Música

A I Cani non frega niente di VICE

i cani glamour

I Cani, lo sapete tutti, è il gruppo che (riesumo a memoria un po’ di definizioni-lampo affiorate in Rete nell’ultimo paio di anni):

-Parla degli hipster
-Parla di Roma Nord
-Fa i video con Instagram (o forse era Hipstamatic, non ricordo)
-Nei testi ci mette David Foster Wallace, American Apparel e gli aperitivi a Monti
-È la quintessenza di un certo modo di intendere l’indie italiano
-Ha coverizzato gli 883 (assieme a tanti altri, è vero)

Tutte cose che messe assieme restituiscono una specie di ritratto da manuale di un preciso fenotipo culturale, applicabile ben al di là dei ristretti confini di Roma Nord (che è, per i non romani, la parte “bene” della Capitale). Vuoi perché nei confronti di Roma Nord ho sempre provato un istintivo ma a conti fatti corroborante odio di classe, vuoi perché il mondo raccontato dai Cani mi irrita (ma in maniera assai meno irrazionale di quanto possiate pensare), vuoi perché molto semplicemente la sua musica non mi piace, non ho mai lesinato critiche al progetto messo in piedi da Niccolò Contessa.

Videos by VICE

Al tempo stesso, non ho mai nascosto che I Cani sono una presenza importante se non (tenetevi forte) fondamentale per capire quanto è successo in un pezzo di Italia negli ultimi anni; quantomeno aiutano a decifrare in maniera cristallina un immaginario dalle dimensioni tutto tranne che trascurabili, e soprattutto molto, molto italiano. Il nuovo album Glamour è appena uscito anticipato da un singolo che già a partire dal titolo —”Non C’è Niente Di Twee”—ha suscitato come da previsione un misto di isterismi, polemiche, tripudi e insulti, oltre che un curioso dibattito su scala nazionale sull’esatto significato del termine “twee”: persino La Lingua Batte (la trasmissione dedicata alla lingua italiana di Radio Tre) è intervenuta a riguardo, convocando Niccolò Contessa direttamente negli studi di via Asiago.

Ho quindi chiesto a Niccolò di incontrarci per capire quanto la mia interpretazione del mondo-Cani coincida con la sua. Non era la prima volta che ci confrontavamo a riguardo, ma ne è uscita comunque una conversazione non priva di spunti. Almeno spero. Eccola:

Noisey: Cominciamo con una domanda stupida, ammesso che quelle che seguono non lo saranno: nella vita di tutti i giorni utilizzi veramente espressioni tipo “non c’è niente di twee”?
Niccolò Contessa: Sì, anche se ovviamente non con tutti. È più un’espressione che uso con gli amici: etimologicamente il temine twee deriva da come i bambini anglofoni pronunciano sweet, e quindi per estensione indica un’estetica dolce, innocua, inoffensiva…

Lo so cosa significa twee. Però mi chiedevo perché in apertura di pezzo esordisci dicendo che “non c’è niente di twee a Roma Nord”. Tu sei di lì, giusto?
Sì, sono nato e cresciuto a Roma Nord.

Ecco, e a me al contrario Roma Nord sembra un posto molto twee…
Io invece quel tipo di estetica lì… non so, a Roma Nord non la vedo. Se ci fai caso persino nei libri di Moccia [un altro parto della vita culturale di Roma Nord, ndr] il tipo “bòno” è sempre un po’ teppista, un po’ il classico cattivo ragazzo con la giacca di pelle, no? E poi Roma Nord è il posto che ha dato i natali a gente tipo Angelo Izzo e quelli del massacro del Circeo, tre tizi di buona famiglia che prendono, violentano due ragazze e le seviziano, le chiudono nel portabagaglio di una macchina…

Dici che Roma Nord cela comunque un lato oscuro?
Direi proprio di sì. A te non sembra?

Assolutamente, ma è un po’ un classico di tutte le zone agiate/benestanti. Ma quello che in realtà mi interessa è altro, e cioè: Roma Nord per te è una specie di… non so, di “luogo dello spirito”? Te lo chiedo perché anche nel primo disco c’erano molti riferimenti a una parte di Roma ben precisa…
E infatti molti si sono lamentati dicendo che era un disco troppo localistico, troppo romano.

È vero, però al tempo stesso è piaciuto anche a chi a Roma magari non ha mai messo piede, o a quelli che nemmeno sospettano che nella nostra città esistano distinzioni territoriali del genere, che oltre che geografiche sono di tipo diciamo così socioantropologico. Il che mi porta a concludere che questa Roma Nord, proprio perché luogo dello spirito prima ancora che entità territoriale, abbia toccato delle corde, abbia insomma recepito un modo d’essere caratteristico del pubblico a cui ti rivolgi…
A me sembra che di gente che ha raccontato cose partendo dal suo bagaglio personale, dai luoghi in cui è cresciuto o anche dalla sua infanzia, il mondo della musica è pieno. E ovviamente non solo quello della musica. Non sono il primo e di sicuro non sarò l’ultimo a tentare una cosa del genere. E non sono nemmeno il migliore. Prendi per esempio il rap. Prendi chessò, Straight Outta Compton dei N.W.A.

Giusto. Ma infatti l’hip hop ha cementato un immaginario che utilizzava l’espediente geografico per narrare un complesso intero di comportamenti: uno evocava il Bronx o la Los Angeles del ghetto, e tu che ascoltavi sapevi a cosa stavano facendo riferimento, e magari finivi per immedesimarti in determinati atteggiamenti anche se in quei posti non ci eri mai stato. E in qualche modo tu stai facendo la stessa cosa con Roma Nord, che è un altro posto molto particolare, con una sua mitologia… Per capirci, è quel posto dove—per dirla con Alessandro Piperno—”tutte le ragazze sono bionde”…
(Ride) Naturalmente non è vero che a Roma Nord tutte le ragazze sono bionde, però capisco il senso dell’operazione. E cioè: se stai costruendo una mitologia, ne amplifichi alcuni caratteri, no? Quindi per uno come Piperno tutte le ragazze di Roma Nord sono bionde, mentre se un altro volesse descrivere un posto diverso, per esempio Tor Bella Monaca… non so, magari parlerebbe di gente che occupa le case, che sfonda le pareti per allargarsi l’appartamento, che fa le cene a base di cocaina e così via. Si tratta di rappresentazioni in entrambi i casi false o quantomeno parziali, però nel frattempo hai creato un mondo dove far muovere i tuoi personaggi. E sì, è chiaro che quando parlo di Roma Nord sto evocando un mondo di un certo tipo, lo sto in qualche misura creando.

Ecco, ma questo mondo che crei… Per esempio, c’è un altro brano che sin dal titolo ritorna ancora una volta a Roma Nord, e cioè “Corso Trieste”. È un brano molto nostalgico, si può dire?
C’è la parola “nostalgia” nel testo, questo sì.

È un brano sulla nostalgia per l’adolescenza, mi pare di capire. E non a caso a collaborare al pezzo hai chiamato i Gazebo Penguins, che sono un altro gruppo sintomatico di un atteggiamento piuttosto diffuso nell’indie italiano…
Dici la nostalgia per l’adolescenza? A me sembra semmai un atteggiamento diffuso ovunque, specie nel mondo della musica. Musica e adolescenza vanno a braccetto, dai.

Be’ non è detto…
Ma come no? Scusa, tu quando hai cominciato a sentire musica?

Va bene, ma quello che volevo dire è… Insomma, tornando ai Gazebo Penguins, ci fu questo episodio che mi colpì molto, nel senso che mi si accese proprio una lampadina. C’era stata una recensione del loro disco molto negativa, e uno del gruppo – non ricordo chi – replicò stizzito accusando il recensore non di non aver compreso l’aspetto musicale del disco, ma “di non aver mai avuto un’adolescenza”. E lì ho proprio avuto la rappresentazione plastica di un mondo che sull’idolatria nostalgica dell’adolescenza aveva costruito una poetica intera…
Io posso dirti che in Corso Trieste questa nostalgia è più un dispositivo retorico. Considera anche che in quel brano racconto una storia vera e propria, e la nostalgia di cui parlo si riferisce a “la stessa faccia da cazzo dei pischelli che ora vedo in giro”, ed è a quel punto che dico “ti giuro è l’unica, davvero l’unica, l’unica vera nostalgia che ho”.

Per quanto riguarda i Gazebo Penguins, si è trattato di una scelta abbastanza semplice: avevo fatto un pezzo emo, mi serviva qualcuno che mi aiutasse a chiuderlo e gli unici che conoscevo erano appunto i Gazebo, quindi li ho chiamati e fine. Ma non trovo che il tema della nostalgia sia esclusivo di quel mondo lì, dell’indie o che so io. Anche il semplice fatto che un trentenne si metta ad ascoltare i Ramones è di per sé un gesto nostalgico, perlomeno indirettamente. Gruppi come, non so, gli Arcade Fire, i Vampire Weekend… sono cose di cui si parla in continuazione, e io a dire il vero non ci vedo niente di strano. Se non altro l’adolescenza è il periodo in cui oltre a scoprire la musica scopri il sesso, ti fai le prime droghe, hai le prime responsabilità… Non mi sembra che sia un periodo così bizzarro su cui tornare. Né che identifichi una certa categoria di persone o di pubblico, se è questo che vuoi intendere.

Più o meno sì, ma andiamo avanti. In “Storia di un Artista” ti sposti a Milano. Che un po’, mi viene da dire, è una specie di Roma Nord all’ennesima potenza.
Una grossissima Roma Nord. O anche: “hipster è la traduzione in inglese di milanese”.

Questa è una frase mia, dove l’hai trovata? In ogni caso: in “Storia di un artista” tu elenchi tutta una serie di comportamenti…
Ok, ho capito dove vuoi arrivare. Nel pezzo c’è un punto in cui dico “Perché a noi piacciono i dischi, le foto, i registi, i marchingegni alla moda, le muse, gli artisti, Piero Ciampi, Bianciardi, Notorious B.I.G, Pasolini e Jay Z”. E lì è vero che sto parlando al plurale e che…

Stai parlando di un “noi” mentre nel frattempo ti rivolgi agli stessi “noi” di cui parli. Uscendo dal cliché Roma Nord, ti stai sostanzialmente rivolgendo a una tribù, o quantomeno ne evochi l’immaginario con precisione direi chirurgica.
No, aspetta. Sul brano in questione è vero, non posso dirti nulla. Però è anche l’unico momento del disco in cui provo una cosa del genere. Guarda, a me le canzoni che parlano di questi benedetti “noi”, non sono mai piaciute. “Noi qui, noi là”, va bene, ma noi chi? In Storia di un artista questo “noi” lo circoscrivo elencando una ad una una serie di cose: non c’è nessun sottinteso, nessun messaggio in codice. Non è una cosa del genere “ok, io parlo di queste persone e tra noi ci capiamo”.

Però è una frase che da sola contiene tutto un mondo, non trovi? È per l’appunto un ritratto tribale. Fammi capire: tu non pensi che esista un… chiamiamolo fenomeno generazionale, che oltre a essere quintessenzialmente “twee” è anche nostalgico, ombelicale, schiacciato su…
Ma sì, ho capito di cosa parli. Figurati, certo che esiste.

Ecco, allora veniamo a noi: una cosa che mi porta a sospettare dei Cani è innanzitutto che io questo fenomeno lo trovo… be’ sì insomma, lo trovo deleterio.
Ma anche io lo trovo deleterio. Se capisco bene, tu vuoi dirmi che io, raccontando questo mondo, voglia fondamentalmente fare spalluccia con le persone di cui parlo e in qualche modo “sentirci tutti più fichi”, giusto?

No, non credo si tratti di “sentirsi più fichi”. Però certo, l’impianto autoriferito di questo tipo di immaginario… insomma, un germe involontariamente celebrativo io ce lo trovo, anche se so che questa è una lettura che tu rigetti.
Io credo che se tu pensi una cosa del genere, allora con te ho veramente fallito. Io quello che voglio esprimere è tutt’altro, voglio esprimere semmai che questa continua estetizzazione dell’esistenza non ha senso, voglio… diciamo smitizzare una serie di cose, mostrarne la pochezza e anche, se vuoi, mostrare quello che c’è dietro, l’umanità, che di estetizzante ha ben poco.

Mi ricordo che quando uscì il tuo primo disco ci fu Nur di Frigopop che scrisse una cosa come “eccolo qua, adesso Niccolò ci sputtanerà tutti!” E c’era un evidente compiacimento nel fatto che tu arrivassi a—come dicevi prima—mostrare la pochezza di questa “estetizzazione dell’esistenza”. Le sue parole esatte furono “è tutto un enorme sputtanamento sociologico, triste e però divertente”.
Ma queste sono cose che io non controllo, non puoi prendere le parole degli altri per spiegare I Cani. Non è che perché qualcuno ha commentato o recepito il primo disco in un certo modo, allora puoi dirmi “tu in realtà stai cercando di fare questo”.

Non voglio dire nulla del genere, ma penso anche che se un qualsiasi artefatto viene percepito in un certo modo, forse qualcosa in nuce c’è, anche indipendentemente dalle intenzioni di chi quella cosa la fa. Questa smitizzazione di cui parli, per esempio… penso sia un altro carattere tipico di quel fenomeno tribale a cui accennavamo prima: l’autosminuirsi ironico, il distacco esibito nei confronti dei propri stessi feticci…
Io di ironico non voglio fare nulla, veramente.

È una cosa che ripeti da “I Pariolini di 18 anni.” Come ti spieghi allora che proprio quel pezzo sia stato interpretato come la quintessenza di una certa… ma sì, “ironia hipster”?
Che è stato interpretato in quel modo lo dici tu. Io vorrei proprio capire cosa c’è di ironico in quel pezzo. Tu lo trovi ironico?

Io personalmente la prima volta che l’ho ascoltato ho pensato che sì, fosse un pezzo ironico.
E spiegami, perché l’hai pensato? Dove l’hai trovata tutta questa ironia?

Uhm, penso che un fattore cruciale sia stata la musica in quanto tale. Intendo proprio la confezione. Perché va bene, finora abbiamo parlato di testi, ma poi c’è anche il resto.
E con l’ironia che c’entra?

Be’ per me c’entra eccome, alla fine stiamo parlando di canzoni, no? Ora, se ci pensi l’aspetto estetico dei Cani è molto ben definito, intendo proprio il suono e la musica che fai: diciamo una specie di synth-pop uptempo che fa molto “musica da cameretta” (che non è un insulto). Molto twee, insomma. Ora, metti che il testo de I pariolini di 18 anni tu l’avessi piazzato su una musica alla… che ne so, Gastr Del Sol
Il risultato sarebbe stato molto diverso, certo. Ma non capisco quello che vuoi dire.

Voglio dire che parlando di musica pop la cornice è anche il contenuto.
Allora, forse associamo significati diversi alla parola ironia. Per me ironia è “non dire quello che stai dicendo”. Anzi, più che “per me” questa è proprio la definizione da dizionario. Le basi dei Cani sono basi leggere, certo. Sono basi pop. A queste basi, io associo testi che va bene, su un’altra musica farebbero un altro effetto. Su una base alla Gastr Del Solo o alla Slint, con tutti quei feedback e gli arpeggi e così via, sarebbero arrivati in maniera diversa.

Magari avrebbero assunto sfumature più… boh, drammatiche. O forse grottesche. Ma appunto, quello che voglio dire è: se per dirmi che “non c’è niente di twee” lo fai all’interno di una cornice twee, se per raccontarmi la pochezza del mondo hipster lo fai ricorrendo a formule a loro volta hip, non stai esattamente applicando la definizione da dizionario di ironia? L’effetto che mi fa in fondo è quello: “non dire quello che stai dicendo”.
Io questo effetto l’avrei sentito di più se le stesse cose le avessi cantate su una base dei Gastr Del Sol. Sarebbe stato come se… non so, hai presente la pubblicità contro la droga fatta da uno che non si è mai drogato in vita sua? La senti e ti fa ridere. Se invece quella stessa pubblicità la senti da un tossico, l’effetto è diverso. Se non altro incide di più. Io racconto delle cose, e ci tengo che venga fuori che conosco il mondo di cui sto parlando. E soprattutto, nei confronti di questo mondo voglio dimostrare partecipazione, non schifo.

Perché non “schifo”? Che ci sarebbe di male?
Dici che a te quelle cose fanno schifo, eh?

A volte sì. Ma anche tu prima dicevi di considerare deleteri tanti fenomeni che pure occupano la tua poetica.
Ma vedi… Io sono cresciuto in una fase storica, e parlo a livello sia italiano che globale, di… schifo, appunto. Penso che gli anni in cui viviamo non abbiano alcun aspetto di redenzione. Se restando all’Italia tu torni a, non so, gli anni Settanta, troverai comunque un paese di merda governato da democristiani, servizi segreti, stragi di stato e così via. Ma troverai anche tantissimi fenomeni che contribuivano a redimere quel clima, se capisci a cosa mi riferisco. L’Italia che invece ho conosciuto io è… diversa. E la cultura alternativa che mi ha accompagnato per tutto il corso della mia adolescenza, se ci penso ripeteva di continuo la stessa cosa: Berlusconi è una merda, l’Italia è una merda, tutto è una merda quindi tanto vale guardare altrove.

Voglio dire, nemmeno ci hanno provato a raccontare quell’Italia lì, e nel frattempo il paese andava da tutt’altra parte. Questo atteggiamento isolazionista—noi siamo i buoni, noi siamo quelli giusti, restiamo fuori dalla merda—alla fine mi è sembrato poco adatto al tempo in cui viviamo. E per tornare a quello che dicevi prima, se io per i miei pezzi avessi utilizzato musiche alla Gastr Del Sol, o se invece che basi leggere mi fossi messo a fare anarcopunk, avrei ottenuto lo stesso effetto di quello che si mette lì col ditino a puntare i cattivi. Mentre invece mi interessava più provocare un… disallineamento, no? Anche se mi sembra di capire che questo disallineamento per te non c’è, giusto?

Io non ce lo trovo. Mi sembra anzi che il linguaggio dei Cani sia… organico al mondo che a parole mi dici di mettere in discussione. Ma è anche un altro classico di qualsiasi espressione creativa: la discrasia tra le intenzioni dell’artista e quello che poi viene percepito fuori.
Tu dici che quella dei Cani è una forma di critica ipocrita, e che alla fine tutto si risolve in una pacca sulla spalla e una stretta di mano e “siamo fichi così”. Be’ mi dispiace se lo pensi e ti ho già detto che per me è ovvio il contrario. Ma vedi, anche il discorso del… diciamo del “ve la cantate e ve la suonate” è molto pericoloso. Perché è applicabile a praticamente tutto, o perlomeno a qualsiasi espressione musicale al di fuori del mainstream. Tu per esempio quando suoni con gli Heroin In Tahiti, pensi che la gente che viene a vederti non risponda tutta—chi più chi meno—a una certa “categoria”?

Uhm, sì certo, più o meno lo penso.
E detto per inciso: spero che tu ti renda conto che se parliamo di gruppi “hipster loro malgrado”, gli Heroin In Tahiti sono un esempio perfetto.

Ahahah, be’, per certi versi non posso darti torto. Noi però non riusciremmo mai a riempire il Circolo degli Artisti per due sere di fila.
Magari riempite il Verme. E anche quella non sarebbe una forma di celebrazione tribale? La musica è anche un fenomeno sociale, identitario…

Ma io non metto in dubbio la natura identitaria delle cosiddette musiche indipendenti, anzi. È semmai la loro natura, oltre che una delle cose che le rendono interessanti.
Ok, allora diciamo che nel caso dei Cani è il tipo di identità che ti lascia perplesso.

Suppongo si possa riassumere così, sì. Ma al di là della mia posizione personale penso anche – che tu lo voglia o meno – che di fatto tu sia diventato una specie di portavoce di un fenomeno che comunque aspettava di essere raccontato. E poi c’è un’altra cosa importante: fatti tutti i distinguo su numeri, cifre, popolarità effettiva, incidenza sull’immaginario popolare e via dicendo, l’attuale indie italiano occupa un po’ lo stesso spazio concettuale che fu dei cantautori anni 70 – un altro fenomeno verso il quale, per inciso, non provo grande trasporto. In questo senso, se tra vent’anni mia figlia mi chiedesse “com’era il 2013 in Italia”, tra i vari materiali d’archivio dovrei infilarci – se non altro a titolo documentario – anche I Cani. Un po’ come adesso ti raccontano i 70 facendoti ascoltare De Gregori, Guccini & co.
Dici? Io le farei ascoltare i Club Dogo.

Anche i Club Dogo, certo. Ma pure i Cani. Perché comunque raccontano un pezzo di Italia che potrà pure non piacermi, ma che trovo oggettivamente rilevante. E poi non penso sia un caso che i due fenomeni – cantautori e italoindie – siano così smaccatamente… italiani. Cioè, per l’indie di casa nostra – di cui tu sei una specie di caso di scuola – se ci pensi non esistono corrispettivi esteri, è una cosa tutta della Penisola.
Pensa che io avrei detto il contrario. Nel senso che per me il limite di tanto indie italiano è proprio questo continuo guardare all’estero, a modelli importati. Vale anche per il rap, per capirci. Uno dei pochi che fino a poco tempo fa si distingueva era Fabri Fibra, verso il quale tra l’altro provo un grande rispetto. Lui diceva: “io faccio rap italiano, non rap in italiano”, poi vabè, con l’ultimo disco è un po’ andato tutto all’aria, ma se mi dici che I Cani suonano italiani, per me è senz’altro un enorme complimento. Un vanto, anche. Insomma, per me è molto più provinciale prendere quello che sta succedendo in America e replicarlo da noi tale e quale, o no? Le cose importanti che l’indie italiano ha prodotto negli ultimi dieci anni per me sono magari non tantissime, ma sono anche tutte cose che nemmeno puoi immaginare fatte da artisti stranieri. Ma questo suppongo che per te sia un limite.

Non saprei, diciamo che non penso che per “suonare italiani” si debba per forza replicare il “modello all’italiana”, che è per esempio un modello in cui conta tantissimo il testo, la parola, l’intento poetico. Questo per dire vale anche nel tuo caso: per parlare dei Cani si ricorre praticamente sempre ai testi, noi stessi abbiamo cominciato da lì. Un’altra cosa che penso è che si può raccontare il proprio mondo e il proprio tempo anche attraverso musiche… mute, senza parole.
Dici per esempio cose come l’ultimo di Oneohtrix Point Never?

Sì, quello è quasi più un saggio che un disco, ma è un buon esempio.
Nel caso specifico sono d’accordo con te, trovo anch’io che quel disco esprima bene lo spirito dei tempi. Ma non so che dirti, a me interessa fare altro. O per meglio dire, sono capace a fare altro.

Ci mancherebbe. Comunque accidenti, due date di seguito al Circolo degli Artisti…
Che intendi dire?

Be’ se non è un momento celebrativo quello…
È stata una faccenda puramente logistica. Cosa vuoi lasciare intendere?

Che ecco, il Circolo degli Artisti è un po’ il santuario del mondo che racconti nei tuoi dischi. Immaginarti a fare il pienone per due sere di fila in quel posto lì…
Ma ti ho già detto che è una faccenda meramente tecnica, non è colpa mia se a Roma l’unico posto che poteva ospitare un concerto del genere era il Circolo. Due anni fa abbiamo fatto due date di fila a Bologna, non vale lo stesso? E poi, se tu devi organizzare un tuo concerto o un concerto, che ne so, di Maria Minerva, lo fai al Verme, ovvero un locale gestito da persone che conosci da anni, che sai che ha un certo tipo di pubblico eccetera, oppure per non essere celebrativo o autoriferito ti cerchi un locale di musica latinoamericana a Testaccio?

Ho visto Maria Minerva al Verme ed è stata una cosa orribile, lasciamo perdere: avrebbe veramente meritato di suonare a un banco di frutta e verdura. Ma quello che volevo dire è che il Circolo degli Artisti è casa tua, è pregno di valori simbolici… Sarebbe un incipit perfetto per un articolo del genere “Nella cattedrale dell’indie romano, il popolo di ‘Hipsteria’ si ritrova a celebrare il suo bardo in una due giorni che sa di evento generazionale”.
Va bene, lasciamo perdere.

È tipo Grateful Dead al Fillmore, praticamente. Peccato che il Circolo non sia a Roma Nord.

D’accordo, chiudiamola qui. Un’ultima cosa: in “2033” chi è “l’amico tuo de’ Vice che ancora non so dì se è fro**o o no”?
E che ne so. Il brano si ambienta tra vent’anni, vai a capire chi ci sarà. Quello te lo concedo, è un pezzo ironico, o meglio ancora una parodia. I Cani parlano solo di hipster? E allora eccovi un pezzo che vi racconta di come saranno gli hipster di oggi a cinquant’anni. I Cani parlano solo di Roma Nord? E allora eccovi un pezzo in romanesco. Ci ho infilato dentro tutto quello che mi stava sulle palle, credimi.

Segui Valerio su Twitter — @thalideide