La mattina dello scorso 24 settembre, un uomo che passava di lì per caso con il figlio di sette anni ha visto affiorare dalle acque del Regents Canal, nella zona a nord di Londra, un cadavere legato a un carrello della spesa. Accorsa sul posto, la polizia scientifica ha recuperato il corpo e perlustrato il letto del canale in cerca di ulteriori indizi. A un uomo residente in una casa galleggiante nelle vicinanze è stato chiesto se di recente avesse sentito il rumore delle ruote di un carrello della spesa sull’asfalto.
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Sul cadavere non c’erano elementi da cui risalire alla sua identità; l’unico segno particolare erano i suoi tatuaggi. Ci è voluta una settimana perché si riuscisse a dargli un nome: il 1 ottobre il corpo è stato identificato come quello del 46enne italiano Sebastiano Magnanini, un uomo dalla vita piuttosto caotica che viveva tra Londra e il Sudest asiatico. Magnanini era stato visto l’ultima volta il 22 settembre e al momento della morte viveva e lavorava a sud di Londra. La polizia ha aperto un’indagine per omicidio.
La nazionalità della vittima, la fedina penale sporca (essenzialmente per via di un furto d’arte avvenuto diversi anni prima) e le circostanze del ritrovamento del cadavere hanno portato fin da subito a paragoni fuori luogo con Roberto Calvi, il “banchiere di Dio” impiccato dalla mafia a Londra nel 1982. Nell’impossibilità di ricostruire con precisione la dinamica degli avvenimenti che hanno portato alla morte di Magnanini, la stampa inglese ha calcato la mano su ciò che si sapeva con certezza di lui: la sua vita.
Così, sono usciti diversi articoli sulla “vita straordinaria del ladro d’arte italiano trovato morto nel canale a Londra” e altri che ipotizzavano un coinvolgimento della mafia nell’omicidio. Il Guardian in particolare ha dedicato alla figura di Magnanini un lungo articolo, e poco dopo la storia è arrivata in Italia sulle pagine del Corriere della Sera e dell’Huffington Post.
Certo, se come termine di paragone si prende l’esistenza sedentaria di un impiegato di banca allora la vita di Magnanini è stata piuttosto inusuale. Per anni ha fatto avanti e indietro tra Londra, dove lavorava come artigiano, e Siem Reap, Cambogia, dove faceva la guida turistica e dove i suoi datori di lavoro lo descrivono come uno dei loro migliori dipendenti. Parlava italiano, inglese, spagnolo e khmer e viaggiava spesso. Al momento della morte era appena tornato a Londra con l’intenzione di seguire un corso di giornalismo per poi trasferirsi in India.
L’interesse mediatico sulla sua figura deriva piuttosto da un fatto che l’aveva visto protagonista quando aveva circa 25 anni: il furto di un’opera del Tiepolo da una chiesa di Venezia nel 1993. In quell’occasione, Magnanini e due amici si erano nascosti in una chiesa e vi erano rimasti fin dopo l’orario di chiusura, quando avevano rubato “L’educazione della Vergine,” un’opera del Tiepolo del 18esimo secolo dal valore quasi inestimabile.
Dopo il furto erano andati a bere. Le cronache dell’epoca avevano imputato il crimine a un’organizzazione criminale indicata con il nome di “anonima dell’arte” e specializzata in furti di opere d’arte invendibili per ottenere favori da parte della polizia. Magnanini e i suoi complici erano stati beccati quasi subito: tre mesi dopo la squadra mobile di Venezia aveva già recuperato la tela, che nelle intenzioni dei ladri avrebbe dovuto essere tagliata in quattro parti e spedita all’estero. Nel 1998, Magnanini era stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione: il giudice aveva affermato di non poter escludere che nel crimine fosse in qualche modo coinvolta la Mala del Brenta. La facilità del ritrovamento aveva insospettito gli stessi investigatori, e più tardi un’ulteriore indagine aveva portato alla condanna di un agente di polizia accusato di aver stretto un accordo con i ladri.
Secondo Matteo Magnanini, il passato del fratello ha influenzato fortemente il modo in cui la sua morte è stata raccontata dai media. “La stampa lo sta dipingendo come un criminale solo per via del suo passato,” ha detto in un’intervista all’Evening Standard, “ma in realtà mio fratello era uno spirito romantico e ha vissuto la sua vita appieno, cercando pace e felicità. Per tutti noi che lo conoscevamo era una persona unica e speciale.”
In effetti, la stampa inglese ha cercato di ricondurre la morte di Magnanini alla criminalità organizzata—un finale funzionale alla narrazione mediatica costruita intorno alla sua vita, ma che con ogni probabilità non rispecchia la realtà dei fatti. Fin da subito, infatti, Rebecca Reeves, capo della sezione omicidi della polizia di Londra e responsabile delle indagini, ha messo in chiaro che “la vita [di Magnanini] prima di venire a Londra farà inevitabilmente parte delle indagini, ma a questo livello non vediamo un crimine organizzato come movente.”
Nonostante ciò, nella maggior parte degli articoli sulla vicenda Magnanini viene descritto come “un trafficante d’arte” e la sua morte viene spesso messa indirettamente in relazione a qualche oscura vicenda di droga.
L’articolo del Guardian, ad esempio, cita il fatto che il corpo di Magnanini sia stato ritrovato vicino a una nota piazza di spaccio di Camden e riporta le dichiarazioni che Luke Allen, ex coinquilino della vittima, avrebbe fatto alla polizia durante le indagini: “Quello è il gradino più basso. Non avrebbe dovuto essere lì. Aveva un lavoro. Ma non conosceva più persone che fossero in contatto con quel mondo e fossero disponibili a fare da intermediari per lui.”
Che Magnanini avesse problemi di droga è un fatto documentato: lo stesso Allen, che lo conosceva dal 2004, ha detto che era “tormentato dallo spettro delle droghe” e che tre anni prima aveva avuto un’overdose alla Arlington House, un ricovero per senzatetto di Camden, ed era stato ricoverato in una clinica dove gli erano state prescritte delle medicine contro l’epatite C.
Eppure, l’immagine di Magnanini come un tossicodipendente rimasto invischiato in qualche storia losca stride con le testimonianze di chi lo conosceva in Cambogia, e sembra più che altro un’esagerazione giornalistica. Sasha Constable, amica di Magnanini e sua vicina di casa a Siem Reap, ha raccontato che “anche se molte persone vengono qui per le droghe, per lui venire in Cambogia era un’occasione per starci lontano e affrontare i suoi problemi. Qui aveva un buon lavoro, un gruppo di amici e stava cambiando vita.”
Il caso è tuttora aperto, dato che al momento non si conoscono né la causa della morte né il risultato degli esami tossicologici eseguiti sul cadavere. Lo scorso 5 gennaio, tre senzatetto della zona si sono dichiarati colpevoli di reati collegati all’omicidio: Michael Walsh, 31 anni, e Paul Williams, 64 anni, hanno ammesso di aver gettato il corpo di Magnanini nel canale; mentre il 22enne Daniel Hastie ha confessato di aver usato la carta di credito della vittima.
Anche se le circostanze precise della morte di Magnanini restano piuttosto oscure, tutti questi ultimi sviluppi sembrerebbero avvalorare ancor di più l’ipotesi di un episodio di criminalità comune. Ma la stampa non sembra volersi rassegnare a quest’eventualità, preferendo attribuire a Magnanini una vita e una morte all’altezza dei titoli sensazionalistici usati per raccontarla.
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