnero XM24 Bologna
Cani dei Portici & Friends.

Noisey: I Cani hanno sul groppone un numero spropositato di concerti e siete tra i più amati nel giro dell’hardcore e derivati. Come funziona la formula?
Claudio: I concerti non sono mai abbastanza, almeno per quanto vorremmo suonare. Non saprei darti nessuna formula, per quanto può sembrare banale, siamo dei sinceri tranquilloni. Ci sono due cose che ci piace fare: suonare e chiacchierare con le persone, mangiare con loro. È la nostra versione del DIY.

Di cosa parla la vostra musica?
Ci sono pezzi espliciti e pezzi più narrativi, come “Buio”, che parla di un kamikaze giapponese nei suoi ultimi minuti prima di farsi saltare in aria. Ma quello che mi piace pensare è che sia svincolato il senso di una canzone o, meglio ancora, che ognuno tiri fuori la sua idea del contenuto. Noi vogliamo solamente che le nostre canzoni tirino fuori energie positive, e che diano speranza.

Parlatemi di Crotone.
Di Crotone ci portiamo dietro la rabbia. Non c’era un cazzo da fare lì quando eravamo ragazzini. È il motivo per il quale adesso ci piace così tanto suonare adesso, dovunque, il più possibile. Mi verrebbe da non rispondere a questa domanda, ho un rapporto conflittuale con la mia città. Cosa ci manca di Crotone? Degli affetti.

C’è solo una cosa che lega Crotone a Bologna: la solitudine delle strade di notte. Vagando di notte per le vie della città, vedevamo questi cani muoversi sotto i portici. Ordinati, muoversi in branco, quasi una marcia. Da loro abbiamo imparato il randagismo, stare in giro a suonare, non fermarci mai.

Tra tutti quelli che avete visto suonando esiste un luogo che vi ricorderete per sempre?
Demetrio: Solitamente non ho mai preferenze, ma a pelle io ti dico lo Scuria di Foggia, per il semplice fatto che ormai è stato chiuso. È un ricordo amaro. Con Foggia abbiamo un legame particolare, è una città piena di cinofili dei portici e di amici meravigliosi.


I Marnero non hanno bisogno di presentazioni. Sulle loro spalle aleggia il passato leggendario dei Laghetto e un presente incorniciato dalla Trilogia del Fallimento, un concept complesso dipanatosi in tre album e un libro, scritti e suonati in modo pazzesco; il bello è che non si fermeranno qui.

Noisey: La Trilogia del Fallimento si chiude con La Malora. Si conclude anche il percorso dei Marnero come band?
Raudo: Direi proprio di no. Il percorso non è lineare ma circolare. Alla fine della Trilogia del Fallimento, nel disco e soprattutto nel libro, i personaggi che abitano quel mondo trasbordano in un Altrimenti, da “L’Altro Lato“. Attraversano uno “Specchio Nero” che li porta non in un altro mondo, bensì nello stesso mondo, ma in un altro modo. Lo stesso mondo che però affrontano con una diversa consapevolezza, un diverso come: “Non esiste un altro mondo possibile. Esiste semplicemente un’altra maniera di vivere” diceva Jacques Mesrine. Con quello scarto si è conclusa quella trilogia, ma non la deriva dei Marnero: adesso stiamo scrivendo il disco nuovo. E siamo, più o meno, a metà del lavoro.

In “Porti e Labirinti dite: La città dietro al porto è una tomba gigante”. È un richiamo a Bologna?
È un richiamo al modo in cui, a Bologna e ovunque, stiamo vivendo tutti quanti, impegnati per gran parte del nostro tempo a scavarci la nostra fossa chiamandola casa. Un po’ come fanno le formiche che non riescono a scindersi dal loro ruolo di infaticabili lavoratrici che passano la vita a costruire per sempre la propria tomba. Nel libro (e nel disco) La Malora, la città è abitata da schiavi che scavano una fossa gigante che non è per i morti, ma per coloro che la stanno scavando.

C’è un’antitesi fra la terra e il mare?
La trilogia parla di mare, di navi, di porti, di porte. Il mare, dove le cose si muovono e gli uomini non sono i padroni. Il mare come unico luogo del globo ancora libero. Nel mare puoi muoverti in qualsiasi direzione. Nel Naufragio Universale il movimento è verso il fondo, un movimento verticale. Ne Il Sopravvissuto è invece un percorso orizzontale. Il mare è ultimo luogo anarchico che non può essere recintato, dove l’uomo non può dettare le sue leggi, non ha dominio nei confronti di una natura che sa essere ancora tremenda. E poi il mare è fatto di acqua, il simbolo per eccellenza della vita che scorre indifferente, che è incapace di fermarsi, che filtra tra le crepe del mondo. È un concetto potente, la vita che sopravvive tra gli interstizi della civiltà.

In questo tipo di società che abbiamo descritto poco fa, l’unica potente possibilità che abbiamo è quella di infilarci negli interstizi, allargandoli sempre di più, utilizzando i bug del sistema stesso. Infilare il dito tra le sue ferite. Vivere grazie ai suoi errori. In questo senso, per quanto ci riguarda, crediamo che i nostri dischi siano fortemente politici, e parlino di liberazione, nel senso più profondo del termine, perché parlano di me ma anche di te, di noi, del villaggio che dobbiamo costruire.

Esiste nei vostri testi un legame con la letteratura americana? Penso a Melville, ma anche a tutti quei cicli pirateschi e di avventura scritti tra il diciannovesimo e ventesimo secolo.
È vero che la letteratura di mare è spesso anglosassone. Ma gli americani, nonostante siano il punto di riferimento di alcune sottoculture che ci appartengono, sono lontani da noi nello spazio e nel tempo e la loro letteratura ci può appartenere fino a un certo punto. In realtà ci sentiamo più vicini a luoghi mediterranei, ai porti di De André, agli odori di Lisbona, ai vicoli di Napoli di Erri De Luca, al Gabbiere di Mutis, ai porti africani, alle bettole del Sud-del-Sud del mondo. La nostra America è quella del Sud, ad esempio la Buenos Aires costruita dai genovesi. Certo, Melville, Conrad, Stevenson, sono storie immortali che tutti dovremmo avere sul comodino: sono i classici. La cosa interessante dei classici, e noi siamo particolarmente legati a quelli persi nel tempo più lontano, è che non valgono mai per un periodo specifico, ma valgono per sempre. E poche cose dell’umanità durano in eterno.

Marnero XM24 Cani dei Portici Bologna
L’autore (di spalle) con tre Marnero e un Cane dei Portici.

Era per questo che vi citavo la letteratura americana. Voi come loro siete legati da una scrittura mitica. Quello americano è il mito del Destino Manifesto.
L’unica epica che hanno gli americani è quella del cowboy (fai te: adesso hanno pure un presidente cowboy!) dunque del più grande genocidio della storia dell’umanità, quello delle civiltà indigene. Hanno dovuto crearselo, un mito, in quanto popolo senza storia, e l’hanno fatto basandosi sul sangue. Ma il Destino Manifesto, il mito del progresso, le fottute sorti magnifiche e progressive, sono concetti basati su una linea orizzontale, progressiva e che non torna mai indietro. A quanto pare però ultimamente hanno scoperto l’esistenza dell’onnipotente Caso, colui che governa davvero le sorti, nel loro ultimo tentativo di epica, le serie televisive: il Caos, in Fargo e True Detective, schiaccia il Destino manifesto in tre set già alla terza puntata. Le storie dei Marnero eleggono il Caso a sovrano, e hanno una forma circolare come anche l’apparato visivo descrive. Non crediamo affatto in un progresso evolutivo, neanche nella musica (soprattutto nella musica), ma solo negli scarti di lato. Il primo scrittore che abbiamo preso in prestito, nel primo pezzo che abbiamo mai scritto (“Trebisonda“) è Seneca: “Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.

Seneca? Così indietro nel tempo?
Non è una questione di andare avanti o indietro nel tempo. Il punto è recuperare il Mito. I miti non sono legati al tempo e al luogo in cui nascono, sono validi per sempre ed esprimono archetipi umani eterni. Prendiamo i miti greci ad esempio: sono passati millenni ma le tragedie greche ci raccontano ancora dell’animo umano meglio di qualsiasi altra cosa. O Shakespeare. O un romanzo di Dostoevskij che, nonostante sia ambientato nella Russia del XIX secolo, ci parla di cose che sono qui e ora. I miti sono un po’ come le favole, con la differenza che le favole servono a far addormentare i bambini, i miti a svegliare gli uomini. Solo che svegliare la gente fa schifo: poi ti odiano.

E poi i Laghetto, da quando si sono sciolti, sono divenuti il gruppo HC mitico per eccellenza.
[Ride] Ma no! Se mai faremo una stupida reunion, glielo spiegheremo a tutti che ai concerti dei Laghetto non c’era nessuno. Siamo stati rivalutati, anzi, sopravvalutati, dopo la morte. L’ultima canzone scritta dai Laghetto, “Porgi la guancia di un altro” (registrata dai Marnero poi come “Il Porto delle Illusioni”) diceva appunto “La percezione di una rivoluzone arriva sempre quando tutto è già accaduto”. O anche: “Mi viene il dubbio ragionevole di apprezzare ogni cosa solamente dopo che ogni cosa è stata distrutta”: è una frase di una vecchia canzone dei Marnero che si chiama “Crossfigill“.

xm24 bologna 2017
“Se toccano XM24 toccano tutte/i”.

Torniamo indietro nel tempo, quando qui a XM24 c’era l’Anti-MTV Day. E c’erano anche i Laghetto. L’ultima edizione è stata nel 2011. Era la proposta di un underground antitetico all’underground aziendale proposto da entità come MTV, il cui popolo si riuniva in quegli stessi giorni al Parco Nord.
I primi dieci anni del Duemila sono ovviamente anni che ci hanno dato molto. È un decennio, importante, in cui chi l’ha vissuto ha visto mutare la realtà con una rapidità molto spesso imprendibile. L’Anti-MTV Day ha sicuramente rappresentato la scena italiana di un decennio. Oggi quella scena, forse, non esiste più. Resta però una forte rete di relazioni, amicizie e contatti, fra i gruppi italiani della scena DIY, e queste persone alla fine sono proprio tutti i migliori amici che abbiamo in giro per l’Italia. Quello che cercavamo di costituire era un villaggio. “E anche se la brace si è spenta, domani, ragazzo, noi ci proveremo ancora”.

Potrà tornare? Un nuovo anti-qualcosa .
Dal Pippone dell’ultimo AntiMtvDay: “L’Autoproduzione resta, più di prima, uno degli strumenti principali con cui crearsi i propri spazi, e l’assuefazione è la peggior ruggine per il cuore. Ora che ci sta crollando il terreno sotto i piedi, cerchiamo di salire tutti su questa Catapulta Infernale che ci spinga forte Oltre. Però non per Fuggire-Da ma per Andare-Verso, perché forse tutto comincia adesso. Dai, che fra l’altro ci aspettano anni duri e l’unica cosa che ci può aiutare a resistere è stare insieme”.

La cosa buona di quel festival è che non è mai invecchiato male, non è si è esaurito marcendo. Si è suicidato al suo apice, ad esempio se vai a vedere i nomi dell’ultima edizione rimani sconcertato. Chiamare ora tutti quei gruppi che partecipavano a quelle manifestazioni avrebbe un costo e un impatto importante. Ma quel festival, appunto si basava sulla rete di relazioni fra le persone che componevano quei gruppi, quella scena, quella gente.

La scena che rappresentava quel festival è cambiata. Sono cresciuti quelli che la suonavano e quelli che ascoltavano. Bisogna andare avanti (“anche se avanti non c’è niente”) trovando dei modi più attuali per ribaltare le cose, qui e ora. Esattamente come la sigla DIY, la parola punk è una termine che significa “un modo di fare le cose”. Vedi, in realtà è sbagliato che tu stia intervistando me, oggi. Dovresti intervistare qualcuno che ha vent’anni in meno e sta mandando avanti il discorso su questo genere musicale insieme ai suoi coetanei. Ma quelli che suonano hanno, in media, più o meno tutti fra i 30 e i 40 anni…

A tutti i concerti DIY di questa città viene Vincenzo, un ragazzino di tredici-quattordici anni. È l’unico della sua età, lo riconosci facilmente nella folla… il più giovane, dopo di lui, avrà minimo, che ne so, ventisei anni. Abbiamo saltato una generazione? Intendiamoci, non è che non ci siano ventenni in questa città, ovvio, è che non ascoltano più questo tipo musica. Seguono molto di più il rap, ad esempio. Questa musica qua, il cosiddetto punk, forse non ha saputo comunicare loro cosa c’è sotto, di fondamentale, dietro i giubbotti e i tatuaggi, oltre le mode, le toppe e le pettinature. Per noi questo ragazzetto rappresenta un po’ la nuova generazione, e se na abbiamo saltata una, dovremo provare a far tornare questo genere un canale importante per esprimere l’essere contro, il bisogno di un Altrimenti, il bisogno di dire di No. Non importa che cosa si faccia in questo senso, ma Come lo si fa. Probabilmente nel 2017 non funzionerà la replica dei significati e dei contenuti inventati nel 1977, nel 1982, nel 1987 o nel 1992, o negli anni Duemila.

Avremo bisogno di modi e strumenti attuali in un momento che è molto più complesso. E soprattutto, avremo bisogno di imparare Come comunicare contenuti e rabbia, la rabbia nel senso inteso da Pasolini. Perché senza la rabbia, questo genere musicale, l’attitudine, e tutto il contorno, non esistono.

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Diego è su Facebook. Tutte le foto sono di Giuliana Capobianco.

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