Nell’ultimo periodo è molto probabile che nelle vostre cerchie di amici e conoscenti si sia tornati a parlare con insistenza (e pure una certa sorpresa) di Covid-19: qualcuno l’ha preso per la prima volta, altri l’hanno ripreso, e altri ancora sono circondati da persone che l’hanno preso.
La sgradevole impressione è quella di essere tornati a qualche mese fa, quando i casi avevano raggiunto il record assoluto dall’inizio della pandemia.
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In effetti, l’Italia è appena entrata nella cosiddetta quinta ondata: la scorsa settimana si sono registrati 477mila nuovi casi di coronavirus, 137mila in più rispetto a quelli della settimana precedente.
Secondo il monitoraggio dell’Istituto superiore di sanità (Iss) la nuova ondata sta riguardando tutte le classi di età, con un’incidenza maggiore tra le persone più giovani. L’aumento delle infezioni si sta anche riflettendo sul numero di casi gravi: i ricoveri ordinari e in terapia intensiva sono tornati a crescere dopo circa due mesi di calo costante.
Il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro ha detto che la situazione epidemiologica sta “peggiorando,” anche se “la crescita dell’incidenza settimanale è un quadro coerente con la situazione europea.” Le rilevazioni del portale Our World in Data dimostrano infatti che l’incidenza settimanale dei casi è tornata a salire in Austria, Germania, Francia, Grecia, Regno Unito, Portogallo, Belgio e Svizzera.
Ma a cosa è dovuto l’aumento? Perché ci sono di nuovo così tanti casi, nonostante le vaccinazioni, i booster e, be’, tutto quello che abbiamo passato? E che implicazioni ha questa ondata, in un momento in cui i governi stanno togliendo praticamente tutte le restrizioni?
Come ci ha insegnato la pandemia fin dall’inizio, anche questa volta non c’è un singolo fattore o una singola motivazione; è piuttosto una combinazione di cause sociali, politiche, epidemiologiche, immunologiche e virologiche.
Earim Chaudry, dottore dell’Nhs (National Health Service, il sistema sanitario pubblico del Regno Unito), ha spiegato al nostro collega Darcey Edkins di VICE UK che l’incremento può essere il risultato di un generale “rilassamento della popolazione,” che “si incontra più spesso al chiuso, vede amici e familiari, frequenta attività ricreative e ritorna negli uffici.”
C’entra anche la “stanchezza pandemica,” ormai insostenibile dopo più di due anni di limitazioni e stress. “Molte persone si stanno semplicemente adattando alla convivenza con il virus,” continua Chaudry, “e dunque non adottano più le precauzioni di una volta, tra cui indossare le mascherine o lavarsi frequentemente le mani.”
Oltre a ciò, l’epidemiologo Mark Jit della London School of Hygiene and Tropical Medicine dice che l’aumento è guidato dalla sottovariante BA.2 della variante Omicron, che sarebbe più contagiosa della sottovariante BA.1 (quella che ha causato la quarta ondata invernale in Europa e nel resto del mondo).
In Italia, secondo l’ultimo sequenziamento commissionato dall’Istituto Superiore di Sanità con i dati dei tamponi risalenti al 7 marzo, la variante Omicron ha una prevalenza del 99,9 percento—di cui il 44,1 riconducibile alla BA.2, una percentuale inevitabilmente destinata a crescere.
Le prime evidenze che arrivano da Israele, Danimarca e Regno Unito indicano infatti che BA.2 ha una capacità di diffusione del 30 percento maggiore rispetto alla BA.1. Il professore Francois Balloux, direttore dello UCL Genetics Institute di Londra, ha sottolineato su Twitter che BA.2 ha un tempo di incubazione ridotto rispetto alla sottovariante BA.1 (che a sua volta era più breve di Delta), e questo mette in difficoltà i sistemi di testing e tracciamento che non riescono a tenere il passo.
Sebbene sia per l’appunto più contagiosa, una recente analisi della UK Health Security Agency ha dimostrato che l’infezione da B.2 non è associata a un maggior rischio di ospedalizzazione rispetto alla BA.1 (che già era minore rispetto alla variante Delta), e che comunque i vaccini mantengono la loro efficacia contro le forme gravi di Covid-19.
Sembra però esserci una riduzione nella protezione da infezione, che spiega così le “breakthrough infection,” ossia l’aumento dei casi nelle persone vaccinate (anche con tre dosi).
Tuttavia è proprio grazie all’alto tasso di vaccinazione—in Italia ha completato il ciclo l’83,9 percento della popolazione, mentre il 65 percento ha ricevuto una dose di richiamo—che si sta continuando a vedere il disaccoppiamento tra la curva dei positivi e quella dei casi gravi già registrato nell’ondata precedente, che ha permesso agli ospedali di mantenere una pressione gestibile sui reparti ordinari e di terapia intensiva.
Per queste ragioni, nonostante l’aumento dei casi, il governo italiano ha deciso di allentare progressivamente le restrizioni e seguire l’esempio di quasi tutti gli altri paesi europei.
Il 31 marzo, infatti, finirà lo stato di emergenza per la pandemia e non sarà prorogato. Dal primo aprile il green pass (sia rafforzato che base) non sarà più obbligatorio per entrare in locali pubblici e negozi, mentre dal primo maggio sarà eliminato del tutto (quello rafforzato resterà però in vigore fino al 31 dicembre per le visite in ospedale e Rsa).
Nella conferenza stampa del 17 marzo il presidente del consiglio Mario Draghi ha detto che con queste misure si punta al “ritorno alla normalità,” compresa la “riapertura dell’economia” e la “riconquista della socialità.”
Ma per quanto possiamo essere più vicini alla “normalità” del 2019 rispetto agli anni precedenti, non vuol dire che ci siamo tornati appieno. Anche se non ne vogliamo sentir più parlare, insomma, la pandemia “è tutt’altro che finita”—come ha ricordato qualche settimana fa il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, e come dimostra quest’ultima ondata.