Ammetto candidamente che prima di partire per l’Armenia non ne sapevo moltissimo. Avevo visto le foto dei paesaggi mozzafiato, sì, e conoscevo qualche aspetto della cultura culinaria, come l’abbondanza di verdure e di cognac, ma non mi vergogno nel dire che non avevo chiara l’identità di questa terra.
Entrare in un paese con una cultura che non è popolarmente raccontata sui social media ti pone davanti a molti interrogativi, che nel mio caso si condensavano intorno alla cucina: cosa avrei mangiato? Cosa avrei bevuto? Una cosa l’ho capito quasi subito: ristorazione e realtà vinicole sono un bellissimo work in progress, destinato a rendere l’Armenia non solo una meta per i viaggiatori alternativi, ma un posto unico per assaporare un pezzettino diverso di Europa e Mediterraneo.
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Il mio viaggio in Armenia mi ha commosso profondamente dal punto di vista naturalistico e architettonico, ma riconosco soprattutto di aver avuto un altro, grandissimo privilegio: non sempre arrivi in un paese che sta costruendo le basi per diventare una destinazione gastronomica, e non sempre hai la possibilità di conoscere i protagonisti di questa lenta, ma incredibile trasformazione.
Cose da sapere prima di partire per l’Armenia
La diaspora ha portato più di 5 milioni di armeni in giro per il mondo (8 milioni la popolazione totale, solo 3 risiedono nel paese), soprattutto in Russia, California e Francia. Come in molti altri stati dell’ex URSS anche qui c’è da “de-sovietizzare”, ovvero c’è bisogno di rintracciare e ricoltivare alcune tradizioni perse prima del totalitarismo russo.
La Repubblica Armena risale al 1991, quando l’Unione Sovietica collassò, ma la storia di questo popolo affonda le radici nel sesto secolo A.C. e nella scelta nel quarto secolo d.C. di diventare il primo paese ad adottare la religione cristiana a religione di Stato — cosa che all’epoca cambiò sia come veniva vissuta la spiritualità sia la politica e la cultura del paese.
Cose da sapere sul cibo prima di partire per l’Armenia
Durante il mio breve viaggio una frase è venuta spesso fuori dalla bocca di cuochi, viticoltori e ricercatori: il suolo armeno è unico. Le verdure e la frutta —soprattutto l’uva per il vino— qui hanno un gusto ricchissimo. L’Armenia è un paese di vulcani inattivi, ma soprattutto giova della vista più bella del monte Ararat —sì, il monte dove dovrebbe esserci l’Arca di Noè e chissà poi che cosa altro sopra— che anticamente si trovava all’interno dei confini armeni, mentre ora è in quelli turchi. La vista più bella, dicevo, perché mentre dall’Armenia il monte si staglia da una pianura e da una valle che lo fanno ergere in tutta la sua maestosità, dalla Turchia la sua grandezza è oscurata dalla presenza di altre vette più basse.
E proprio dalla valle armena dell’Ararat arriva la frutta e la verdura di cui ci nutriremo per tutto il viaggio, con tavolate di pomodoro (quando vado è inizio ottobre e godo ancora degli ultimi frutti estivi) melanzane, basilico viola, coriandolo e molte altre erbe che si accompagnano a un bel pezzo di lavash, il pane armeno senza lievito, e formaggio.
Qui la cultura casearia è un perno. I formaggi —vedi il Lori e il Chanakh fatti con latte di pecora— non sono mai molto stagionati, anche se ci sono diverse peculiarità, come il Çeçil, stringe di formaggio in salamoia fatte di latte vaccno. E ancora il Kashk, forse la cosa che mi ha più colpito nel mercato di Yerevan: yogurt essiccato, impastato” con della farina per l’inverno, adatto ad essere conservato e trasportato anche in viaggio.
Quando si entra nel mercato di Yerevan, il Gum, si è investiti da composizioni di dolci a base di frutta secca, spezie, torrette coreografiche di lavash, stand di formaggi e sottaceti di ogni forma —ancora mi chiedo che gusto avesse il cocomero sotto forma di pickles e mi pento di non averlo comprato.
Cose da sapere sul vino prima di partire per l’Armenia
Quando parlo di work in progress vinicolo intendo che sul vino è in corso un vero e proprio un processo di riappropriazione, di cui si iniziano a vedere solo adesso i primi frutti e che in futuro probabilmente consacrerà questa terra a terra del vino, esattamente come la vicina Georgia.
Molto si deve agli armeni che stanno tornando: come spesso accade con i movimenti migratori, c’è il fenomeno del ritorno quando le condizioni socio-economiche migliorano nettamente nel paese ospitante. Molti armeni californiani, per esempio, sognano di tornare qui, rimettere le mani nella terra e portare un po’ di spirito imprenditoriale.
Qualcuno lo ha già fatto, come la famiglia proprietaria della Van Ardi Wines; Varuzhan Mouradian voleva iniziare a fare vino, e non sapeva se farlo in California, dove abitava da anni, o ritornare nella sua terra, l’Armenia. La decisione di tornare, accompagnato da moglie e due figlie adulte, che hanno scelto di vivere qui con i genitori e occuparsi di vino, lo ha premiato. “Senti l’energia di questo posto?”, mi chiede quando ci mostra la vista sull’Ararat, che coincide con una distesa di vigne destinate a moltiplicarsi nei prossimi anni. “L’energia dei luoghi” in Armenia a voi sembrerà una frase da fricchettoni dell’ultima ora, ma a starci un po’ in questi luoghi aperti, fra terra rossa, montagne e canyon, alla fine te ne convinci pure tu.
Tornando al vino: quello armeno è chiaramente indietro da un punto di vista evolutivo rispetto alla vicina Georgia. L’URSS trasformò, come successe a molti altre popolazioni dell’Unione, le abitudini e il modo di vivere locale. Da nazione sostanzialmente agricola, gli armeni iniziarono a vivere in città e in minuscoli appartamenti. Ma i russi cambiarono anche alcune abitudini alimentari: introdussero ad esempio il maiale (come si legge nel libro Lavash, di Leahy, Lee, Zada, edito Chronicle Books) mentre i macellai tradizionalmente lavoravano l’agnello.
Ma una degli aspetti con cui ancora oggi l’Armenia deve fare i conti è l’influenza negativa sulla produzione di vino. I vertici dell’Unione Sovietica scoraggiavano gli armeni a produrre vino; la Georgia ne produceva abbastanza per tutta l’Unione, l’uva armena sarebbe stata più utile per la produzione del brandy.
Molto ironico se si pensa che proprio in Armenia, nel complesso delle grotte di Areni, oltre alle scarpe e alle porzioni di tessuto celebrale più antiche mai rinvenuti, si sono rinvenute le prime testimonianze della produzione di vino, vino utilizzato probabilmente per cerimonie funebri. Stiamo parlando di 5.000 o 4.000 anni fa.
“Sono andato via negli anni ‘60 che mio nonno beveva solo vino, sono tornato e tutti bevevano solo vodka” ci dice Jirair Avanian, patron del ristorante con camera Im Toon a Dilijan (verso Nord rispetto alla capitale), anche lui tornato dopo aver vissuto a lungo all’estero.
Sulla tavola di Im Toon si mangiano le verdure della valle dell’Ararat e la trota del lago di Sevan, unico pesce autoctono armeno vista la sua distanza dal mare. Im Toon è un luogo accogliente, pieno anche di arte e di storia armena, che regala uno spaccato abbastanza contemporaneo sull’attuale stato della gastronomia e del vino.
Qualche etichetta di vino naturale e piatti preparati in maniera semplice, ma con dei gusti più netti rispetto alla cucina locale ancora un po’ acerba.
Cose da sapere sull’Armenia di oggi e del futuro
Un’altra frase che ritorna spesso nelle conversazioni con le persone che incontro durante i miei pochi giorni di viaggio è molto simile o complementare: “l’Armenia vuole diventare/sta diventando un paese molto interessante dal punto di vista gastronomico”. Un paio di mesi dopo il mio viaggio viene anche eletta a World’s Leading Heritage Destination for 2021 dai The World Travel Awards e penso che tutto torni.
E oltre la tradizione, che vale la pena conoscere e soprattutto studiare, deve esserci spazio anche per chi qui sta facendo la differenza e di cui probabilmente sentiremo parlare fra qualche anno, magari da giornali di settore e da viaggiatori gastronomici seriali.
Il Food Lab a Dilijan
Siamo a Dilijan: qui in una piccola casa sulla strada principale ci accoglie Ani Harutyunyan, giovane studiosa d’arte che ha creato un piccolo laboratorio che sta cercando di codificare e scoprire di più sulla ricchezza della cucina e della natura armena. “Mi sono chiesta, leggendo i libri sulla cucina nordica, in cosa consistesse la cucina armena contemporanea. Da giovane armena non sono riuscita a darmi una risposta. Così ho deciso di incominciare uscendo fuori di casa, nella natura, raccogliendo erbe e frutti edibili spontanei e cucinarli”.
Harutyunyan racconta che ha iniziato a trovare e a utilizzare un sacco di erbe e di bacche che gli armeni tradizionalmente non usano nella loro cucina, e che uno dei suoi obiettivi è quello di insegnare alle persone come preservare la grande biodiversità del loro paese, comprese alcune specie che sono oggi in pericolo.
Il progetto nasce come una ricerca, non come un ristorante, ma nel fine settimana l’Armenian Food Lab accoglie il pubblico attorno a un tavolo, con un menu degustazione da sei portate sempre diverso, con soli ingredienti di stagione locali. L’altra parte del lavoro di Harutyunyan è quello di collaborare con ristoranti condividendo le sue scoperte. È un progetto che Harutyunyan finanzia personalmente, tolte alcune donazioni esterne o che arrivano dalle degustazioni.
Attualmente si sta dedicando molto anche al pane: “Per noi armeni il pane è una seconda divinità. Nel tempo abbiamo perso molte varietà di pane e molte tecniche. Ho aperto un piccolo forno artigianale, a 10 km dal Food Lab, sempre in Dilijan, dove studiare e riproporre alcuni di questi formati e queste tecniche con grani antichi.” Spiega anche che proprio a Dilijan in molti stanno iniziando a utilizzare i grani antichi e il lievito madre.
Il ristorante Tsaghkunk a un’ora da Yerevan
È proprio adesso che si sta creando il DNA della cucina contemporanea armena
Come ci insegna bene la storia di Harutyunyan, in molti paesi lontani dagli stereotipi della “grande cucina europea”, ragazze e ragazzi stanno traendo ispirazione dal modus operandi della cucina nordica, ovvero rintracciare ingredienti locali e provare a costruire modi nuovi di proporli o conservarli. Proprio su questi presupposti il ristorante Tsaghkunk ha chiamato per un progetto speciale uno dei padri fondatori della cucina nordica, Mads Redsflund, co-fondatore del Noma, che è venuto qui per un progetto di ricerca di tre settimane approfondendo natura, tecniche di cottura antiche e non della cucina armena. Con la chef del ristorante, Sussana Ghukasyan, ha studiato piatti e tecniche per valorizzare ingredienti e preparazioni.
Tre settimane non sono molte per capire bene un paese o la sua cultura gastronomica, ma quando incontro Redsflund il suo approccio mi pare abbastanza convincente e lontano dal “colonialismo alimentare” che immaginavo all’inizio. “Ho iniziato a documentarmi cinque mesi fa, prima di arrivare qui, ma effettivamente la ricerca fisica è partita solo tre settimane fa. Ho cominciato assaggiando piatti e ingredienti e da lì col mio team abbiamo fatto la nostra selezione di ciò che ci sembrava più interessante. Sono arrivato qui con una mentalità molto aperta e mi sono ritrovato davanti a una realtà pura, incontaminata, con molte potenzialità. È proprio adesso che si sta creando il DNA della cucina contemporanea armena”.
Una delle cose più incredibili secondo Redsflund è la qualità della carne armena: nonostante abbia smesso di mangiare carne una volta trasferitosi negli Stati Uniti, perché in forte disaccordo con l’industria americana, lo chef ci parla di come qui la carne sia completamente diversa. L’altra cosa che trova molto interessante sono i metodi di cottura, come il celebre Tonir, forni scavati nel terreno, dove si cuoce anche il lavash, con il fuoco. Cucinare con il fuoco è infatti anche il nuovo concetto dietro il ristorante newyorchese che Mads Redsflund aprirà probabilmente la prossima primavera.
Le case in Armenia anticamente avevano tonir dentro le mura, scavati nel pavimento. Come si vede spesso anche per le cotture del pane georgiano e quello indiano, qui il lavash viene cotto sulle pareti del forno:“Tutto il rituale attorno al lavash lo rende lavash, altrimenti se ci pensi è solo farina, acqua e sale, e potrebbe essere una comunissima focaccia bassa, ma è tutto quello che c’è dietro la sua preparazione che lo rende così speciale”.
Nel tonir si cuoce anche l’agnello, per esempio, che viene appeso nel forno. Per Redsflund è un modo di cucinare emozionante, antico e allo stesso tempo controllato di cucinare con il fuoco. Lo studio di Mads in Armenia si conclude con una cena in cui tutti i sapori armeni vengono fuori all’ennesima potenza e a cui Susanna Ghukasyan, chef del ristorante, si ispirerà.
Susanna Ghukasyan è la chef del ristorante Tsaghkunk. Arriva qui nel marzo 2021 dalla capitale Yerevan e ha lasciato tutta la sua vita per trasferirsi qui, in un paesino rurale in mezzo alla natura. Lavorava come cuoca nei ristoranti di Yerevan e al momento, mi dice ,“Non c’è nulla del genere lì. Non si tratta soltanto di cibo qui, ma si tratta anche di sviluppo della cultura armena, abbiamo dei progetti con i più giovani. In questo villaggio non ci sono molte opportunità per i più piccoli, questa struttura può fare la differenza.”
Si innamora del progetto e decide di investire tutte le sue forze qui, portando anche tutta la sua brigata. Quello che assaggiamo fatto da lei durante uno dei sei pasti di una normale giornata armena è semplice, molto vegetale, ma ha sicuramente un gusto più sofisticato. Ci spiega mentre ci serve della bacche conservate: “Quando sono venuta qui mi sono fatta ispirare dalla natura qui intorno. Durante la bella stagione quasi ogni settimana trovo nuove erbe che non conoscevo e che utilizzo nella mia cucina stagionalmente”. Le chiedo di dirmi perché secondo lei la cucina armena è speciale: “La frutta e verdura, che hanno un sapore unico, e l’ospitalità armena, che fa parte effettivamente di tutta l’esperienza della cucina.”
Il vino naturale armeno
Se sul vino alcune casa vinicole non stanno facendo la differenza, appoggiandosi ancora a stili europei e commerciali, altre invece si stanno spingendo più in là, utilizzando vitigni autoctoni e rintracciando metodi di vinificazione antichi, come quello in anfora.
In questo senso la cantina Trinity Wines, benché non sia l’unica che produce vino naturale armeno, è un ottimo modo per capire in che direzione stia andando il vino nel paese. Non tutta la sua produzione è definibile naturale, ma la bottiglia, che comprerò in un’enoteca di Yerevan di gran carriera, e porterò a casa è un macerato sulle bucce molto beverino che si chiama Voskehat ancestors, fatto secondo le tradizioni di vinificazione antiche, e fermentato nelle karas di terracotta armene.
Quella bottiglia dal ritorno del mio viaggio non l’ho ancora aperta, ma ogni volta che la prendo in mano mi viene in mente l’energia, l’Ararat, il canyon, le voci dei giovani armeni e la tradizione della cerimonia del lavash.
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