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La storia del tassista palestinese che ha rubato un muro di Banksy

Nessuno sa chi sia Banksy, e questo ha di certo avuto un gran peso nel rendere le sue opere famose a livello globale, oscurando anche altre vicende significative per l’artista e quelli che fruiscono della sua opera, ovvero tutti noi. Ora il documentario The Man Who Stole Banksy lascia da parte l’alone di anonimato con cui si muove lo street artist per prendere in esame un caso specifico che lo riguarda e, tramite esso, analizzare temi diversi e molto più ‘grandi’: la questione palestinese, il significato della street art e il mercato da milioni di dollari che si è creato intorno ad essa.

Tutto inizia nel 2007, quando Banksy e il suo team arrivano nella Betlemme rinchiusa già da qualche anno dal “muro”—ovvero la barriera alta otto metri che la separa da Gerusalemme—per realizzare dei murales che raccontino la situazione in cui versa la Palestina.

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Il muro, con solo una dogana.

Tra questi murales ce n’è uno, forse il più famoso e il più controverso, che ritrae un soldato alla frontiera che chiede a un asino un documento d’identità. L’opera—o meglio, l’opera e il muro che la supporta—viene presto tagliata, imballata e venduta su eBay per 100mila dollari. Arriva così in Europa, dove ad oggi resta invenduta in un magazzino londinese, perché gli attuali proprietari continuano a chiedere cifre spropositate.

The Man Who Stole Banksy ripercorre la storia di come il muro è stato trafugato, interpellando diversi personaggi: mercanti d’arte che vendono opere di street art letteralmente sradicate dal loro habitat; restauratori che cercano di ‘salvarle’ e custodirle in magazzini a uso dei posteri; critici d’arte e artisti di fazioni opposte. Ma soprattutto, il documentario racconta uno spaccato di Palestina e i palestinesi che si ritrovano all’improvviso al centro dell’attenzione internazionale che fino a quel momento li aveva ignorati—e ci si ritrovano per l’arrivo degli street artist, con tutte le considerazioni di opposto segno che questo porta con sé.

Il documentario è stato realizzato dal regista milanese Marco Proserpio. Al momento Marco si trova a New York, dove ieri The Man Who Stole Banksy è stato proiettato in anteprima al Tribeca Film Festival. L’ho contattato per farmi raccontare com’è nato il progetto e com’è successo che la voce narrante sia quella di Iggy Pop (guardate il trailer qui sotto se non ci credete).

VICE: Innanzitutto, quando hai deciso di girare The Man Who Stole Banksy?
Marco Proserpio: Non era programmato, è nato dal caso. Nel 2012 ho passato il checkpoint da Gerusalemme a Betlemme e la prima persona che ho incontrato dopo aver superato i tornelli è stato Walid The Beast, un tassista palestinese dal nomignolo poco amichevole. Nel tragitto in macchina mi ha raccontato di aver rubato un Banksy e di averlo messo in vendita su eBay.

Pensavo si trattasse di una stampa, oppure di una delle opere che lo street artist aveva esposto nella mostra Santa’s Ghetto, organizzata a Betlemme nel 2007. Invece no, Walid parlava di un muro di quattro tonnellate, l’intero lato di una casa, che aveva rimosso con l’aiuto di un flessibile ad acqua. Su questo pezzo di cemento c’è lo stencil di un soldato israeliano che chiede i documenti a un asino.

The donkey with the Soldier di Banksy nella ‘gabbia’ entro la quale è stato trafugato e trasportato.

È il famoso pezzo The Donkey with the Soldier, che a suo tempo ha scatenato grandi polemiche—nella cultura palestinese, dare dell’asino a qualcuno è un insulto.
Tra tutte le opere realizzate dallo street artist in Palestina, The donkey with the Soldier (conosciuta anche come Donkey ID o Donkey Documents) è stata sicuramente la più controversa. Banksy voleva sottolineare, con l’ironia che lo contraddistingue, le incredibili restrizioni cui i palestinesi devono sottostare ancora oggi per muoversi nei loro territori. Ma fin da subito la stampa l’ha bollato come “un errore di valutazione” di Banksy, che aveva usato un simbolo “offensivo” (l’asino, appunto) per rappresentare i palestinesi.

Molti non hanno capito i suoi interventi, altri l’hanno accusato di sfruttare la situazione palestinese per fare soldi e aumentare la sua fama. In realtà le sue azioni in quei territori non erano, e non sono, direttamente rivolte ai palestinesi. Sono convinto che il vero scopo di Banksy fosse, ed è ancora, quello di parlare a noi e alla società occidentale della situazione palestinese, più ancora che ai suoi abitanti: quell’opera, fotografata e ripostata ovunque su internet, ha dato la possibilità a noi occidentali di riflettere sulla condizione palestinese, mentre ai palestinesi ha dato la possibilità di discutere di arte, in un posto dove l’arte non è considerata una priorità per ovvi motivi.

Uno dei temi centrali del documentario ruota intorno a questa domanda: è giusto o meno “decontestualizzare” le opere di street art? Le risposte sono in sostanza due (sì e no), ma è interessante capire le motivazioni che spingono a una piuttosto che all’altra—e che tu presenti in modo neutro allo spettatore.
Non credo ci sia un modo giusto o sbagliato di rimuovere opere di strada. Ogni caso è a sé stante e dipende dalle intenzioni di chi lo fa. Nel documentario vengono mostrate persone che compiono la stessa azione (quella di “appropriarsi”, rimuovendola dalla strada, un’opera creata illegalmente) in modi e contesti molto diversi tra loro.

Walid nel suo taxi.

Ci sono i “Bad boys” come Stephan Keszler, che vedono la questione solo in termini economici: “Ma se venissi a casa tua, su cui c’è un Banksy, e ti dessi una borsa contenente 200mila dollari, mi permetteresti di tagliarti il muro di casa?” chiede. Ci sono gli studiosi che credono che quest’arte, o almeno alcuni suoi esemplari, debba essere preservata. Ci sono quelli che pensano che debba rimanere effimera, e che quindi dovrebbe essere lasciata scomparire per cause naturali, lì dove è stata fatta. Così come ci sono i freak come Philipp Teuchtler o Paolo Buggiani, che sono arrivati a conservare queste opere quando erano ancora considerate poco più che spazzatura, senza valutare il lato economico.

Verso la fine del documentario racconti di quando, nel 2016, Blu ha cancellato tutti i suoi murales a Bologna per protestare contro la musealizzazione della street art. Nonostante le varie prospettive, forse questo è l’atto più chiarificatorio sulla correttezza o meno della decontestualizzazione delle opere?
La faccenda di Bologna è stata, potenzialmente, una delle situazioni più interessanti che ho seguito in questi anni. Purtroppo come spesso capita dalle nostre parti la discussione “artistica” è stata immediatamente abbandonata in favore di una discussione politica un po’ ridicola in cui tutto veniva riassunto in “massoni” vs “centri sociali”. Peccato.

Ecco, ovviamente volevo chiederti anche della voce narrante, Iggy Pop. Com’è successo?
A documentario ormai terminato sentivo il bisogno di aggiungere una voce per spiegare meglio alcuni passaggi. Ero in un bar col producer Filippo Perfido e abbiamo immaginato una voce punk, che rispecchiasse lo spirito del documentario, e allo stesso tempo fosse lontana da ogni idea di politica. È uscito il nome di Iggy Pop. Ci siamo guardati ridendo, sapevamo che non era niente più che una “sparata”. Ma gli abbiamo scritto e dieci ore dopo aveva già visto tutto e aveva accettato di partecipare.

Sei tornato l’ultima volta in Palestina un anno fa, in occasione dell’apertura dell’Hotel Walled Off di Bansky, quello letteralmente senza finestre. Hai notato dei cambiamenti rispetto al 2012?
C’è stato un piccolo cambiamento turistico dovuto forse proprio alla street art, ma la situazione delle persone che ancora vivono circondate da un muro che non possono oltrepassare è immutata. È un carcere a cielo aperto, non ci sono altre definizioni. I palestinesi sono ogni giorno sottoposti a una tortura inaccettabile, mentale oltre che fisica. È una situazione brutale e non cambierà mai veramente finché quel muro sarà lì.

Secondo te, tra cent’anni ci saranno le opere di street art nei musei e nemmeno ci faremo caso?
Credo quella sul come conservare nel tempo un’opera per sua natura effimera sia una discussione interessante. Penso che tra cent’anni sarà cambiata questa forma d’arte, più ancora che il modo in cui si è deciso di conservarla. In ogni caso, l’unico muro che vorrei veramente vedere in un museo, non tra cent’anni ma ben prima, è quello di separazione tra Palestina e Israele, a ricordare un altro errore nella nostra storia.

The Man Who Sold Banksy è prodotto in collaborazione con RAI Cinema.

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