Molti di quei ragazzi avevano fatto un viaggio lunghissimo, spendendo qualcosa tra gli 8 e i 10mila euro. E attraversando cinque o sei confini in modo illegale.
Quando è arrivato in Italia, Hamed Ahmadi aveva piani un po’ diversi, e la ristorazione non era fra questi. Faceva parte di un’equipe di tre persone, giunte a Venezia per presentare un film alla Mostra del Cinema, Maama, Buddha, la ragazza e l’acqua, realizzato dal regista afghano Mohammad Haidari. A 25 anni aveva in testa soprattutto il cinema, facendo anche parte di una piccola casa di produzione, la Kabul Film (assieme all’attore e regista Razi Mohebi, che da tempo vive in Trentino).
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Le notizie che arrivano dall’Afghanistan però cambiano tutto. “Abbiamo ricevuto delle minacce per il nostro lavoro. Appena è successo, ho fatto domanda di asilo in Italia”, racconta Hamed. “Nel 2006 la situazione era un po’ più semplice. Non c’erano così tanti arrivi all’epoca. Del resto avevo delle motivazioni ben documentabili. E nel giro di tre mesi ho ottenuto lo status di rifugiato”.
“Da subito mi hanno messo in un centro di accoglienza. Lì ho avuto la fortuna di avere un posto letto per otto mesi. Quel periodo ha coinciso con l’arrivo di tanti minori non accompagnati qui a Venezia, soprattutto dall’Afghanistan. Il Comune cercava una figura di mediatore linguistico e culturale e hanno affidato a me il ruolo. Ho cominciato a lavorare con i ragazzi nello stesso centro, a Tessera”. A quegli anni risale anche la storia di Zaher Rezai, il ragazzino di 13 anni morto nel 2008 mentre si nascondeva sotto un camion a pochi chilometri dall’arrivo a Venezia, cui il Comune ha dedicato un bosco a Mestre.
“Oltre a fare il mediatore facevo anche l’animatore”, continua Hamed. “Ci trovavamo in uno spazio verde, grande, molto bello, però molto isolato dalla città. E quindi ci chiesero di organizzare delle feste per provare a portare un po’ di gente. Per capire come organizzare le feste, ci siamo riuniti con i ragazzi, erano circa 40, provenienti da Afghanistan, Iran, Turchia”.
Per iniziare avevamo bisogno di 20mila euro. Non li avevamo, quindi sono andato a bussare alla porta dei ragazzi. Tutti mi hanno aiutato come potevano.
“Ci siamo messi a ragionare su cosa fare. Per fare una festa uno degli elementi fondamentali è il cibo. E volevamo cucinare noi. Ognuno ha tirato fuori uno o due piatti e siamo arrivati a una lista 50 o 60 piatti diversi. Abbiamo pensato di ridurlo ovviamente, un menu così ampio non era fattibile. Parlando tra di noi è venuto fuori il discorso del viaggio, come tema che legasse tutto. Molti di quei ragazzi avevano fatto un viaggio lunghissimo, spendendo qualcosa tra gli 8 e i 10mila euro. E attraversando cinque o sei confini in modo illegale”.
“Molto spesso, per la difficoltà di superare il confine o per la mancanza di soldi, questi ragazzi fra i 15 e i 16 anni si fermavano un anno in un paese a metà strada”, continua a spiegare Hamed. “Un mio connazionale magari parte dall’Afghanistan e si ritrova senza soldi in Iran, o in Turchia, o in Grecia, ed è costretto a mettersi a lavorare per un anno e risparmiare in vista della tappa successiva.”
“Quindi ci siamo focalizzati su questi loro lunghi viaggi, su cosa mangiassero in quei luoghi di passaggio, su cosa cucinassero per risparmiare, sui piatti reinventati. Ad esempio, rivisitando una tipica ricetta afghana, usando il pollo al posto dell’agnello perché costava meno. E dando un’identità nuova a ogni piatto.”
“Durante le nostre feste il cibo, il suo sapore, le contaminazioni, piacevano molto, e hanno cominciato a chiamarci anche da altre città per presentare il nostro menu”.
L’idea di un menu ispirato al viaggio, dunque, funziona. Il successo di questo piccolo progetto, proposto inizialmente dentro il Cara di Tessera, fa intuire a Hamed le potenzialità di quella che potrebbe trasformarsi in una vera e propria impresa, capace di dare lavoro a lui e ai ragazzi ospiti del Centro. In un luogo come Venezia poi, da secoli città aperta a influenze e culture, oltre che meta per eccellenza del turismo internazionale.
“All’inizio del 2012 abbiamo trovato uno spazio, vicino a Fondamenta della Misericordia”, spiega Hamed. “Era un kebab senza troppo successo. Per iniziare avevo bisogno di 20mila euro. Non li avevamo, quindi sono andato a bussare alla porta dei ragazzi: c’è chi mi ha prestato 2mila euro, un altro ragazzo 500, un altro mille. In questo modo ho recuperato i soldi e l’attività è partita. Poi pian piano, lavorando, li abbiamo restituiti tutti”.
È così che nasce Orient Experience, nella zona di Cannaregio. Inizialmente è una piccola gastronomia, che offre cibi originari dell’Afghanistan, della Siria, dell’Iran, contaminati da elementi greci e turchi. “Fin dal primo anno abbiamo organizzato tante attività culturali, concerti, eventi, presentazioni di libri. E a tutti, veneziani e turisti, tutto questo piaceva”, racconta Hamed. “Tenevamo molto a far conoscere la nostra storia. Ancora oggi per noi questo non è un semplice lavoro, ma sentiamo il dovere di fare sensibilizzazione sulla nostra esperienza.”
“Il primo ristorante è andato bene. Dopo qualche mese abbiamo fatto la stessa cosa con un’ex rosticceria in Campo Santa Margherita. Così è partito Orient Experience II”. Il locale si trova nel sestiere di Dorsoduro, nel grande campo centrale frequentato soprattutto da studenti. Negli ultimi tempi lo spazio si è allargato, e oltre alla gastronomia c’è un ristorante vero e proprio, in cui ogni aspetto, dal menu all’arredamento, è curatissimo.
Africa Experience nasce invece un anno fa. Il format è lo stesso degli altri locali, ma il menu si concentra su piatti provenienti dalle varie regioni africane e a lavorarci sono gli ospiti dei centri di accoglienza attorno a Venezia.
Tra i ragazzi che lavorano ad Orient Experience II c’è anche Alì Rezai, che conosce Hamed fin dai tempi del centro di accoglienza di Tessera, nonché uno dei primi “finanziatori” del primo locale aperto a Cannaregio.
“Con Hamed ci siamo incontrati nel centro dove faceva il mediatore. Sono arrivato in Italia nel settembre del 2008. Sono afghano, anche se l’Afghanistan non lo conosco. Sono nato e cresciuto in Iran. Un paese verso cui non ho mai sentito di appartenere. Faccio parte della minoranza sciita che in Afghanistan è perseguitata e dunque mio padre, che faceva il militare, dopo essere rimasto ferito ha preso tutta la famiglia e ha deciso di rifugiarsi in Iran. Che è un paese fortemente nazionalista. Io infatti ho solo il passaporto afghano, non quello iraniano. Ci sono famiglie afghane arrivate anche alla quarta generazione che non hanno mai avuto la cittadinanza. Ho deciso di scappare da lì, perché sentivo di non avere un futuro”.
“Ero minorenne quando sono arrivato qui”, continua Alì. “Ho seguito la via che fanno in tantissimi, andando in Turchia, poi in Grecia. Da lì si può andare verso il nord, attraversando i paesi balcanici e poi l’Europa centrale, oppure si passa per il mare, cosa che ho fatto io.
Le navi che trasportano merci partono da Patrasso soprattutto, e ci sono tre o quattro destinazioni principali qui in Italia, Trieste, Venezia, Ancona, Bari. Partono tre o quattro navi al giorno. Mi sono nascosto dentro un camion, ho tentato più e più volte finché ce l’ho fatta, visto che ci sono tantissimi controlli”.
“Ci ho messo 11 mesi per arrivare in Italia, avevo 16 anni quando sono partito. Appena arrivato mi sono consegnato alla questura di Marghera. Inizialmente sarei voluto andare in Inghilterra. Ho una sorella che si è sposata molti anni fa e vive lì, ma l’Italia mi piaceva, poi ero stanco dopo un viaggio faticosissimo. Così mi sono fermato a Venezia”.
Alì, che ha partecipato fin dall’inizio al progetto di un menù che raccontasse anche il suo viaggio, per un anno e mezzo ha lavorato come dipendente all’Orient Experience II, e poi ha deciso di entrare in società. “Quest’idea mi ha attirato subito, era un modo per parlare della nostra esperienza. Si dice che c’è chi parte da zero, ma molti di noi sono partiti da ben al di sotto. Perché non hai niente, ti mancano la lingua, le conoscenze, la cultura, tutte queste cose bisogna impararle. Qui ho avuto la fortuna di conoscere delle belle persone. Come Adriano, un insegnante di italiano che fa il volontario. Per me è diventato un padre d’anima. Aiutare molti ragazzi, che hanno iniziato con noi come stagisti, e alcuni poi sono diventati soci, è una cosa che a noi dà moltissima soddisfazione e a tutti gli altri dà uno stimolo, oltre che una speranza”.
Proprio con l’idea di essere un punto di riferimento per i molti ragazzi arrivati negli ultimi anni, è nato il nuovo locale aperto a Venezia un anno fa, l’Africa Experience. Il format è lo stesso degli altri locali, ma il menu si concentra su piatti provenienti dalle varie regioni africane.
E a lavorarci sono gli ospiti di alcuni centri di accoglienza attorno a Venezia. Alcuni dei dipendenti sono stati selezionati con un concorso, il Refugees Masterchef, in cui i diversi concorrenti propongono un piatto del proprio paese.
“I ragazzi che stanno in accoglienza si mettono molto in gioco” spiega Hamed, “sanno che posso ottenere un tirocinio e eventualmente un posto di lavoro, sono sempre in tanti ad aderire. Fino ad ora il concorso lo abbiamo fatto quattro volte. L’ultima è stata il 29 novembre e a gennaio ce ne sarà uno a Padova. Di solito ci mettiamo d’accordo con qualche scuola alberghiera. Sono attrezzati, ci sono i professori, magari ci lasciano un’aula o due e viene fuori un bell’ambiente misto, tra i ragazzi del centro e quelli della scuola che collaborano insieme, è molto bello.”.
Tra i soci del nuovo ristorante c’è Mandana, iraniana, che ha un’esperienza molto diversa rispetto ai ragazzi ospitati nei centri di accoglienza.
“Sono arrivata in Italia cinque anni fa”, spiega infatti Mandana, “perché ho ottenuto una borsa di studio, per fare un dottorato in scienze ambientali. Purtroppo non sono riuscita a trovare un lavoro nel mio settore. Conoscevo Hamed, lo avevo visto qualche volta perché andavo a mangiare nel suo negozio a Cannaregio. Stavo cercando di capire come fare per rimanere qui e ho pensato di chiedergli consiglio. Lui mi ha raccontato del progetto dell’Africa Experience. Mi è sembrata un’idea molto bella e gli ho proposto di diventare sua socia. Lui ha accettato ed è così che ho iniziato”.
La grande famiglia di Hamed continua ad allargarsi. I locali attivi a Venezia sono quattro, da ottobre inoltre ha aperto Peace&Spice a Padova.
Africa Experience è aperto ufficialmente dal 4 novembre 2016. “Qui lavorano persone di paesi diversi” spiega Mandana, “c’è una ragazza che adesso è la nostra cuoca, è molto brava, viene dall’Etiopia. In tutto siamo 8 o 10 persone a lavorare. Il menu è composto da piatti dei diversi paesi di provenienza, dall’Egitto, al Gambia, al Senegal, alla Nigeria”.
La grande famiglia di Hamed continua ad allargarsi. I locali attivi a Venezia sono quattro, da ottobre inoltre ha aperto Peace&Spice a Padova, ristorante che riprende la stessa formula. Esiste anche l’Orient Experience 3, aperto da un socio afghano a Kabul, inaugurato nel 2014. Hamed non l’ha mai visitato, perché essendo un rifugiato politico in Afghanistan non può più tornare. Grazie al ricongiungimento familiare ha però fatto trasferire in Italia parte della sua famiglia, ultimi arrivati i genitori e la sorellina dodicenne.
“Anche il locale di Padova sta andando bene” racconta Hamed, “e questo ci sta incoraggiando ad andare verso Milano. Ci stiamo attivando infatti. E anche per Catania e Bari siamo in trattativa”. A lavorarci saranno ragazzi immigrati e richiedenti asilo, ma non solo. “Il nostro focus è su quello, tutta la nostra esperienza è partita dai centri di accoglienza. Ma ci sono anche dei ragazzi italiani che lavorano con noi, e ci sono persone come Mandana che non sono mai state richiedenti asilo, ma sono semplicemente emigrate per altri motivi. Ora siamo arrivati a 14 soci e in totale siamo in 50 nei diversi locali. Ma più che altro siamo un sacco di amici provenienti da tutto il mondo che lavorano insieme”.
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