“Hanno versato dei castori tritati nella cisterna dell’acqua.” No, non avete cliccato sul link sbagliato: sto parlando della nuova docuserie di Netflix su Osho, il controverso mistico indiano che in Italia associamo più che altro alla pagina Facebook sulle sue “frasi più belle.”
Il documentario, uscito il 16 marzo e diretto da Maclain e Chapman Way, è diviso in sei puntate da un’ora e ripercorre la storia di Rajneeshpuram, la comune dell’Oregon costruita intorno al culto di Bhagwan Shree Rajneesh (uno dei nomi di Osho, nato Chandra Mohan Jain) e rimasta in attività dal 1981 al 1985.
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I castori, dicevamo. Sì, a quanto pare alcuni discepoli della setta, nell’autunno del 1984, avevano frullato dei castori per poi buttare i resti in una cisterna d’acqua della contea di Wasco con l’intento di avvelenare i cittadini. Ma Wild Wild Country è un serie in cui fatti del genere a malapena ti fanno sbattere le palpebre. In effetti, più che un documentario, è un susseguirsi di colpi di scena fatto di storie folli, sesso, armi e casi giudiziari.
La storia inizia in India, dove Rajneesh predica la sua filosofia del “nuovo uomo” e la meditazione dinamica, un misto tra meditazione e danza energica. L’uomo, all’epoca trentenne, istruisce i suoi seguaci a indossare le vesti arancioni degli asceti indù, facendo suoi, allo stesso tempo, i precetti del capitalismo e definendosi a capo degli “spiritualisti capitalisti”—motivo per cui, tra le altre cose, davanti casa aveva una ventina di Rolls-Royce.
Le sue idee radicali, che promuovono la “liberazione sessuale” e attaccano le istituzioni del matrimonio, gli procurano migliaia di adepti e la rabbia dei conservatori. Rajneesh decide quindi di trasferirsi in America, intraprendendo, allo stesso tempo, un voto di silenzio di tre anni e lasciando alla guida del culto la sua segretaria personale Ma Anand Sheela.
Tramite interviste e materiali d’archivio, il documentario ricostruisce l’insediamento della comunità in Oregon, dove viene acquistato un ranch di 260 km quadrati nei pressi del capoluogo di Wasco, The Dalles. Nel giro di poco, migliaia di seguaci vestiti di arancione (e viola e rosso) confluiscono nello stato per costruirvi un’intera città con tanto di pizzeria, un aeroporto, un giornale locale e un lago artificiale.
Sheela diventa il vero centro di Wild Wild Country mentre gestisce Rajneeshpuram sotto il silenzio di Osho e il crescente sospetto da parte degli abitanti della contea, non certo abituati a vedere “persone nude che fanno sesso su un ponte.” Com’è facilmente prevedibile, molti cittadini e gran parte dell’amministrazione pubblica della zona iniziano una vera e propria lotta contro i seguaci del guru, che nel frattempo si sono armati, preparati a un eventuale scontro e messi in testa di avvelenare gli ‘avversari’ in vista delle elezioni che decideranno il loro futuro sul territorio.
Nel 1984, infatti, centinaia di persone a The Dalles contraggono la salmonella: i membri della setta avevano cosparso il patogeno—da loro stessi sviluppato in laboratorio—sul cibo di dieci ristoranti cittadini, provocando 45 ricoveri all’ospedale.
Anche se nessuno è morto, 751 persone sono rimaste vittime di quello che oggi rappresenta il più grande attacco di bioterrorismo della storia americana—e, nel caso del documentario, l’inizio di uno scontro e una serie di vicende che porteranno Sheela e un altro gruppo di seguaci a scappare in Europa e rifugiarsi su una piccola isola del Mare del Nord.
La docuserie si chiude proprio con aerei privati che partono in piena notte per scappare dalla polizia, arresti e l’abbandono del ranch da parte degli adepti dopo il rientro forzato in India di Osho. In tutto questo, l’uomo si è dichiarato non colpevole sostenendo che tutti i crimini siano stati commessi a sua insaputa da Sheela—che è stata condannata a 20 anni di carcere e costretta a pagare 470.000 dollari di multa.
Wild Wild Country non si tira indietro dal rappresentare dettagliatamente i lati oscuri di Rajneeshpuram: lo fa da decine di angolazioni diverse, che permettono allo spettatore di decidere autonomamente se si sia trattato di un’utopia new age distrutta dalla corruzione e dai “poteri forti” o di un vero e proprio lavaggio del cervello che portava gli adepti a commettere crimini.
Se del resto è quasi impossibile comprendere alcuni dei loro gesti, è anche difficile provare simpatia per gli abitanti delle città vicine, che appaiono come dei bigotti sia nelle interviste fatte dai registi che dai video d’archivio: molto prima dell’avvelenamento, loro li avevano minacciati con colpi di pistola in piena notte e poster che recitavano “not wanted dead or alive.”
Nonostante la narrazione piuttosto oggettiva, la docuserie ha suscitato diverse polemiche all’interno della comunità (che dopo la morte del leader, nel 1990, è passata nelle mani della “Osho International Foundation”, divenuta anche l’unica proprietaria di tutti i diritti d’autore delle opere del guru). “Com’è successo per gran parte della copertura mediatica del ranch, la serie sembra un sasso che salta sull’acqua atterrando brevemente solo sugli eventi più controversi,” si legge su oshonews.com. “L’unica cosa che gli spettatori possono imparare dalla serie è come non comportarsi.”
Anche sulla pagina Facebook ufficiale “Osho” è in corso da giorni un dibattito sulla docuserie. Molti sostengono che sia propaganda anti-Osho, altri sono entusiasti e altri ancora credono che la denuncia dei fratelli Way non sia sufficiente.
Insomma, ancora oggi la storia di Rajneeshpuram si porta dietro dibattiti e visioni contrastanti, ma è proprio in questo che il documentario riesce: più che far riflettere sulle follie di una setta, mostra cosa può succedere quando due parti estremamente diverse tra loro si rifiutano di scendere a compromessi, trincerandosi nei loro sistemi di credenze.
Proprio per questo, in un paese in cui gran parte delle persone della mia generazione conosce Osho tramite i meme con le finte massime in romanesco, dovremmo tutti guardare questo documentario.
Fun fact: il ranch di Rajneeshpuram è ora di proprietà di Young Life, un’associazione giovanile cattolica.
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