La nostra lingua non ha il neutro, diversamente dal tedesco, ed è flessiva, a differenza di lingue isolanti come l’inglese o il cinese; il che significa che ogni articolo, pronome, sostantivo e aggettivo viene declinato per genere. Per questo, fin dalle scuole elementari ci insegnano che, nel dubbio, il maschile—il cosiddetto “maschile generico” o “neutrale”—va sempre bene.
Soprattutto in tempi recenti, però, sempre più persone hanno iniziato a utilizzare l’asterisco egualitario, per “evitare l’uso del maschile generalizzato previsto dalla norma grammaticale (cari tutti riferito a donne e uomini), ma anche la dicotomia di genere implicita in una frase come care tutte e cari tutti.”
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Ma cosa succede ogni volta che una persona, soprattutto sui social e soprattutto in discussioni che coinvolgono una platea ampia, usa un asterisco con quello scopo o sottolinea che un approccio più inclusivo sarebbe auspicabile? Succede quasi sempre che un’altra persona, e poi due, e poi dieci, interverrà per dire che ci sono battaglie più importanti in questo momento, che stiamo diventando perbenisti, che il femminismo “vi è sfuggito di mano” e che la lingua è così e nessuno se ne è mai lamentato (be’, non proprio, dato che diverse studiose ne parlano dagli anni Ottanta).
Come sosteneva Foucault ne L’ordine del discorso, il linguaggio è un “meccanismo di controllo” il cui utilizzo riproduce meccanismi di potere, rapporti di forza e discriminazioni con effetti concreti sulla società. Quindi la lingua agisce sul pensiero, e, viceversa, il pensiero può agire sulla lingua, che non è monolitica ma si evolve, influenzata dai cambiamenti sociali e culturali. Che l’asterisco non sia la soluzione definitiva al sessismo e al patriarcato italiano può anche essere, ma che per questo la lingua debba smettere proprio ora di modificarsi è una pretesa assurda.
Per capire un po’ meglio abbiamo contattato chi questi argomenti li studia da anni, intervenendo in prima linea nel dibattito linguistico: Pietro Maturi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.
VICE: È sicuramente un po’ una semplificazione, ma potremmo dire (dal punto di vista inclusivo, e rispetto ad altre lingue) che la nostra lingua è un po’ maschilista?
Pietro Mauri: Le lingue sono strumenti al servizio delle persone, non viceversa. Nessuna lingua è maschilista o femminista per se stessa, ma può esserlo l’uso che se ne fa. L’italiano dispone di meccanismi perfettamente efficienti per la formazione del femminile dei sostantivi, come si vede in casi comunissimi come infermiere vs. infermiera, istitutore vs. istitutrice, e così via.
Quando però le donne hanno iniziato a ricoprire ruoli precedentemente riservati agli uomini, in particolare nel campo delle professioni e della politica è scattata una forte resistenza all’uso di femminili assolutamente analoghi a quelli citati sopra e perfettamente accettabili, come per esempio ingegnera, ministra, magistrata. Si è detto che il nome indicava la funzione, dimenticando che la funzione aveva un nome maschile solo perché le donne ne erano escluse, confondendo cioè la causa con l’effetto. [In un certo senso,] solo in Italia resistono ancora formule sgrammaticate e sessiste come donna avvocato e simili.
Da qui l’uso dell’asterisco egualitario. Chi l’ha introdotto e in quali casi viene utilizzato?
Le origini sembrano derivare dall’impiego dell’asterisco come “carattere jolly” tipico dei sistemi informatizzati di ricerca. Si è poi diffuso per una diversa necessità, quella di evitare la ripetizione del nome nei due generi quando ci si riferisce a gruppi misti. In una fase premoderna si usava il maschile tout court, parlando di colleghi, cittadini, lavoratori, ignorando le donne. Successivamente si è andata diffondendo la formula doppia come in colleghi e colleghe, o meglio colleghe e colleghi—tuttavia poco pratica nella scrittura veloce tipica del web. Ci si è così messi alla ricerca di soluzioni per consentire un risparmio di caratteri, e l’asterisco consente appunto di abbreviare cari cittadini e care cittadine in un semplice car* cittadin*.
Un’altra situazione nella quale l’asterisco può risultare utile è quella in cui non si conosce ancora il genere della persona che ricoprirà un determinato ruolo, come per esempio in “dobbiamo eleggere segretari* e tesorier* dell’associazione.” In terzo luogo, l’asterisco può consentire di superare la logica binaria della visione tradizionale del genere, permettendo a chi non vuole attribuirsi né il genere maschile né il femminile di evitare questa scelta.
Secondo Treccani, l’uso dell’asterisco sarebbe “una forma di rispetto anti-sessista degno di considerazione,” ma solleva un problema di natura morfologica: mentre in passato nei testi è stato usato esclusivamente come un segnale, in questo caso intaccherebbe a livello strutturale la lingua. Effettivamente, usarlo a voce è complicato.
L’uso dell’asterisco ha certamente il grosso svantaggio di risolvere i vari problemi summenzionati solo nella lingua scritta, mentre in quella parlata è più difficile sottrarsi alla scelta tra l’uso del maschile e la formula con la ripetizione dei due generi. In qualche contesto culturalmente molto avanzato, peraltro, si propone l’uso del solo femminile come genere comune. Questo è il caso di alcune università tedesche, dove si parla di Professorinnen e Studentinnen (professoresse e studentesse) anche quando ci si riferisce a uomini.
Secondo lei perché l’asterisco egualitario fa arrabbiare così tante persone?
Io non sono mai stato attaccato per l’uso dell’asterisco, che trovo anzi in forte crescita da qualche anno a questa parte. Sono consapevole, come ho già segnalato sopra, dei profondi limiti di questa soluzione e penso che coloro che la attaccano dovrebbero proporre soluzioni alternative che vadano nella stessa direzione egualitaria.
Se non offrono altre opzioni e si limitano a riproporre l’obsoleto ‘maschile neutro’, retaggio dell’atavica subordinazione delle donne rispetto agli uomini, devo dedurre che dietro alle pur legittime obiezioni estetiche si nasconda un atteggiamento ostile alla parità tra i generi e più in generale all’evoluzione della società in senso paritario e antidiscriminatorio.
La lingua la usiamo ogni giorno, è qualcosa che, seppur non consciamente, modella i nostri pensieri—a maggior ragione sul genere, da un punto di vista sociale. Quindi: quanto una sua modifica, nella direzione di una maggiore inclusività, potrebbe apportare dei miglioramenti sociali?
La lingua agisce sul pensiero e il pensiero agisce sulla lingua. L’evoluzione sociale e culturale sta influendo dovunque sugli usi linguistici nell’ambito del genere e non solo. Certamente le nuove generazioni, se cresceranno in un ambiente linguistico più rispettoso della parità, tenderanno a sviluppare comportamenti meno discriminatori.
E noi, cosa possiamo fare nel nostro piccolo per rendere la lingua più paritaria? Ci sono testi per chi volesse approfondire?
Scegliere formule aperte quando si tratta di gruppi misti e di ruoli astratti. Quindi dirò l’ingegnera Bianchi, colleghe e colleghi (o collegh* nello scritto) e la nomina della o del docente di italiano ( del* nello scritto).
Quanto ai testi, cito: Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini (1986), Lingua italiana e questioni di genere. Riflessi linguistici di un mutamento socioculturale (2016) e Sindaco e sindaca. Il linguaggio di genere (2018) di Cecilia Robustelli, Language and gender di Eckert P. McConnel-Ginet S. (2013).