Nel 1968, Thomas Ungerleider e Duke Fisher, due psichiatri dell’UCLA, si sono avventurati nella periferia di Los Angeles per assistere ai rituali di un culto LSD.
Due anni prima, Ungerleider e Fisher avevano pubblicato “I pericoli dell’LSD,” un articolo che documentava il numero sempre maggiore di ammissioni, nel reparto psichiatrico dell’UCLA, di persone che sperimentavano effetti indesiderati durante un trip da dietilammide-25 dell’acido lisergico. I dottori avevano recentemente tenuto una lezione su quello che sarebbe poi diventato noto come “bad trip”, un termine polivalente per tutte le esperienze negative riportate da gente sotto psichedelici, che sia una lieve ansia o psicosi conclamata e allucinazioni continue.
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In quell’occasione, un membro del pubblico particolarmente alterato aveva tentato di leggere un manifesto a sostegno dell’uso illimitato di LSD durante il dibattito finale. Dopo la lezione, lo stesso membro del pubblico si era avvicinato agli psichiatri insistendo sul fatto che un mucchio di gente prendeva LSD e stava benone. In effetti, lui era membro di un gruppo religioso che si faceva chiamare “Discepoli” e sosteneva di prendere acidi con loro ogni weekend senza alcun problema.
I ricercatori erano incuriositi. Dopo essere stati controllati da alcuni membri dei Discepoli, che volevano essere sicuri non si trattasse di poliziotti, Ungerleider e Fisher sono stati ammessi nel complesso del gruppo per osservare il loro uso ritualistico dell’LSD. Come documentano nel loro articolo, nel complesso i ricercatori trovarono:
…circa un dozzina di membri del gruppo che vivevano in una grossa casa, su un terreno spazioso. Aravano il suolo, e avevano decorato la casa psichedelicamente. C’erano immagini di Buddha e Gesù sulle pareti. Ogni mercoledì sera il gruppo si riuniva per un’esperienza religiosa di preghiera e meditazione, senza LSD. Le sessioni con l’LSD erano programmate nel weekend.
Osservando e intervistando i partecipanti a queste “sessioni d’amore”, i ricercatori scoprirono che molti dei Discepoli erano ex detenuti e tossicodipendenti, che usavano LSD per rendere più facile il recupero. Molti di questi individui dichiaravano di aver trovato Dio tramite l’uso rituale di LSD. Significativamente, nessuno dei Discepoli raccontava di effetti indesiderati sotto acido mentre si trovava con il gruppo.
Per gli psichiatri, si trattava di un’osservazione sconcertante. Cosa rendeva questo gruppo diverso da quelli che venivano ammessi nel reparto psichiatrico dopo aver assunto la stessa droga? In altre parole, quali erano i fattori che contribuivano ai bad trip?
“Un’interazione così complessa – difficile da prevedere persino con i migliori dati clinici e sperimentali – predirebbe la possibilità che le reazioni avverse all’LSD ci accompagnino per molto tempo a venire.”
Per trovare una risposta a questa domanda, i ricercatori svolsero uno studio che comparava venticinque Discepoli a venticinque pazienti ospedalizzati a seguito di reazioni avverse all’LSD, incluse “allucinazioni…ansia fino al punto del panico…depressione, spesso con pensieri o tentativi di suicidio, e…confusione.” Nel 1968, i ricercatori pubblicarono i loro risultati sul Journal of American Psychiatry, nel primo tentativo scientifico di identificare le cause delle esperienze psichedeliche negative.
Secondo le scoperte dei ricercatori, non c’erano differenze particolarmente significative tra i due gruppi in termini di razza, genere, età, educazione, o “deprivazione genitoriale precoce.” Il 44% dei pazienti (contro il solo 24% dei Discepoli) aveva storia psichiatrica pregressa, ma anche questo non garantiva un’esperienza psichedelica negativa. Nessuno dei membri del gruppo religioso con pregressi psichiatrici aveva incontrato difficoltà nell’assunzione dell’LSD.
“In tutti i nostri confronti, non abbiamo trovato elementi storici o aspetti clinici attuali che fossero caratteristica specifica di uno dei due gruppi,” conclusero i due ricercatori. Curiosamente, Ungerleider e Fisher sono stati tra i primi a predire che l’LSD potesse interagire con “tendenze schizoidi,” un’ipotesi poi supportata da ricerche successive. Ciononostante, gli autori si resero conto che “un’interazione così complessa – difficile da prevedere persino con i migliori dati clinici e sperimentali – predirebbe la possibilità che le reazioni avverse all’LSD ci accompagnino per molto tempo a venire.”
Se i farmaci psichedelici riusciranno a uscire dai laboratori e ad approdare nelle cliniche, dovremo avere delle basi scientifiche che possano spiegare i meccanismi nascosti del proverbiale bad trip.
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In caso non lo sapeste, la ricerca psichedelica oggi sta vivendo una specie di rinascimento. Gli ultimi studi su sostanze alteranti quali LSD, MDMA, e psilocibina (“i funghetti”), al momento tutte vietate per legge federale negli USA, mostrano un potenziale come sostanze ad uso terapeutico. Alcune nuove scoperte suggeriscono che i composti psichedelici possano aiutare a ridurre i rischi di tendenze suicide, ad affrontare le perdite, a superare la dipendenza da sostanze, e ad alleviare le dolorose cefalee a grappolo, chiamate anche “cefalee del suicidio“.
Tuttavia, gli agenti psichedelici non sono ancora perfetti. E mezzo secolo dopo il pioneristico studio di Ungerleider e Fisher sui bad trip da LSD, non siamo molto più vicini di loro a capire le esperienze psichedeliche difficili in senso empirico. Dati gli effetti altamente soggettivi di queste sostanze e i loro meccanismi neurali sconosciuti, prevedere quando qualcuno si troverà a passare dei brutti momenti sotto psichedelici è praticamente impossibile. Ecco perché, invece di provare a predire queste esperienze psichedeliche difficile, l’attenzione della comunità scientifica ha iniziato a concentrarsi sul prevenire il loro inizio e alleviare gli effetti negativi quando avvengono.
Tra gli psiconauti come tra i professionisti di salute mentale, il buon senso necessario ad evitare esperienze difficili sotto psichedelici può essere riassunto in due parole: “set” e “setting”. Diffusa dallo scomparso psicologo e predicatore psichedelico di Harvard Timothy Leary, l’idea dietro il mantra del “preparazione e ambientazione” è che essendo mentalmente preparato a un’esperienza psichedelica, e facendo questa esperienza in un ambiente sicuro e confortevole, le probabilità di vivere un’esperienza impegnativa o traumatica saranno significativamente più basse.
Probabilmente ti eviterai un bad trip se entrerai nella giusta configurazione mentale prima di prendere psichedelici, e se ti sarai trovato un posto tranquillo con volti familiari, così che quando la droga farà effetto non ti ritroverai, per dire, a vagare da solo per le strade di New York.
Almeno, questa è l’idea.
Altri consigli per un buon trip: Nel video qui sopra, il defunto etnobotanico, psiconauta e sostenitore dell’uso responsabile di agenti psichedelici Terence McKenna consiglia di cantare per contrastare l’inizio di una potenziale esperienza psichedelica negativa. Quello, e calmare i nervi con uno o due tiri di canna.
Sebbene l’accortezza del set-e-setting abbia radici profonde nella comunità degli psiconauti, fino agli anni Settanta non erano ancora stati sviluppati degli standard formalizzati per la gestione dei danni. Uno dei primi articoli pubblicati in merito è apparso nel numero di luglio 1970 del Journal of the American Medical Association, e parlava della “gestione dei ‘bad trip’ in un mondo della droga in evoluzione”.
Nell’articolo gli autori parlano degli effetti benefici della “terapia razionale” nel proteggere i pazienti da comportamenti pericolosi sotto l’effetto degli psichedelici. Si parla di come sia preferibile calmare un paziente che sta passando dei brutti momenti parlandoci, piuttosto che provare immediatamente ad amministrare tranquillanti per farlo tornare in sé, una linea progressista in un periodo dove molti psichiatri erano velocissimi nel prescrivere calmanti per fermare un bad trip.
In quello stesso anno, il governo federale approvò il Comprehensive Drug Abuse Prevention and Control Act. La legge classifica la maggior parte delle sostanze psichedeliche come Schedule I, la categoria di sostanze considerate più pericolose e quindi più strettamente controllate; si arriva fino alla Schedule V, che comprende, per esempio, gli sciroppi per la tosse con piccoli quantitativi di codeina. Questa classificazione significa che esiste una forte probabilità di abuso di questa sostanza e nessun beneficio medico riconosciuto dai legislatori. Ma nonostante il giro di vite delle forze dell’ordine, l’uso di psichedelici non si è fermato. E neanche i bad trip.
Nel 1977, William Abruzzi, un medico di New York, ha pubblicato “5000 Bad Trip,” un articolo sull’ International Journal of Addictions, in cui descrive la sua esperienza nell’aiutare migliaia di sconosciuti a superare esperienze psichedeliche difficili. A quel punto, Abruzzi aveva già visto parecchie cose. Nel 1969 aveva assunto 81 assistenti medico, dottori ed infermieri per lavorare a Woodstock, prendendosi cura di circa “25 schizzati da LSD e simili ogni ora.”
Abruzzi ha poi continuato a partecipare a concerti per prendersi cura di persone in difficoltà, e ha riassunto il suo sapere in “5000 Bad Trip”. Nell’articolo, ha parlato dell’efficacia di queste modalità di trattamento in situ durante i festival musicali, e per molti aspetti ha presagito gli impegni nella riduzione dei danni che sono diventati un pilastro di raduni contemporanei come Burning Man, Lightning in a Bottle, o Coachella.
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Il revival negli sforzi di riduzione dei danni è stato largamente guidato dal Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies, attraverso lo Zendo Project, che fornisce agli spettatori di festival che stanno passando dei brutti momenti uno spazio di supporto – tende – dove possono essere visitati da medici o anche solo passare un po’ di tempo in tranquillità.
Questo rinnovato interesse nel controllo delle conseguenze da bad trip ha attirato sempre più ricercatori impegnati individualmente nel campo delle droghe psichedeliche, da vari istituti di ricerca di tutto il mondo. In prima linea in questo campo c’è sicuramente la Johns Hopkins University, che negli ultimi anni ha aperto la strada alle ricerche sul potenziale terapeutico della psilocibina, la componente psicoattiva dei funghetti.
Al recente congresso di Scienze Psichedeliche del MAPS a San Francisco, Darrick May, uno psichiatra della Hopkins specializzato in tossicologia, ha presentato i risultati del più grande studio sui bad trip mai realizzato, in cui circa 2000 volontari hanno compilato un approfondito questionario online descrivendo le loro esperienze difficili sono psilocibina. Come Abruzzi, May si è fatto le ossa lavorando ai festival come il Burning Man, e ha guidato circa 40 esperienze da psilocibina alla clinica Hopkins.
“Credo che le esperienze impegnative siano grossomodo casuali.”
Secondo May, lo studio della Hopkins sui bad trip ha scoperto che le esperienze psichedeliche pregresse non sono correlate alla probabilità di avere un bad trip. La giovane età, invece, sembra essere correlata ad esperienze più difficoltose con la psilocibina. Tuttavia, May ha sottolineato che questa osservazione “deve essere sempre legata all’idea che più l’esperienza è difficile, più è positiva l’interpretazione.” In altri termini, anche se qualcuno se l’è vista brutta, ciò viene retroattivamente interpretato come un’opportunità di crescere come persona.
Inoltre, il team della Hopkins ha scoperto che coloro che riportavano di aver contattato dei professionisti di salute mentale dopo la loro esperienza con i funghetti avevano il doppio delle probabilità di aver contattato professionisti nello stesso campo prima della loro esperienza. Ma questo non sempre significa che i bad trip sono correlati a malattie mentali pre-esistenti. Piuttosto, queste persone potrebbero semplicemente essere più inclini a cercare aiuto per i loro problemi mentali, o avere i mezzi per farlo.
“Credo che le esperienze impegnative siano grossomodo casuali,” mi ha detto May al congresso MAPS. Sebbene lo studio sulla psilocibina non abbia evidenziato nessun fattore determinante per un bad trip, ha fornito una buona linea guida per altri questionari che possono essere usati per standardizzare la ricerca sul fenomeno. “Adesso abbiamo un strumento psicometricamente valido che può descrivere meglio diversi aspetti di queste esperienze, e possiamo anche descrivere meglio l’esperienza stessa,” ha aggiunto May. “Dobbiamo usare questo strumento in tutte le aree di ricerca psichedelica, per avere coerenza tra i vari studi.”
Tuttavia i fattori determinanti di un bad trip sotto psichedelici rimangono sfuggenti. Altri gruppi si stanno concentrando meno sulle cause e più sul mediare gli effetti negativi dopo l’esperienza, in un processo noto come integrazione.
Alla fine del 2015, il Center for Optimal Living di New York ha lanciato un programma chiamato Psychedelic Education and Continuing Care Program, dopo che molti psicologi e terapisti hanno riconosciuto la necessità di creare un luogo per analizzare i bad trip. Secondo Ingmar Gorman, uno dei suoi fondatori, il programma ha avuto un grandissimo successo.
Due volte al mese, il centro ospita gruppi di integrazione psichedelica che solitamente raccolgono tra i 10 e i 15 visitatori, anche se Gorman ci ha detto di aver avuto anche 45 partecipanti in una sola sessione. Durante queste sessioni, i visitatori lavorano con i consulenti e gli altri partecipanti per analizzare le loro esperienze difficili in un ambiente sicuro e confidenziale. Secondo Gorman, molti fra coloro che partecipano alle sessioni hanno avuto difficoltà relative a cerimonie di ayahuasca gestite impropriamente. Ma riconosce anche che molti dei partecipano vengono per fornire supporto agli altri, o per impararne di più su come ridurre i danni.
Uno dei partecipanti, John*, ha iniziato a partecipare alle sessioni di gruppo del centro l’estate scorsa. John mi ha raccontato di aver iniziato a soffrire regolarmente di cefalee a grappolo dopo aver assistito agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Questi debilitanti attacchi avvengono frequentemente ma casualmente, durano circa un’ora, e possono avvenire anche più volte al giorno. Di solito spedivano John in pronto soccorso, dove i dottori lo imbottivano di antidolorifici che non riuscivano mai ad alleviare davvero i suoi mal di testa.
Mi ha descritto il dolore come “se Freddie Krueger prendesse la lama del suo mignolo, la scaldasse e poi me la infilasse nell’occhio destro.”
Mentre navigava sul web qualche anno fa, John si è imbattuto in uno studio di Harvard su persone che soffrivano di cefalee a grappolo e trovavano sollievo grazie alla psilocibina. Pur non avendo mai avuto esperienze psichedeliche prima, John era disposto a tutto pur di trovare soluzione al dolore straziante. Dopo qualche difficoltà iniziale nel procurarsi la psilocibina, John era finalmente riuscito a trovarne e si era fatto un tè ai funghetti. Straordinariamente, le cefalee si sono fermate.
Ad oggi, John prende piccole dosi di psilocibina una volta ogni due mesi da quasi due anni. Sostiene che le cefalee siano tornate solo una volta in questo periodo, e solo perché non è riuscito a trovare funghetti per circa tre mesi. Anche se John ha iniziato a frequentare le sedute del centro per saperne di più sulla ricerca psichedelica, dopo aver avuto per la prima volta una brutta esperienza sotto funghi, mi ha detto di star trovando anche un supporto terapeutico nelle sessioni.
“Mi hanno permesso di guardarmi dentro e rendermi conto di quanto cose come l’11 settembre mi abbiano cambiato la vita,” mi ha detto John. “Sto ancora lavorando sull’integrazione, al momento, ma quello che mi piace di queste sedute è che si basano sulla scienza. Non mi stanno dicendo di ascoltare uno sciamano che risolverà tutti i miei problemi. Mi danno dei fatti e delle ricerche.”
Secondo Gorman, il Center for Optimal Living non ha ancora svolto nessuno studio con i suoi visitatori, ma non esclude che ciò accada in futuro, dato che il programma è interessato a condurre ricerca empirica per capire meglio i propri clienti e i problemi che incontrano con gli psichedelici.
“La nostra priorità è un approccio basato sui dati, e diamo molta importanza alla ricerca,” mi ha detto Gorman via mail. “Stiamo iniziando a pensare a dei possibili studi, ma stiamo anche cercando di non partire in quarta con un progetto che potrebbe essere percepito come invadente, o interferire con il riserbo dei nostri clienti.”
I bad trip sono una materia delicata non solo a causa dello stigma sociale che persiste intorno all’uso di sostanze psichedeliche, ma anche per via della dilagante idea che un bad trip sia la manifestazione di un trauma psicologico ben sedimentato che cerca di tornare in superficie.
Sebbene questa scuola di pensiero trovi le sue radici nel boom psicanalitico degli anni ’50, questa credenza sta iniziando ad essere confermata nei trial clinici che usano gli psichedelici per agevolare la terapia. Uno degli usi più promettenti in questo senso si è riscontrato nei trial del MAPS, in cui viene amministrata MDMA a veterani con disturbo da stress post-traumatico. I ricercatori della Hopkins hanno invece scoperto che la psilocibina sembra essere particolarmente efficace nel lenire il terrore della morte nei pazienti terminali.
In ogni caso, questi trial stanno dando credito alla credenza sciamanica che ciò che molti vedono come un “bad trip” sotto psichedelici in realtà non sia affatto un’esperienza negativa.
Esperienze psichedeliche come la dissoluzione dell’ego, che può essere indubbiamente terrificante per qualcuno che non l’ha mai provata, si stanno rivelando come una delle strade più efficaci per affrontare eventi traumatici. Perciò molti psiconauti e ricercatori di psichedelici come Darrick May hanno preferito abbandonare la terminologia del “bad trip”, preferendo invece la definizione di esperienze “difficili” o “impegnative”. Come dimostrato da varie ricerche della Hopkins e da innumerevoli testimonianze online, sono spesso le esperienze psichedeliche più strazianti a giovare maggiormente al fruitore.
Ovviamente, l’uso di psichedelici non è per tutti. Nessun ricercatore contemporaneo serio prenderebbe in considerazione la linea di pensiero del Discepolo che nel 1968 sosteneva che tutti dovrebbero avere accesso illimitato all’LSD. È necessario lavorare ancora sui meccanismi neurologici delle sostanze psichedeliche per capire le loro interazioni con patologie pregresse come la schizofrenia, per riuscire ad evitare la probabilità di danni permanenti a causa di sostanze che si stanno altrimenti rivelando di grande aiuto in terapia. Altri stanno cercando di arrivare alle radici neurologiche del disordine di percezione persistente da allucinogeni, chiamato anche flashback, che è ben lontano dall’essere considerato una patologia a sé, ma che è stato comunque ampiamente riportato per decenni.
Nel frattempo, intrepidi ricercatori di psichedelici stanno accuratamente mettendo insieme manuali di supporto psichedelico, buone norme cliniche per altri ricercatori, e facendo volontariato ai festival per alleviare le conseguenze peggiori di un’esperienza difficile. Le reazioni indesiderate agli psichedelici saranno con noi ancora per molto? Probabilmente sì. Ma ciò non significa che un trip debba necessariamente essere brutto.
*Non il suo vero nome.