Música

Abbiamo chiesto a Massimo Zamboni di mettere in classifica i suoi stessi dischi

Rank Your Records è la serie di Noisey in cui chiediamo a musicisti di ripercorrere la loro carriera mettendo i propri album in ordine di preferenza.

L’erbazzone è una torta salata reggiana che si fa con biete, aglio, prezzemolo, pancetta e parmigiano su pasta brisée. È anche l’ordinazione di Massimo Zamboni, chitarrista di CCCP Fedeli alla Linea e CSI, quando entriamo in un bar di Reggio un lunedì mattina di ottobre. Ha con sé una borsa a tracolla con dei suoi dischi che è andato a ritirare e poco altro. È sceso in città dal borgo sui monti dove si è ritirato a lavorare la terra. Non gli faccio paragoni tra la sua esperienza e quella di Giovanni Lindo Ferretti, perché siamo qua per parlare di altre cose. 

Zamboni è pienamente conscio del fatto che qualsiasi cosa ha mai fatto e mai farà, a livello musicale, sarà in potenza schiacciata dal peso dirompente dell’esperienza-CCCP prima━un sogno punk, filosovietico e mondialistico infrantosi assieme all’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta━e di quella del Consorzio Suonatori Indipendenti poi, schiacciati dal peso di quel successo insostenibile che fu Tabula Rasa Elettrificata.

Quando gli ho proposto di partecipare a Rank Your Records, e quindi di mettere in classifica gli album dei suoi gruppi, mi ha risposto che avrebbe parlato più volentieri delle sue ultime cose. E, oggettivamente, è comprensibile: perché nello Zamboni post-CSI ci sono sia un nuovo tragitto di poetica personale fatto di “sconfitta, inermità ed estinzione” che un eterno ritorno delle tematiche che hanno accompagnato la sua esperienza di vita. 

Al posto di fare una classifica dei suoi primi vent’anni, quindi, Zamboni ha allargato il campo a tutta la sua opera. Anche se, dice, è sicuro della posizione solo dei primi tre. Qua sotto, quindi, c’è di tutto. La storia della nascita di “Emilia paranoica.” Rancori, errori e rivelazioni. La fama e la paura della fama. Un rifiuto delle sfighe personali e un tentativo di universalizzare l’esperienza umana. La Mongolia, Berlino, la Bosnia, il Monte Amiata. In due parole: un pezzo di storia della musica italiana.

10. CCCP Fedeli alla Linea – Canzoni preghiere danze del II millennio, Sezione Europa

Come mai cominciamo da qua? 
Mi è piaciuto inserirlo perché è un album che detesto per come è stato realizzato. È il momento di massima confusione di tutta la mia e nostra carriera━la sciocchezza con la quale abbiamo affrontato quelle canzoni, alcune delle quali sono veramente bellissime: “Madre”, “Palestina”, “Svegliami”, “Huligani”, “È vero, “And the Radio Plays.”

È uno dei miei vostri LP preferiti, sai? 
Ma io so che cosa sarebbe dovuto essere, quell’album! Ci siamo lasciati conquistare da un’idea di plastica della casa discografica. Loro hanno semplicemente evidenziato i nostri difetti, facendoci credere che con quell’intenzione musicale o produttiva avremmo venduto di più, saremmo piaciuti di più, saremmo andati in televisione e in radio. Ed è successo, ma è stata una cosa che ci ha affossato, non ci ha tirato su. Ha tolto tutta la lucidità dei CCCP, il fatto di dire, “Noi non abbiamo bisogno di questi meccanismi. Se vado in televisione faccio del danno a me e ai miei ascoltatori. Non ho bisogno di vedere delle ballerine zampettare su ‘Svegliami’ in televisione.” È stata una cosa contro cui ho lottato più che potevo ma che non sono riuscito a fermare. I CCCP non me ne vogliano, ma erano molto più convinti di me da questo punto di vista. Anche Giovanni.

Giovanni forse lo vedeva come un modo per portare il vostro messaggio a più persone.
Porti il messaggio a più persone ma in realtà il messaggio non c’è più. La modalità mangia il messaggio. Non avremmo dovuto fare quell’album in quel modo. Se avevamo dei problemi di popolarità avremmo dovuto emigrare. Potevamo andare in Unione Sovietica, potevamo fare quello che volevamo. Quella non è stata una scelta da CCCP, è stata una scelta da industria discografica alla quale un gruppo di adolescenti un po’ tardi si sono arresi. Ed è un peccato.

Nonostante fosse un disco pensato per le radio, conteneva momenti di totale anarchia. Penso anche solo a “Vota FATUR” e “Reclame.”

C’era anche una voglia di accomodamento, tra di noi, per cui era giusto che ognuno avesse la sua parte. Sono quelle democrazie che, col senno di poi, trovo un po’ detestabili. Preferisco le idee chiare: Giovanni canta, io compongo. Punto. Perché questa è l’idea da cui è nato tutto, ed è giusto difenderla. Infatti c’è molta frammentarietà, in Canzoni

Ma nonostante questo è nei tuoi primi dieci dischi.
Anche solo per non scordarmi come è stato fatto. Mi aiuta a capire che cosa non fare. Che non bisogna accontentarsi di costruire una bella canzone: la canzone ha bisogno di una forma e di un supporto. “Ricordati che quella cosa non funziona.” Non credo ai giornali, alle radio, alla televisione, all’industria discografica, non ho voglia di vendere tanto, non credo alle masse oceaniche. Quindi perché mi devo confrontare con questo?

È un album comunque molto forte a livello lirico. Personalmente, sono sempre rimasto sotto della coda di “B.B.B.”, quel “E non so se verrà ma non credo che venga.”
Certo, ci sono cose molto forti. “B.B.B.” è stata forse la prima canzone che abbiamo composto in vita nostra. Si chiamava “Sexy Soviet”, partiva da un giro di basso che avevo composto quando ancora facevo il bassista dei CCCP. E poi non l’abbiamo mai sviluppata, però la trovo laccatissima rispetto alla forza e all’immediatezza che avevano sempre avuto quel giro di basso e quel cantato. Insomma, ci siamo fatti un po’ spaventare. Però ci sta, nella vita è un passaggio quasi obbligatorio che vedo anche con tenerezza.

Videos by VICE

9. Massimo Zamboni e Angela Baraldi – Un’infinita compressione precede lo scoppio

Hai conosciuto Angela ai tempi di Ortodossia, a quanto mi risulta.
Ci siamo incrociati tantissimi anni fa, a Bologna, allo Studio Superfluo. Angela avrà avuto quindici, sedici anni. Io ne avevo ventisette. Ci siamo presentati, niente di più. Il suo nome mi è sempre rimasto in testa negli anni finché, nel 2010, il regista Andrea Adriatico mi ha chiesto di partecipare alla colonna sonora per un suo documentario sull’AIDS. Ho scritto una canzone, Nove ore, e quando l’ha ascoltata ha voluto proporre Angela come interprete. Ci siamo riconosciuti, ci siamo colpiti. Poi lo stesso Adriatico ci ha chiesto di pensare a uno spettacolo da presentare nel teatro in cui lavora a Bologna dedicato ai CCCP. Abbiamo provato questo azzardo e la cosa ha funzionato bene, per cui abbiamo iniziato a fare un tour, Solo una terapia. L’anno dopo un altro, Punk e disciplina. Poi è uscita la voglia di fare un album di canzoni nostre, che è stato questo.

Avevi le canzoni dell’album nel cassetto o le avete composte assieme? 
Io compongo sempre, ho sempre quelle venti canzoni pronte a casa per ogni evenienza. Però ho iniziato a pensarle in funzione sua. Una, Che farai, era addirittura lì da dodici anni. Comunque: deve avere un senso far uscire una canzone, non ho bisogno di vedere il mio nome scritto da qualche parte.

I testi sono tutti tuoi?
Ho fatto tutto io, in realtà. Angela è una grandissima interprete e bisogna stare attenti a non scollare le due cose per democraticismo. Adesso uscirà con un suo album scritto da lei, e deve essere così. Lei è interprete di queste canzoni, che però sono nate perché lei era lì. Quindi si è dovuta rispecchiare nei testi, che ho modificato pian piano in base alle sue esigenze. È stata una condivisione.

In che modo le vostre esibizioni a tema CCCP hanno toccato l’album? 
In un certo senso lo hanno un po’ mangiato. La forza di CCCP è così deflagrante rispetto al pubblico e alle sue aspettative che assorbe le altre canzoni che puoi fare. Insomma, è più facile sentirsi richiedere “Emilia paranoica” piuttosto che altre. Ma continuo a credere molto nel valore di questo album, molte canzoni sono proprio belle. Magari qualcuno le reinterpreterà, magari le riprenderemo, magari avranno una loro vita. Perché le canzoni sono creature vive, non sai mai dove andranno a finire. 

8. CSI – Linea gotica

Che ricordi hai del periodo attorno a Linea gotica
Lo registrammo in Val d’Orcia, e in fin dei conti è un luogo che è entrato bene nell’album. Era estate, c’era un caldo torrido, lì tutto è bruciato━c’è la presenza del Monte Amiata, molto incombente, una montagna molto magica a suo modo, radioattiva, da lì si estraggono il cinabrio e il mercurio. C’è una sulfureità, un ribollire, è una zona di terme e acqua calda. Abbiamo passato sere e sere lì, fuori dallo studio, a guardare l’Amiata ascoltando To Bring You My Love di PJ Harvey. Credo sia proprio la cifra rivelatrice di quel momento. E quell’album è entrato molto dentro Linea gotica, così scarno, con quei suoni di chitarra così poco chitarristici. È qualcosa di molto teatrale, secondo me.

È stato quello in quel momento in cui hai iniziato a pensare al tuo ruolo di chitarrista in modo diverso rispetto a quanto avevi fatto fino a quel momento?
Bé, non c’era certo bisogno del punkettone. I CSI sono nati per questo, bisognava operare un cambiamento, non c’era più bisogno di tutta quella foga. “Diamo forza ai pensieri in un altro modo, con una nota sola.” Non ne servono di più. 

Ci sono momenti, in quell’album, in cui ti sei sentito di arrivare alla carne viva di quello che per te è la chitarra?
“Irata” e “Cupe vampe”, ad esempio. Anche se la mia chitarra non ci fosse starebbero in piedi lo stesso, ma in realtà entra come fosse un cantante. Non è una chitarra d’accompagnamento né una chitarra solista, un qualcosa che segue delle scale, cosa che trovo proprio insopportabile e non so neanche fare. Per me la chitarra è un cantante che utilizza il legno al posto della voce, ecco.

Durante l’arco dei CSI, come si è evoluto e come è fiorito il tuo rapporto strumentale con Canali e Maroccolo?
C’erano dei problemi pratici con risvolti abbastanza umoristici. Io mi alzavo alle otto di mattina e restavo solo fino alle quattro di pomeriggio, quando si alzava Maroccolo. Poi tra un pranzo e una cena arrivavamo verso sera e, quando io andavo a letto, loro iniziavano a suonare. Ci accontentavamo a vicenda degli scampoli di vita che ognuno concedeva all’altro. Ma al di là di questo siamo stati assieme parecchio tempo. Credo che ci fosse una grande fiducia reciproca e, al contempo, un clima di assoluto sospetto rispetto alla capacità dell’altro di “cambiare” le canzoni. C’erano momenti in cui le cose nascevano in un secondo e altri in cui invece smontavamo a vicenda consapevolmente quello che usciva, perché a ognuno di noi sembrava che per una ragione o l’altra uscisse da un seminato da cui non doveva uscire.

Eri tu il principale fautore di questa logica?
Io avevo molta forza in questo, un po’ perché avevo l’appoggio pieno di Giovanni, un po’ perché non essendo musicista avevo la possibilità di vedere quelle canzoni da un altro punto di vista, vedere il loro senso vero e proprio. Non a caso l’idea della Linea gotica è nata da Materiale resistente, e mi interessava non uscire da quel seminato. C’era bisogno di canzoni che si riferissero a quell’idea. Per le belle canzoni c’è tempo, ci sono gli album e i progetti successivi. Ma quando fai musica come la facciamo noi non fai mai “belle canzoni”. È stato un braccio di ferro fino alla fine. 

7. CPI – Materiale resistente

Come mai Materiale resistente è in classifica? 
Linea gotica non ci sarebbe stato, senza Materiale resistente. È stata una bella storia che mi è capitata, e ho pensato di supportare io il carico di tutta questa cosa. Gli altri non lo avrebbero potuto fare.

Perché?
Per distanza, forse anche per incapacità o non voglia di mettere assieme un tassello così complesso. Con così tanti autori da coinvolgere e un concerto da organizzare, o c’è una centralità forte che decide o alla fine ti perdi, perché c’è veramente troppa roba. Ad ogni modo, cominciai a elaborare il titolo dell’iniziativa e l’idea con il comune di Correggio, in particolare con Fabrizio Tavernelli degli AFA. Mi avevano chiesto se avevamo idee per il cinquantennale della resistenza, e volevamo provare a renderlo musicalmente. Lo scopo era togliere la retorica dalle celebrazioni.

Allontanarsi da un modello di celebrazione istituzionale, quindi?
Il ragionamento è semplice. Al cinquantennale o chiudiamo baracca e burattini, lasciamo perdere con la resistenza, o proviamo a cercare altre modalità, qualcosa che attiri forze e idee nuove. Se dobbiamo vedere la resistenza infossata tra bandiere tricolori, sciarpe addosso al sindaco e discorsi ufficiali in cui continuiamo a dire sempre le stesse cose che non ascolta più nessuno, è ora di chiudere. Da cui questa idea di rimpossessarsi delle canzoni partigiane, riproporle con modalità differenti, proporre anche una larghezza di vedute musicale. Mentre producevo l’album, tante volte ho detto, “A me questa proprio non mi piace”, metti per uno stile banale o per parole sciocche. Poi però ho pensato che la resistenza non l’ha fatta solo il PCI. L’hanno fatta il PCI, gli azzurri, e c’erano addirittura i monarchici. Non è giusto arrogarsi il diritto di decidere che cosa sia la resistenza. C’è bisogno di apporto. E questo significa fidarsi, guardarsi negli occhi e ascoltare.

Quali sono i momenti musicali che più ti sono rimasti di quella compilation?
I miei pezzi preferiti sono quello degli Ustmamò, che ci hanno incantato tutti quanti, quello dei Marlene e quello dei CSI. I tre più vicini a me, come attitudine. Non è un momento musicale, ma mi piaceva tantissimo l’idea di mettere dentro al disco qualcosa che non parlasse di noi ma di qualcosa di molto lontano, quello scritto di Maksumic sulla guerra in Bosnia━Maksumic che poi rientra ne L’inerme è l’imbattibile. È un discorso che è cominciato e va avanti tuttora. Mi piacciono molto questi intrecci, l’idea che ogni cosa ne apra un’altra, senza scordarsi da dove viene, anzi; recuperandola ogni volta che puoi. Essendo contadino, detesto vedere cadere energie che ho innescato.

6. CCCP Fedeli alla Linea – Socialismo e barbarie

Come mai proprio Socialismo e barbarie?
È stato importante perché rappresenta un contestatissimo salto a una major. Abbiamo avuto striscioni bruciati, sassi sul palco, auto ammaccate, botte di qua e di là. Cose assolutamente sciocche e ridicole perché nessuno ci comprava, e quindi non c’era niente da vendere. È un album a cui sono legatissimo, mi piace molto, con alcune ingenuità evidenti.

Perché parli di ingenuità?
Ad esempio c’è una lunga “Sura”, fintamente orchestrale. C’è un’incapacità strumentale, in un brano come quello. Però ci sono delle cose bellissime, ci sono “Tu menti”, “A Ja Ljublju SSSR”, “Manifesto.” Ha la stessa forza di Affinità/Divergenze. Ha dentro l’idea dei CCCP che fanno musica confrontandosi con il mondo, anche con molta sfacciataggine.

All’epoca c’era la sensazione di dover scrivere il successore di un disco come Affinità/Divergenze, che si sarebbe rivelato poi storico in un certo senso?
No, eravamo dei disgraziati. Non sapevamo neanche se saremmo sopravvissuti il giorno dopo. Eravamo nei guai perché era appena andato via il nostro bassista Umberto Negri, non sapevamo cosa avremmo fatto, sapevamo che non volevamo smettere di suonare e per fortuna abbiamo trovato Ignazio Orlando. Era la prima volta che facevamo musica con un musicista vero, quindi c’è stata quest’espansione improvvisa del suono molto bella dal mio punto di vista. Ma non c’era nessun pensiero rispetto al passato perché veramente potevamo morire da un giorno all’altro. Il nostro problema era, “Se ci siamo cerchiamo di esserci.” Gli altri ci diranno che cosa stiamo facendo.

In che modo vi rapportavate con la vostra percezione pubblica, in quegli anni? 
Diciamo che quando è uscito Ortodossia, che è stato votato da Rockerilla come miglior album del momento, e la stessa cosa poi è successa per Compagni, Cittadini e Affinità/Divergenze, la cosa mi sembrava molto normale. Mi sembrava di intuire che avessero una potenzialità infinitamente superiore alle sciocchezze che circolavano mediamente, con questa mimica americana o inglese che mi sembrava insopportabile e incapace di resistere ai tempi, al di là dell’anno in cui usciva. Che la fama di quei dischi potesse durare fino a oggi no, non pensavo neanche io di durare così tanto. Però la forza di quelle canzoni a me sembrava davvero inestinguibile e incomprabaile. Ma non con superiorità. Non ci sentivamo più intelligenti o più capaci degli altri. C’era stato un insieme assolutamente misterioso di unità, forze, intenti e capacità di mescolarsi tra di noi che non avremmo mai supposto potesse accadere. 

Fu Ignazio Orlando a rendere Socialismo più pulito e leggermente elettronico? 
Ignazio era stato il nostro fonico già ai tempi di Ortodossia, e man mano aveva sempre avuto una mano sui nostri album. Ha quindi avuto un suo percorso, non facile: quando ha dovuto registrare “Emilia paranoica” ci ha detto, “Questo pezzo non lo registro perché vi voglio bene e sarà la vostra rovina.” Quindi non aveva una grande lungimiranza, da questo punto di vista! Però lo faceva con il cuore, ed era capace. Sapevamo che era un ottimo bassista, e quindi è stato naturale chiedergli di unirsi a noi, ma anche affidarsi a lui. Ignazio ha faticato molto ad avvicinarsi a noi e noi a lui, ma c’era voglia di farlo. 

5. CSI – Tabula rasa elettrificata

Come ti approcci, oggi, a un’esperienza così mitizzata come quella di Tabula rasa?
Mi aiuta a rendermi conto che tutto quello che è il mio patrimonio musicale o letterario continua a rotolare. Quest’anno sono tornato in Mongolia con la mia famiglia, per un mese, ed era la prima volta che ascoltavo Tabula rasa in Mongolia. Mi ha fatto un effetto bellissimo. C’erano delle intuizioni musicali molto adatte a quel paese, e questa cosa ha confermato che è stato così. Mi rendo conto di come le intuizioni iniziali, quelle di Ortodossia, i discorsi di quelle sere lì, continuano ad aprire strade. Sono tutte cose che fanno parte di un immaginario che si è costituito e vedo in una maniera così lineare che a volte mi lascia perplesso, ma mi dà molta forza. Quell’album contiene l’apice e la dissoluzione di CSI.

Tu e Giovanni tornate dalla Mongolia e vi ritrovate insieme agli altri: come andarono le cose? 
Il viaggio fu mio e di Giovanni, l’album lo composero gli altri. È stato un momento di grandissima gioia essere riusciti a trasmettere agli altri qualcosa di così forte. Lo facemmo con racconti, scritti, frasi, quele cose che racconti a tavola e le immagini pregresse che avevamo della Mongolia.

Questo a livello di atmosfera, ma a livello di suono?
In viaggio avevo un registratore che ho usato per portare a casa alcune cose che poi mi sono servite. Ok, è un album di musica moderna, ma una canzone mongola è diventata una parte di “Matrilineare.” Questo canto lungo, questa capacità di evocare i luoghi musicalmente, mi piace molto. E ho provato a riportarlo sulla chitarra, per esempio nel finale di “Ongi.”

Avevate una percezione di scoppio imminente per la vostra carriera mentre scrivevate l’album?
Sì, ma non in modo così forte e immediato. Sapevamo che le cose stavano andando bene e che avevamo molto seguito. Ma non siamo abituati a questa centralità, nessuno di noi lo è. E questo ci ha fatto letteralmente scoppiare, ognuno di noi ha tirato fuori il peggio di sé. Ma è un giusto prezzo da pagare, io credo.

In una tua vecchia intervista avevi parlato del periodo post-Tabula Rasa come un momento”di profondo disagio” a livello personale.
Certo, dopo l’uscita. Prima no, perché è stato l’unico album in vita nostra durante le cui lavorazioni non abbiamo cercato di ucciderci a vicenda. È andato tutto scioltissimo. lo abbiamo messo assieme in pochissimo tempo. Poi sono iniziati i guai. I palazzetti pieni ti creano confusione, così come il primo posto in classifica e le vendite. Non siamo un gruppo di successo e non abbiamo mai pensato di volerlo essere. Sono venuti fuori una serie di nodi e confusioni che forse era giusto venissero a galla. Ma non è stato necessariamente un male, per quanto sia stato doloroso e duro per tutti.

4. Massimo Zamboni – L’inerme è l’imbattibile

Questo è forse il tuo album meno solista passato meno sotto le luci dei riflettori, ma è molto in alto nella tua classifica.
L’inerme è un progetto molto complesso e ambizioso nel quale sono fortunatamente riuscito a non naufragare. Comprende un libro, un film e un CD registrato in parte anche all’estero. È un ragionamento, appunto, sull’inermità, e fa parte di una triade che è composta dai miei tre dischi solisti, che ho racchiuso idealmente sotto un titolo di lavoro: Prove tecniche di risurrezione. “Risurrezione” perché ero clinicamente e pubblicamente defunto, assolutamente cancellato. 

Defunto? Ma per scelta tua?
No, perché uno non muore per scelta, sennò si chiama suicidio! Per volontà degli altri. Ma per me è stato molto terapeutico ributtare in musica i miei pensieri. È stato un grande insegnamento anche non pubblicare canzoni che parlano di sfighe private, cosa che sarebbe insopportabile.

Non sapevo fosse un disco così autobiografico e personale.
Sì, è che ho provato a cercare di rendere universale un processo che per me è stato molto doloroso. Che è passato dalla sconfitta, all’inermità, all’estinzione. E per farlo ho iniziato a dover pensare a quei luoghi in cui l’inermità ha davvero un significato, ad esempio la Bosnia. A quando i bosniaci erano lì, senza armi per l’embargo decretato dall’Europa, e prendevano le cannonate di tutti quelli che passavano. Sono tornato a Mostar, una decina di anni dopo il concerto che abbiamo fatto con i CSI, ho cercato di capire che cosa vuole dire essere stati inermi allora, essere senza armi quando gli altri ce le hanno, che tipo di valore e forza può avere una posizione disarmata. Non sono temi musicali di per sé, ma la musica non mi interessa come categoria. Mi interessa musicare i pensieri, le idee.

C’è quindi anche un film legato all’Inerme.
Certo, e mi torna difficile vedere l’album staccato dal film, Il tuffo della rondine, in cui c’è questo viaggio a Mostar, e le interviste a tre persone che ho trovato fortemente simboliche di quello che avevo in mente. Tre ragazzi che non avevano potuto o voluto prendere le armi, e hanno pagato pesantemente per questo━che però erano sopravvissuti e che, in quella Mostar in cui mi ero trovato ancora a viaggiare, devastata negli edifici e nei rapporti umani, mi sembrava avessero un valore in più per non aver preso quelle armi. Sembravano gli unici a essere riusciti a ragionare in modo collettivo.

È comunque il tuo album meno reperibile: non c’è su Spotify, su YouTube ci sono solo alcuni dei suoi brani, e originariamente uscì solo in allegato al Manifesto. La cosa non ti dispiace?
Mi dispiace come dispiace per qualunque altro oggetto tu abbia prodotto e non sia reperibile. È anche un po’… c’è una copertina che ti tiene fermo. Però non volevo una grafica accomodante. C’è questo personaggio spaventoso che viene da lontano, non è quel tipo di ripugnanza fantasy un po’ ridicola. È un album, dal mio punto di vista, ancora vivo. 

3. CSI – Ko de mondo

Passiamo alle prime cose dei CSI. Come mai Ko è un disco importante per te?
Diciamo che più che all’ordine delle cose mi viene comodo pensare a come cominciano. Come per Ortodossia e i CCCP e Sorella sconfitta e la mia carriera solista, Ko de mondo ci ha dato le coordinate per tutto quello che sarebbe stato dopo. Anche se c’è stata più indipendenza tra gli album dei CSI, hanno tre grandi forze che vanno in tre direzioni diverse, e forse Tabula rasa era impensabile in quei momenti. In un certo senso, ai tempi di Ko de mondo eravamo molto indecisi sulla linea da seguire. Io ne avrei accettata anche una più morbida, collegata alla forma-canzone. Ero così stupito dalla capacità di suonare di Gianni, Francesco e Giorgio che me la volevo godere, questa cosa, così come la capacità di cantare di Giovanni.

Però non spingevate tutti nella stessa direzione?
No. Ad esempio, quando uscì “Memorie di una testa tagliata” fui molto perplesso. Dissi, “Se noi facciamo questo, state attenti che poi dopo lo facciamo sul serio.” Lo stesso valeva per canzoni come “Fuochi nella notte”, che non è semplice ma è molto bella━un pezzo che ti fa ballare nonostante abbia un testo profondissimo… Secondo me questa cosa non è stata compresa interamente dai CSI.

Mi puoi spiegare meglio che cosa intendevi con “farlo sul serio?” E in che senso la cosa non fu “compresa” dagli altri? 
Linea Gotica ripercorre “Memorie di una testa tagliata” come decisione nell’esplorare anche il peggio del mondo, le cose peggiori che accadono. Ma una volta messi alla prova davvero, i CSI non hanno avuto questa capacità. Quando siamo andati a Mostar a suonare, mi sono reso conto che quel luogo era una faccenda che riguardava me e Giovanni e non i CSI. Ed è stato un momento molto pesante, perché avrei voluto da quelli che avevano composto quelle canzoni più adesione alla realtà. Non possiamo fare una “Memorie” astratta, o solo perché sui giornali leggiamo cose terribili. Andiamole a verificare dove le teste si tagliano davvero, se siamo capaci a reggerlo. Secondo me non era un pensiero sbagliato, io sono disponibilissimo a confrontarmici. È il mio mondo intellettuale attuale. Però se ti butti lì ti ci devi buttare, non puoi assaggiarlo e poi ritirarti. E secondo me è una delle molle mai dette che ci hanno spinto a trovare strade diverse.  

2. Massimo Zamboni – Sorella sconfitta

Faccio fatica a pensare che cosa possa esserti passato dentro dopo la fine dei CSI, quando ti sei trovato a fare per la prima volta musica da solo. 
Sorella è un disco epocale per me. Devo dire che è stato un passaggio abbastanza naturale perché le musiche sono uscite prima come colonna sonora per Velocità massima, il film di Vicari, ma non sono state pubblicate come tali. Quando ho iniziato a ragionarci sopra, ad avere il titolo di fronte, è iniziata a palesarsi una storia. Ho messo parole su quelle musiche per raccontare quello che avevo in mente, quest’idea di sconfitta che non necessariamente ti atterra ma può essere tua sorella, tua compagna. L’album si gioca su questa fraternità di sconfitta che mi sembra accomuni molto gli uomini, e che ho cercato di risolvere non in veste personale, come una recriminazione, ma come un’accettazione e una possibilità di arricchimento dovuta a questo. Credo che la mia vita concreta sia cambiata dopo quell’album. Se dovessi dire quando sono diventato adulto, è con la pubblicazione di Sorella sconfitta.

Nelle prime quattro canzoni ci sono una chitarra pulita, un pezzo elettrico e tirato, un pianoforte coi synth, un pezzo quasi trance con la voce di una soprano. Insomma, piena libertà stilistica.
Forse anche troppa, col senno di poi. Ad esempio la seconda canzone, “Su di giri”​, è un po’ troppo punkettona rispetto a tutto l’album. Però poi ci sta, uno dei modi per esprimere la sconfitta è anche buttare fuori rabbia e rancore, e quel pezzo ha quello scopo.

Com’è che arrivasti a inserire forti parti elettroniche?
Era un elemento che non avevo mai usato. In quel momento, tamponava la mancanza di musicisti fratelli. In studio ho avuto tanti amici collaboratori, ma la parte essenziale l’ho composta io a casa e ho dovuto sopperire con l’elettronica quello che mancava. Io non so suonare non solo la chitarra, ma anche le tastiere! Però ha funzionato. Cedere le canzoni che si completavano mi ha dato molta forza. È un album che ha fatto una buona strada ma molto faticosa, perché qualunque cosa io faccia viene sempre seppellita sotto CCCP e CSI. Certo, se dovessimo ascoltare Dylan, la lo sogneremmo da solo con l’acustica e l’armonica. E anche questo album sconta la cosa. Ma credo sia entrato molto nel cuore di chi l’ha ascoltato. È stata una testimonianza molto bella. 

Era anche la prima volta che pubblicavi dei testi veramente “tuoi.” In che modo è cambiato il modo in cui pensi alle tue parole?
È cambiato perché li sto pensando addosso a me. Innanzitutto: Giovanni, insospettabilmente, è una macchina da guerra. Non abbiamo mai ragionato in termini di tonalità o canzone. Io dicevo, “Questa è la musica.” Lui diceva, “Queste sono le parole.” E, misteriosamente, funzionava. Non abbiamo mai cambiato una tonalità perché non era adatta a lui. Lui era adatto a tutto quello che io facevo e viceversa. Lavorando con cantanti con cui ho un rapporto diverso ho invece dovuto adattare le tonalità alla loro voce. Sorella sconfitta risente ancora molto del fatto che ho costruito le canzoni senza pensare a chi le dovesse cantare, e quindi ho dovuto trovare delle interpreti diverse. Adesso mi sto concentrando sempre di più sulla mia capacità vocale e sto scrivendo parole che mi sento di portare addosso. 

1. CCCP Fedeli alla Linea – Ortodossia

Di Ortodossia si è parlato così tanto che deve vivere in una sorta di universo parallelo dei dischi che hanno fatto la storia. Che cosa ti resta, oggi, di quell’esperienza?
È passata una vita da allora. Ortodossia era un punto di arrivo fortissimo e infinito. Ha dentro tutte le tensioni di quelli che all’epoca erano tre ragazzi, con tutto il carico di sfighe, voglie, desideri, pensieri, problemi, incapacità di risolverli e soluzioni improvvise di quell’età, e lo confrontavano con il mondo mescolate tra loro, buttate fuori con una violenza e una lucidità che mi colpiscono ancora. Pensare di avere canzoni di per sé già fortissime, che tengono ancora il passo dopo trentacinque anni, di unirle a quei luoghi━Pankow, “Spara Jurij” e il “Punk Islam”━di unirle a quel nome, con quella copertina e quel libretto, con quella forza… abbiamo buttato dentro tutto quello che potevamo in quelle tre canzoni. E ha funzionato.

Quanto del vostro suono primordiale è il risultato del caso? Stavi attento a quello che usciva dal tuo amplificatore o fu tutto frutto di una serie di coincidenze? 
Alla fine, se sei un incompetente che non ha mai studiato come me, ti devi affidare all’istinto. Il problema è riconoscere nel suono te stesso. Anche oggi, magari sto lì due ore a suonare e poi esce qualcosa che mi assomiglia e lo sento, lo vedo━è lì davanti, e la canzone c’è già, è finita. Poi si tratta di trovare il testo, metterla a posto. Allora era la stessa cosa. Ignazio e Carlo Chiapparini, il nostro secondo produttore, ci facevano sentire chitarristi prodigiosi dai gruppi punk americani. Meravigliosi, ma a me non me ne fregava niente. Quando però arrivava un suono che riconoscevo, allora lo sapevo.

Mi racconti uno di questi momenti di riconoscimento? 
Abbiamo pensato a “Emilia paranoica” per mesi e mesi. Era un titolo che ci piaceva moltissimo, le parole stavamo cominciando a uscire, sapevamo esattamente cosa avremmo voluto dire, ma non veniva. Poi un giorno un ragazzo, che si chiamava Settantasette ed è finito nella canzone, ha rubato un amplificatore e una chitarra in qualche centro per i giovani e li ha nascosti a casa di Giovanni senza dire niente a nessuno. Io sono andato in sala prove, ho preso in mano quella chitarra ed è uscita “Emilia paranoica”. Perché era quella chitarra con quel suono. Non sarebbe mai uscita diversamente. Ed era un caso, perché era un Mi Maggiore come ne fai cento in un giorno. Però quel Mi Maggiore in quel modo con quel suono ci ha dato “Emilia paranoica”. 

Quelle tre canzoni furono le prime che componeste? 
No, prima c’erano “Valium Tavor Serenase”, “Stati di agitazione”, “Militanz”. “Stati” è stata forse la prima cosache ho mai fatto. Ma ci sembrava che quelle tre canzoni aprissero uno scenario mondiale, geografico, concreto, così forte… Quando trovi tre titoli così, cos’altro fai? Quegli altri pezzi sono belli, ma rimandano a un immaginario fatto di droghe, pastiglie, sfighe personali e incapacità di stare al mondo, che volendo sono temi già trattati. Invece così aprivamo scenari impensabili per tutti quanti, o li respingevi o ti ci innamoravi.

Se oggi l’islam è lo spauracchio di una supposta società civile, ai tempi doveva sembrarvi qualcosa di misterioso, affascinante, brulicante. 
Noi ascoltavamo musica islamica tutti i giorni. Mi sembrava e mi sembra ancora bellissima. Ma c’è sempre bisogno del nemico al mondo. Quando abbiamo cominciato c’era il muro, e tutto quello che c’era al di là era un altro mondo, non esisteva. Era un’idea di Europa ridicola, dato che ne mancava metà. Era impensabile valicarlo, come ora sembra impossibile entrare nell’Islam, una parola che è proibito pronunciare ma che contiene una ricchezza che bisognerebbe avere la sfacciataggine di affrontare, io credo. 

È comunque bello chiudere con il vostro e il tuo inizio.
È che Ortodossia contiene tutti i CCCP, fino alla loro fine. Come il patriarca che emette il seme. 

Elia vuole rifugiarsi sotto il patto di Varsavia. Seguilo su Twitter.
Segui Noisey su Facebook e Twitter.

Altro su Noisey:

Per alcuni ora è un traditore: l’evoluzione di Giovanni Lindo Ferretti

Io non sono nessuno, Nerorgasmo

Com’era essere un punk in Siberia negli anni Ottanta