Sono stata espulsa dagli USA perché in aeroporto mi hanno trovato dei messaggi sulla cocaina

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Isabella “Issy” Brazier-Jones (28 anni) e Olivia Cura (26) avevano sempre voluto andare insieme negli Stati Uniti. Quando dopo la scuola di teatro le loro carriere da attrici non sono andate come avrebbero voluto, hanno prenotato il viaggio sperando di trascorrere alcuni mesi a godersi quello che il paese aveva da offrire. Ai controlli di frontiera, però, sono state fermate. Dopo ore di interrogatorio, a Brazier-Jones è stato rifiutato l’ingresso negli Stati Uniti per il ritrovamento, sul suo telefono, di messaggi che avrebbero fatto riferimento alla cocaina. Non potrà entrare nel paese per i prossimi dieci anni. Qui, racconta a VICE la sua storia.

Olivia ed io siamo migliori amiche da quando abbiamo iniziato la scuola di teatro. Sai quando scatta qualcosa e incontri la tua anima gemella? Dopo il diploma è stato piuttosto difficile entrare nel settore, così abbiamo entrambe messo da parte la recitazione e continuato con le nostre vite per un paio d’anni. Prima di rendercene conto, eravamo tornate a una routine che non volevamo e la realtà si stava facendo piuttosto pesante. Londra iniziava a starci stretta. È stato a quel punto che abbiamo pensato di staccare per un po’ , per poi tornare e ricominciare da capo. Era il momento perfetto per andare in America perché ne avevamo sempre parlato. Abbiamo lasciato il lavoro e prenotato i nostri voli d’andata e ritorno. Abbiamo fatto tutto più o meno un mese prima. Il piano era di andare a Los Angeles per un mese, poi a New York per un altro mese. Volevamo divertirci, e capire se la vita negli Stati Uniti ci sarebbe piaciuta.

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Il giorno della partenza, alle sette del mattino mi sono fatta trovare a casa di Olivia, e poi sua madre ci ha portate all’aeroporto. Il volo è stato tranquillo e abbiamo scherzato per tutto il tempo.

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Issy Brazier-Jones (sinsitra) e Olivia Cura. Foto per gentile concessione di Issy Brazier-Jones.

All’atterraggio a LA, alle cinque e mezza del pomeriggio, ero molto nervosa per il controllo passaporti, perché so come funziona negli Stati Uniti—c’è un video che mi ha fatto Olivia subito dopo essere scese dall’aereo in cui si vede bene che anziché essere esaltata sono piuttosto in ansia.

Ai controlli, un agente piuttosto burbero mi ha posto tutte le solite domande, del tipo: “Per quanto tempo resterai qui?,” “Qual è lo scopo del tuo viaggio?,” e “Dove alloggerai?” Poi ha iniziato a chiedere quanti soldi avessi sul conto in banca e quanti me ne fossi portata dietro. Gliel’ho detto, e pensava che fosse una somma troppo piccola. Penso che sia quello che mi ha portato ad essere ulteriormente interrogata. Era un bombardamento continuo di domande, e la situazione aveva qualcosa di intimidatorio.

Poi l’agente mi ha confiscato il telefono e il passaporto, e ha fatto segno al collega che era con Olivia perché facesse lo stesso con lei. Dopodiché siamo state scortate separatamente in una sala d’attesa con sedie di plastica e una guardia alla porta, dove a entrambe è stato detto di non sedersi l’una accanto all’altra e di non guardarsi. La sala d’attesa ha di per sé un’atmosfera davvero tesa. Le persone entravano e uscivano continuamente. C’erano passeggeri che provavano con tutte le loro forze a non addormentarsi. C’era una famiglia asiatica con il figlio di tre anni che piangeva, e che cercavano continuamente di zittire.

Ero confusa. Non riuscivo a immaginare come sarebbe andata, convinta si trattasse di un semplice errore in buona fede da parte degli agenti. Pensavo solo che era stato un controllo di routine, che sarebbe finita presto, e che di lì a poco ci saremmo trovate di fronte a un margarita, guardandoci indietro e pensando che era stata un’esperienza assurda. La speranza è svanita velocemente quando hanno chiamato il nome di Olivia—ma non il mio.

È stata l’ultima volta che l’ho vista prima di risalire sull’aereo. Lì le cose sono degenerate. Non volevo stare lì da sola. Continuavo a chiedere agli agenti e i funzionari di poter far sapere alla mia amica cosa stava succedendo, ma a ogni mia domanda la risposta era di stare in silenzio e rimanere seduta. “Gliel’ho detto, signorina, stia in silenzio e si sieda.”

Il ricordo che ho dei momenti prima dell’interrogatorio è molto confuso. Ero incredibilmente stanca. Sono stata interrogata ripetutamente, otto volte nell’arco di 24 ore. C’erano un sacco di situazioni che si ripetevano, di tentativi di mettermi all’angolo. Fino all’ultimo interrogatorio, si trattava di lavoro e di sapere se avrei lavorato lì. Dopo mi hanno detto che mi avrebbero perquisito il telefono che era già stato confiscato. Hanno tirato fuori e-mail di cinque anni prima—a tratti era quasi comico. Sono stata portata in una cella di attesa e mi hanno interrogata un altro paio di volte. Poi ho aspettato cinque ore in cui hanno esaminato il mio telefono per la seconda volta.

Non ho dormito e non mi hanno dato da mangiare, quindi all’ultimo giro ero a pezzi. Poi è saltata fuori la droga. Mi hanno detto: “Devi prenderti le tue responsabilità. Smettila di dire scemenze, smettila di farci sprecare tempo. Sappiamo che sei una bugiarda, non ci piacciono le persone come te in questo paese.”

Mi hanno detto che tra i miei messaggi avevano trovato un riferimento alla cocaina. Ho chiesto quale fosse il riferimento e si sono rifiutati di dirmelo. Mi hanno chiesto solo se avessi mai fatto uso di cocaina e, a quel punto, non volendo mentire, ho detto: “Sì, l’ho provata.” È così che sono stata espulsa, a causa di un riferimento che dicevano risalire a due anni prima.

Non so che messaggio fosse, e quando sono tornata ho cancellato tutto dal telefono. Conosco varie persone che si stanno disintossicando, inclusi dei familiari, quindi mi sono chiesta se fosse stato quello. O i messaggi di amici dopo una serata che mi chiedevano se avessi “preso della cocaina.” Non penso di aver nemmeno risposto.

Sono stata scortata attraverso l’aeroporto e sull’aereo e non ho ricevuto il passaporto finché non siamo atterrati. Quando ho visto Olivia [che aveva deciso di rientrare nel Regno Unito con l’amica], è stata la miglior sensazione di sempre. Abbiamo solo sorriso. Ora non potrò tornare negli Stati Uniti per dieci anni. Mi hanno persino messo un timbro sul passaporto.

Non sto benissimo, ora che sono tornata. Quando mi hanno rimpatriata, ero un po’ spaventata ad uscire di nuovo. Sono una persona incredibilmente privilegiata e cerco di non darlo per scontato quando è possibile, ma a volte questo può renderti naturalmente un po’ ingenuo rispetto a ciò che sta succedendo e ciò che provano gli altri. Dopo questa vicenda, ho avuto un piccolo assaggio di realtà.

Il Customs & Border Control degli Stati Uniti, contattato da VICE UK per un commento, ha spiegato che non vengono rilasciati commenti su casi singoli.

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