Sono stato accoltellato più di venti volte e sono ancora vivo

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La cosa strana è che non mi sono accorto di essere stato accoltellato. In quel momento, l’adrenalina ha attutito il dolore. Mentre mi caricavano sull’ambulanza, ho chiesto ai militi cosa fosse successo. Mi hanno detto che non era niente di buono e mi hanno chiesto se volevo che chiamassero qualcuno. Gli ho dato il numero di mia madre. Era il 2008.

Non sentivo nulla, non vedevo altro che bianco.

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L’ambulanza si è diretta in un ospedale nella zona est di Amsterdam, ma appena prima di arrivare i paramedici hanno cambiato idea e hanno detto che le ferite erano troppo gravi e dovevano portarmi in un ospedale più grande. A quel punto ho pensato: Ok, è la fine.

Tre giorni dopo, mi sono svegliato nel reparto di terapia intensiva con un tubo in gola e mille cavi attaccati dappertutto. I dottori mi hanno detto che se fossi arrivato dieci minuti dopo sarei morto.

È successo il 7 novembre, che è l’anniversario della morte di mio padre. Due anni prima, eravamo insieme a Panama perché lui stava pensando di trasferircisi. Quel giorno era uscito da solo per alcune commissioni e aveva in programma di comprare dell’erba sulla strada del ritorno. È stato vittima di una rapina, l’hanno ucciso con un proiettile in testa. Quando l’ho saputo, mi sono sentito sprofondare. Pochi giorni dopo sono tornato a casa senza mio padre.

La cosa mi ha cambiato profondamente. Non avevo più paura di nessuno, frequentavo un sacco di brutti giri e facevo cose stupide. A volte, quando uscivamo, finiva in rissa. Ma non è mai successo niente di davvero grave, finché non mi hanno accoltellato.

Quella sera ero andato in centro dopo il lavoro per bere qualcosa. Sotto sotto forse pensavo a mio padre, ma non era in primo piano nella mia mente. Era abbastanza tardi quando ho ricevuto una chiamata da quella che allora era la mia ragazza; era in un locale in piazza Rembrandt, e voleva vedermi. Ci sono andato a piedi, spingendo lo scooter a mano.

Lungo la strada ho incontrato due ragazzi che conoscevo dai tempi della scuola. Uno dei due lo frequentavo, facevamo rap e beat insieme. Ero stato a casa sua e avevo conosciuto sua madre, ma non lo vedevo da un annetto. Era sempre stato un po’ un ragazzo di strada, uno che aveva preso le cattive compagnie più sul serio di me.

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Ho avuto da subito la sensazione che ci fosse qualcosa di strano. Ha detto qualcosa sulla mia ragazza, tipo “Dov’è quella tro*a?”. Io ho deciso che non avevo voglia di fare a botte e me ne sono andato. Non mi ero accorto che uno di loro aveva lasciato un sacchetto con una bottiglia di whisky Red Label sul mio scooter. Volevo prelevare al bancomat, ma erano tutti fuori servizio. Tra quello e il commento sulla mia ragazza, sono diventato sempre più infastidito e agitato.

Poi uno dei due mi ha chiamato e ha iniziato a urlarmi che gli avevo rubato la bottiglia. Sapevo che era ancora sul mio scooter, ma non m’importava. Non avevo mai avuto problemi con quel tipo, ma in quel momento stavo sbroccando—volevo fargli male.

Dietro piazza Rembrandt c’è un piccolo ponte che attraversa un canale. Quando siamo arrivati lì, gli ho dato un pugno sul naso. Abbiamo iniziato a fare a botte, e nel frattempo è arrivata altra gente a guardare. Era buio ed eravamo entrambi carichi di adrenalina. Penso di avergli dato un calcio in testa.

Poi però ho sentito il sangue colarmi lungo il viso. Mi sono accasciato al suolo. Uno dei tipi mi ha chiesto se ero soddisfatto. Gli ho detto di non dire cazzate e chiamare un’ambulanza. È arrivata altra gente e quei due sono scappati. Qualcuno deve aver telefonato, perché dopo pochi minuti l’ambulanza era già lì—fortunatamente era di guardia in piazza.

Tre giorni dopo mi sono svegliato con il cervello intorpidito dalla morfina. A circondarmi c’erano i miei famigliari e la mia ragazza. Il tubo mi impediva di parlare. Tutti volevano sapere che cosa fosse successo. Non ne avevano idea, ma non ce l’avevo neanch’io.

I dottori avevano detto alla mia famiglia che non pensavano che sarei sopravvissuto. In quei tre giorni avevo subito tre operazioni e un collasso polmonare. Ero stato pugnalato due volte al fegato e le altre ferite erano più che altro su schiena e braccia. Mi avevano messo i punti in testa e in faccia. I dottori avevano dovuto aprirmi per capire esattamente da dove stavo sanguinando. In totale mi hanno dato circa 300 punti: mi hanno dovuto completamente richiudere l’addome. Ho ricevuto 12 litri di sangue, quando un normale corpo umano ne contiene circa sei. Ero ridotto a uno scolapasta.

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Il chirurgo mi ha detto che avevo circa 35 ferite da taglio, ma non mi sono rimaste così tante cicatrici—io ne conto tra le 10 e le 20. Ma ce n’è una molto grande che potrebbe nasconderne tante piccole. In ogni caso, è una quantità spaventosa. Pugnalare qualcuno una o due volte può essere un meccanismo automatico di difesa, ma 35 è un’altra storia.

Sono rimasto in ospedale quasi due mesi. A tratti è stato un inferno. Mi hanno inserito tre tubi di aspirazione chirurgici per drenare il liquido dalle ferite, e dopo un po’ pensavano che fosse ora di rimuoverli. Ma non era così. C’era ancora troppo liquido nelle ferite, cosa che mi ha quasi procurato un altro collasso polmonare e mi impediva di respirare normalmente. Così mi hanno fatto un buco nel petto con un aggeggio che somigliava a un paio di forbici. Ho subito ricominciato a respirare come prima, ma è stato molto doloroso.

Dopo questa storia, ho deciso di cambiare completamente vita. Mio padre era un musicista e mi ha lasciato molti dei suoi strumenti. Ho pensato che avrei potuto farci qualcosa mentre ero in ospedale. Ho chiesto a un amico di portarmi una delle chitarre—mi sembrava una cosa utile e buona per passare il tempo.

Alla fine ci ho messo due anni di assegno di disoccupazione per riprendermi. Un amico di mio padre mi ha insegnato a suonare la chitarra e oggi sono un chitarrista piuttosto bravo—suono in varie band e fatto alcuni concerti importanti a festival, anche al mitico Paradiso Club di Amsterdam. Ho tagliato fuori dalla mia vita i cosiddetti “amici” che non sono mai venuti a trovarmi o non mi hanno mai chiamato.

Penso che mio padre abbia un ruolo in tutta questa vicenda. Per come stavo vivendo, prima o poi sarebbe dovuto succedere qualcosa. È antipatico pensare che è servito un accoltellamento per convincermi a cambiare, ma devo ammettere che mi ha aiutato un sacco. È come se la mia vita fosse stata riprogrammata. Credo che una parte di mio padre sia tornata al mio fianco, quando mi sono risvegliato all’ospedale. Ora viviamo questa vita insieme. Non mi manca, perché so che è dentro di me.

Il tipo che mi ha pugnalato è stato arrestato la sera stessa. La polizia ha trovato l’arma, un coltello a serramanico, sulla scena del crimine. C’è stato un processo, ma io non ci sono andato. Non ero pronto, né mentalmente né fisicamente. Si è preso due anni di carcere e gli è stato imposto di non contattarmi. Non l’ho mai più visto, penso si sia trasferito in campagna.

Mi sono chiesto perché siamo arrivati fino a quel punto, quella sera, ma penso di poterlo capire in un certo senso. Voleva dare prova di sé davanti ai duri con cui andava in giro.

Negli anni successivi al suo rilascio, fantasticavo spesso di incontrarlo, chiedendomi come mi sarei comportato. L’avrei aspettato da qualche parte, cogliendolo di sorpresa e uccidendolo? Ma era soltanto una fantasia, so che non l’avrei mai fatto, perché non sarebbe stato d’aiuto. Abbiamo imparato tutti e due la lezione.