Il culto del Glorioso Alberto, che adorava un ragazzo morto in un incidente a Salerno

L’interno del tempio del Glorioso Alberto negli anni Settanta. Immagine


via Wikimedia Commons

Essendo figlio di una catechista e nipote di una donna che ascolta due messe al giorno e tiene un’ampolla di acqua benedetta sul comodino, sono sempre stato naturalmente affascinato dalle forme di devozione e specie dall’abbandono della razionalità di fronte a un evento percepito come soprannaturale. È per questo che leggo libri sulle vite dei papi e impazzisco completamente di fronte ai culti del cargo e a fenomeni come il Movimento del Principe Filippo e Jon Frum.

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Di recente mi sono imbattuto in un culto italiano altrettanto interessante, la cui storia, anche se tragica, è talmente assurda da sembrare la trama di una commedia all’italiana. Si tratta del culto del Glorioso Alberto, nato sul finire degli anni Sessanta a Serradarce, in provincia di Salerno, che per almeno un decennio ha creato una vera e propria setta e che l’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, autrice di Magia e medicina popolare in Italia, ha definito “uno spaccato della condizione umana entro cui si agitano passioni che coinvolgono i morti e i vivi, i santi e i demoni, l’immaginario e la fede.”

La storia di questo culto prende le mosse da una semplice tragedia: la morte, avvenuta nel 1956, del 21enne Alberto Gonnella, rimasto incastrato sotto il piano ribaltabile di un camion di suo zio a causa di una manovra maldestra di quest’ultimo. La tragedia sembrava sul punto di trasformarsi in una faida familiare quando, la mattina prima del funerale, Giuseppina Gonnella, una zia di Alberto, si era sentita male ed era svenuta mentre era in visita a casa del nipote. Al suo risveglio, dopo un sonno durato 24 ore, la donna aveva cominciato a parlare a nome del nipote morto e a pronunciare profezie.

All’inizio si pensava fosse impazzita ma poi, dopo aver riferito dettagli del funerale di Alberto che non poteva conoscere non avendovi partecipato e dopo aver dato indicazioni per ritrovare il basco che il giovane aveva dimenticato sotto il sedile del camion, gli abitanti di Serradarce avevano cominciato a credere che fosse davvero posseduta. Mentre gli episodi di “possessione” continuavano a verificarsi con sempre più regolarità, la voce della presunta santità di “Zia Peppina” si era diffusa e le parrocchie della zona avevano cominciato a organizzare pellegrinaggi in sua compagnia.

Quando la Chiesa aveva cercato di arginare e censurare il fenomeno, Giuseppina Gonnella aveva reagito organizzando un vero e proprio culto autonomo. Gli eventi di “possessione” avevano assunto cadenza regolare, avvenendo tutti i giorni—tranne la domenica e i festivi—alle 8.34, l’ora dell’incidente che aveva portato alla morte di Alberto. Anche le forme esteriori del culto erano state codificate: ogni mattina alle otto “Zia Peppina” arrivava a casa di Alberto in auto, accompagnata dal fratello, e si faceva strada tra i pellegrini che già dall’alba o dalla notte prima affollavano le scale e l’androne dell’abitazione. Poi si sedeva su uno sgabello al secondo piano e, con gli occhi chiusi e nel silenzio generale, iniziava a iperventilare, gemere e ruttare finché non apriva gli occhi e saliva in piedi sullo sgabello, tra le urla, gli applausi e le invocazioni dei presenti.

Alcuni ex voto all’interno del tempio di Alberto. Immagine


via Wikimedia Commons

A quel punto, la donna entrava in trance e veniva “posseduta” dallo spirito di Alberto: parlava con voce alterata in italiano corretto—quando in realtà Giuseppina non era scolarizzata—e rievocava il “martirio” del nipote, che si lamentava di non aver trovato “ancora un posto a sedere nel reparto dei santi in Paradiso” o descriveva il Purgatorio. Dopodiché, sempre per tramite della zia, Alberto prometteva salvezza e guarigioni per i fedeli in cambio di un’offerta di 100 lire e dopo aver raccolto le offerte proseguiva con una predica piuttosto generica. Infine, Giuseppina benediceva la folla e si ritirava in una stanza dove riceveva altri fedeli in udienza privata.

Secondo quanto riportato da Michele Risso in Miseria, magia e psicoterapia: una comunità magico-religiosa nell’Italia del sud, nei primi anni Cinquanta Giuseppina Gonnella aveva sofferto di diversi disturbi di probabile origine psichiatrica. Stando alla testimonianza del parroco di Serradarce, già nel 1949 era stata vittima di un episodio di possessione diabolica ed era stata sottoposta a un esorcismo; inoltre sembra che i suoi compaesani la considerassero una strega.

Nonostante questo, nel giro di pochi anni il culto del Glorioso Alberto era diventato sempre più popolare e i pellegrini arrivavano da diverse zone del Meridione. Così, grazie alle donazioni, era iniziata la costruzione di un santuario vero e proprio, il Tempio del Beato Alberto, che sarebbe stato inaugurato nel 1968. Secondo le testimonianze, si trattava di una sorta di grande garage le cui pareti erano tappezzate di foto dei fedeli e che conteneva un altare adornato di quadri, statue di santi, ex voto e altri oggetti donati dai devoti miracolati. All’interno del tempio c’era anche il camion che aveva ucciso il ragazzo, che veniva adorato come una reliquia.

In quel periodo, il culto portava a Serradarce circa 500 pellegrini al giorno, che diventavano 10mila il 26 ottobre, anniversario del “martirio” di Alberto. Secondo alcune stime il totale era di circa 200mila pellegrini all’anno, ciascuno dei quali versava almeno 1000 lire; il giro d’affari stimato era di circa mezzo milione di lire al giorno.

A tutto questo andava a sommarsi una vera e propria economia del sacro, di cui la famiglia Gonnella aveva ovviamente il monopolio. Fuori dal tempio si vendevano souvenir, santini e icone con l’immagine di Alberto, oltre a rimedi medici consigliati da “Zia Peppina,” registrazioni delle prediche e persino un 45 giri in vinile contenente un “Inno a Sant’Alberto” inciso dal popolare cantante neomelodico Aurelio Fierro. La famiglia Gonnella gestiva inoltre anche un bar e un ristorante vicini al santuario. Tutto questo aveva portato il vescovo di Campagna Jolando Nuzzi ad affermare che “per la famiglia Gonnella, Sant’Alberto è una grande azienda che procede a gonfie vele per l’ignoranza e la creduloneria della gente.”

Un articolo dell’epoca. Grab via


Archivio La Stampa

Il crollo di questa “grande azienda” era arrivato la mattina dell’11 gennaio 1972, quando durante la solita cerimonia di possessione, un uomo nascosto tra i fedeli aveva sparato un colpo di lupara verso Giuseppina Gonnella, ferendola mortalmente all’addome. Dopo aver rischiato il linciaggio ed essere stato salvato dai carabinieri, l’assassino era stato identificato in Francesco Manganello, un camionista del luogo. Il settimanale Oggi aveva riportato le sue prime dichiarazioni fatte ai carabinieri dopo il delitto: “[Giuseppina Gonnella] accumulava denaro truffando il prossimo. Io faccio il camionista, trascorro intere notti al volante di un autocarro eppure quasi muoio di fame. Lei invece si arricchiva senza lavorare fingendo di essere la sacerdotessa di un santo inesistente.”

In realtà, secondo alcune ricostruzioni, Manganello era solo deluso per non aver vinto—come gli aveva promesso “Zia Peppina”—la lotteria di capodanno dell’edizione 1971-72 di Canzonissima. A quanto pare si era dissanguato per comprare quanti più biglietti della lotteria possibile, e qualche giorno prima della fine dell’anno aveva detto agli amici che presto avrebbero trovato il suo nome su tutti i giornali. Così, nei titoli di giornale dell’epoca, la vicenda era presto diventata il “delitto di Canzonissima.” Secondo la famiglia Gonnella, invece, si sarebbe trattato di un omicidio su commissione i cui mandanti sarebbero stati dei maghi e santoni di Salerno gelosi della popolarità—e degli incassi—del culto.

Dopo la morte della santona, questo andò sempre più scemando. Nel 1993 la famiglia Gonnella decise di donare alla Chiesa il Tempio del Beato Alberto, sperando in tal modo di ottenere la beatificazione. Ovviamente ciò non è mai avvenuto e il tempio è stato trasformato in un luogo di culto cattolico. Messi ai margini, i fedeli del Glorioso Alberto si sono costituiti come associazione di volontariato e hanno continuato per anni a rendergli omaggio e a perorare la causa per la sua beatificazione.

Oggi, le testimonianze del culto stanno sparendo con i loro protagonisti. La maggior parte degli articoli di giornale dell’epoca non sono disponibili online e ci sono arrivati monchi o sotto forma di citazioni. I libri e gli studi antropologici sulla vicenda sono sepolti in qualche biblioteca dove nessuno andrà mai a consultarli. Se non fosse per qualche testimonianza ancora disponibile, come il reportage fotografico del 1971 di Ferdinando Scianna, uno potrebbe pensare che tutta questa storia non sia mai esistita davvero.

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