Lo sappiamo tutti: stanno arrivando i robot, e prenderanno il nostro posto di lavoro. Il futuro non sembra molto roseo per l’indolenzito lavoratore umano medio, dato che secondo un recente e chiacchierato studio dell’Università di Oxford il 47 percento dei lavori nel mondo sarà automatizzato nel giro di vent’anni.
Alcuni vedono in questo l’avanzamento verso uno scenario apocalittico in cui come contraltare ai lavoratori robot si formerà una nuova sottoclasse di umani senza lavoro, mentre altri preferiscono vedere queste innovazioni in una luce positiva, poiché i robot potrebbero invece condurci in un’era dove il lavoro non sarà più necessario. Ma forse non ci fa così bene iniziare già a preoccuparsi di quali lavori non ci saranno più e quali sopravviveranno.
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Il fatto è che la questione dei robot che sostituiscono gli umani in determinati lavori non ha molto a che fare con i robot stessi. L’era prossima dei lavoratori robot è segno di una tensione presente fin dall’epoca in cui le prime terre comuni vennero recintate dai proprietari terrieri che le dichiararono di loro proprietà: è la stessa tensione presente tra i lavoratori e i proprietari del capitale. Il futuro del lavoro nell’era dei robot è una questione tutta interna al capitalismo.
Il modo migliore per comprendere questi meccanismi e per capire a cosa porteranno è fare riferimento a chi il capitalismo lo ha compreso meglio—Karl Marx. In particolare a un pezzo poco conosciuto pubblicato sui Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica intitolato Frammento sulle macchine.
Che vi piaccia o meno, o che cerchiate di evitarlo in tutti i modi, Marx ha dedicato la sua intera vita alla comprensione dei meccanismi del capitalismo. Ne era ossessionato. Nel Frammento Marx parla di ciò che una società capitalistica completamente automatizzata potrebbe significare per i futuri lavoratori.
Secondo Marx l’automatizzazione per cui il lavoratore viene sostituito dalla macchina, che può far produrre più merce in meno tempo è uno dei capisaldi del capitalismo. Sviluppando il capitale fisso (le macchine) i padroni possono fare a meno del capitale variabile (i lavoratori) che richiedono cose fastidiose come i salari e ritmi di lavoro ridotti. Scrive così:
L’aumento della forza di lavoro produttiva, e probabilmente la più grande negazione del lavoro necessario, è la necessaria tendenza del capitale, come abbiamo visto. La trasformazione del significato del lavoro in macchinari è la realizzazione di questa tendenza.
Da questa prospettiva i lavoratori robot sono razionalmente il punto di arrivo dell’automatizzazione che si sviluppa nell’economia capitalista. La questione di cosa succeda ai lavoratori che vengono sostituiti dalle macchine è di grande interesse perché rivela una grande contraddizione interna al capitalismo, secondo Marx:
Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.
Nella teoria di Marx i capitalisti creano profitto dal cosiddetto plusvalore ottenuto dagli operai—che vengono pagati meno di quanto valga il loro tempo e guadagnano la differenza come profitto dopo che la merce è stata venduta al prezzo di mercato, dove non è più tenuta in conto l’attività del lavoratore. Quindi cosa accade quando non sono più gli uomini a lavorare? Curiosamente Marx si trova d’accordo con le utopie robotiche del giorno d’oggi, in questo frangente.
Una volta che le forze produttive sono nelle mani dei robot le persone si ritrovano ad avere più tempo libero, il che “avrà un impatto sui benefici di un lavoro emancipato, ed è esso stesso la condizione della sua emancipazione,” scrive Marx. Gli uomini, liberi finalmente dalle catene dell’alienante lavoro capitalista, svilupperanno nuovi significati della riflessione in campo sociale e una cooperazione nuova irrealizzabile nell’ambito dell’economia capitalistica. In breve, Marx afferma che l’automatizzazione portrerebbe alla conclusione dell’era capitalista.
IL MONDO AUTOMATIZZATO è IL REGNO DEL LAVORO PRECARIO.
Questa è una visione che ha avuto molto seguito in questi anni grazie alla fama e il fascino esercitato dai robot, ma basta vedere il nostro passato recente per renderci conto che le cose non sono andate esattamente così. Il capitalismo è vivo e vegeto, nonostante l’automatizzazione abbia conquistato spazi sempre più ampi nel corso dei secoli. Il motivo è che l’automatizzazione non è la distruzione del capitalismo, ne è bensì parte integrante.
Ciò che noi intendiamo come “lavoro” ha subito dei mutamenti per adattarsi agli sviluppi che ha subito nel corso della storia. Non c’è alcun motivo di pensare che questo possa cambiare solo perché l’automatizzazione sta avanzando a velocità fantascientifiche.
Per parafrasare John Tomlinson nella sua analisi sulla tecnologia, la velocità e il capitalismo in The Culture of Speed: The Coming of Immediacy, non esiste un motto che descriva meglio lo spirito del capitalismo di “il tempo è denaro”. Se le macchine creano più tempo libero per gli uomini poiché producono di più, i capitalisti devono creare nuove forme di lavoro per rendere il tempo produttivo, in modo da continuare ad ottenere plusvalore. Come scrive Marx:
I macchinari più sviluppati costringono i lavoratori a lavorare più di quanto faccia un selvaggio, o più di quanto l’operaio facesse con i più semplici strumenti […] Ma i possessori del plusvalore o del capitale…impiegano le persone in lavori non direttamente e immediatamente produttivi, ad esempio nella costruzione dei macchinari stessi.
I “lavori non immediatamente produttivi” è il termine chiave qui. Pensate solo a tutte le forme di lavoro che sono comparse da quando l’automatizzazione è diventata uno dei fondamenti della Rivoluzione Industriale: i lavori nel settore dei servizi, i lavori online, i part-time o i lavori sottopagati. Non produci niente lavorando come cassiere ma stai creando del valore vendendo merci che sono già state costruite, spesso da macchinari.
Il mondo automatizzato è il regno del lavoro precario. Lavori che non danno alcuna stabilità, soddisfazione né standard di vita accettabili e sembrano occupare tutto il nostro tempo sono la norma. Franco “Bifo” Berardi, un filosofo che si occupa dell’ambito del lavoro e della tecnologia, ha spiegato questo fatto in modo efficace:
Il termine “precariato” spesso si riferisce a quell’area di lavoro che non è più definibile da leggi fisse in termini di relazioni lavorative, di salario e di tempistiche della giornata lavorativa […] Il capitale non impiega più persone ma compra dei blocchi di tempo, separati dagli intercambiabili o occasionali proprietari di quel tempo […] il tempo di lavoro è frattalizzato, ridotto a frammenti che possono essere ricombinati, e questa frattalizzazione fa sì che il capitale trovi sempre le condizioni di salario minimo.
Il lavoro online è adattissimo a questa descrizione della nuova definizione di lavoro. Ad esempio, un lavoro che dipende sempre di più dalle mail, dalla corrispondenza istantanea tra vari fusi orari, e dispositivi che fanno sì che il lavoro possa essere portato a casa dall’ufficio, crea un assetto mentale dove il tempo non è più diviso in blocchi fissi.
Certamente, i “giorni lavorativi” riguardano tutto il giorno, ogni giorni, ma il tempo è diventato un concetto molto più fluido che in passato. La piattaforma di Amazon Mechanical Turk, sulla quale i lavoratori che guadagnano poco vendono il proprio tempo, è un esempio particolarmente distopico di questa situazione.
Una forma di lavoro radicalmente diversa è quella in cui si vendono i propri dati personali per ottenere un profitto. Questo tipo di lavoro è particolarmente insidioso per due motivi: innanzitutto perché spesso non è riconosciuto come un lavoro vero e proprio. Potreste pensare che mandare un messaggio al vostro amico parlando di quanto siano fantastiche le vostre nuove cuffie sia un lavoro, ma il teorico del lavoro Maurizio Lazzarato non è d’accordo con voi. E inoltre i lavoratori sono completamente tagliati fuori dal processo di circolazione dei dati, anche se forse non per molto.
Tutte queste questioni messe assieme dipingono uno scenario di quello che sarà il futuro degli uomini che vivranno in una società capitalistica in cui i robot lavorano al posto loro. Pare proprio che dovremo lavorare di più e con lavori sempre più merdosi. La domanda è: che tipo di lavoro, e esattamente quanto merdosi?
Dal mio punto di vista essere completamente avversi alla tecnologica e ai robot non è una posizione molto utile. Non c’è alcun motivo per cui l’automatizzazione non possa fare del bene alla società piuttosto che danneggiarla. E no, non abbiamo bisogno di una sollevazione popolare a favore della tecnologia. Piuttosto sarebbe utile avere un movimento politico che si occupasse dell’avanzamento tecnologico senza le motivazioni del capitalismo.
Ci sono già alcune persone che stanno lavorando su questo fronte. Il movimento per il reddito di base, che si batte affinché sia dato un salario minimo a ogni essere umano, quale che sia il suo status lavorativo, è un buon inizio, soprattutto perché implica una svolta significativa dal linguaggio puramente economico dell’austerità nella riflessione politica e sostiene un reddito di base per il fondamentale motivo che siamo tutti uomini e abbiamo il diritto di vivere. Tuttavia, se davvero vogliamo cambiare il futuro delle cose, ci sarà bisogno di ben altri sforzi.
In un periodo in cui tutti noi ci interroghiamo sul futuro, una possibilità in particolare non viene mai considerata: quella di un futuro senza capitalismo. Di un lavoro senza capitalismo, di un tempo libero senza capitalismo e sì, anche di robot senza capitalismo. Forse solo allora potremo gettare le basi per un mondo in cui la tecnologia sia al servizio di tutti e non solo di pochi privilegiati.