C’è questo adagio per cui la squadra che vince non va cambiata, ma non è sempre vero. Nel calcio ci sono squadre che, alla fine di quelli che sono chiamati “cicli”, cominciano a perdere le connessioni invisibili create, con anni di allenamento, tra i cervelli di chi ne fa parte. Altre, invece, riescono a mantenere la propria identità in modo indipendente dalle parti che la compongono, protette dalla creatività di un deus ex machina che sta in cambio, in panchina, o seduto a una scrivania in sede.
Ecco, se i PNL usassero il pallone e i piedi invece che il microfono e le mani sarebbero un terzo tipo di squadra. Una che ha vinto da subito, è sempre rimasta la stessa e ha lasciato che cambiasse tutto quello che la circondava. Dai campetti di periferia agli impianti di città ai megastadi-monumento, sono sempre due fratelli ex spacciatori che hanno creato un modello unico di integrità artistica: zero interviste, indipendenza totale, successo da testa che gira.
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Man mano che le luci che illuminavano il campo si facevano più intense e gli spalti si riempivano, però, loro hanno cominciato a pensare a come rimanere gli stessi man mano che la vittoria diventava più, in un certo senso, scontata. Un paio d’anni fa si erano auto-dichiarati “leggenda”: oggi, per proteggere se stessi e quello che hanno creato, hanno deciso di spegnere i fari, svuotare le gradinate. Sono solo due fratelli, deux frères, soli a soffrire in cima a Parigi.
Nei loro nuovi testi i PNL non possono non celebrare ciò che hanno fatto, ma stanno bene attenti a restare umani in mezzo ai cinque alti, ai primi posti, alle coppe alzate. “La misère et si belle”, cantano alla fine di questo loro quarto album: “È così bello soffrire”, ricordarsi il male che punge la pelle, la tristezza che si ficca nel cervello. “Ci sono stati momenti felici, ma molti meno di quelli neri / Che si ficcano nei miei occhi che si guardano allo specchio”, canta Ademo; “Sai cosa mi piace, sai quello che ci assomiglia / Sono il dolore e l’odio”, gli fa eco N.O.S.
Insomma, un tempo i PNL stavano sul tetto delle Vele di Scampia e dicevano di volere “il mondo o niente”, le monde ou rien. Ora che ci sono riusciti, dice NOS, vogliono “meno mondo”, e più “chi gli vuole bene”. Deux frères, insomma, non è tanto una richiesta d’aiuto quanto una presa di coscienza che il successo non cancella l’amarezza, se questa ha ficcato le sue radici nere nella terra dell’anima di chi ha spacciato per sopravvivere. Ed è proprio questo passato – la realtà della vita passata dei PNL – a dare valore al loro messaggio.
Non sono, insomma, ragazzi normali che raccontano come il successo gli ha cambiato la vita. Sono, o almeno sono bravi a sembrare, persone a cui si è rotto qualcosa dentro e che proprio grazie a questa spaccatura, e al suo canto solitario, sono diventati quelli che sono: “J’ai pas besoin de feat, pas besoin d’équipe”, dice N.O.S. in “Kuta Ubud”, una fantasia silvana che si ricollega a una delle idee fondanti del loro viaggio: la giungla incontaminata come simbolo delle strade di città, in cui loro Mowgli amici delle scimmie, si lanciano di liana in liana per fuggire agli sbirri, alle serpi che stanno a terra.
Come i suoi predecessori, Deux frères è un mastodonte. 17 tracce, solo tre che durano meno di quattro minuti. Fare album così lunghi senza annoiare è difficile, come dimostrano i vari Culture, Scorpion e SR3MM: se i PNL riescono a tenere alta l’attenzione lungo il corso delle loro opere è perché il malessere che attraversa come vene esposte la pelle della loro musica è dolce, cristallino, anche nei rari momenti in cui i BPM dei loro beat si alzano e i sintetizzatori si fanno spruzzi di suono, più che onde. Penso al mezzo synthpop ottantiano che si indovina tra le pieghe di “91’s”, al quasi-reggaeton pizzicato di bollicine di suono che è “Hasta la Vista” (una nuova “Bené”, in un certo senso).
Ma si rallentano anche fino quasi a fermarsi, i BPM, lungo il corso di Deux Frères. Tra i sussurri di “Autre Monde” e il suo desiderio di pace domestica (“Ho voglia di tornare a casa / Il cammino non è più lo stesso / Adesso che il mondo è nostro”), negli spazi tra le rilassate note di chitarra acustica di quella triste filastrocca d’amore e spaccio che è “À l’ammoniaque”. Il battito rallenta ma il cuore viola che si prendeva la copertina di Que la famille continua a pompare.
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