Cibo

Perché gli italiani si arrabbiano tanto quando si parla di cibo

Perché quando si parla di cibo gli italiani si arrabbiano tanto

Proprio una m***a di articolo […] veramente articolo becero

Ignorante come un sasso

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Il titolo mi fa salire un crimine talmente enorme che non riesco neppure a quantificarlo

Questa è la più grossa cafonata che ho sentito nella mia vita

Il bello è che a voi vi pagano, assurdo!

Voi vi chiederete: ma sotto che articoli sono stati scritti questi commenti? Pezzi che provano a giustificare la tratta di esseri umani? Dei controversi pamphlet a sostegno dell’ingiustizia sociale?

No. Tre articoli rispettivamente su polenta, lambrusco e cucina italo-americana, ma potremmo raccoglierne molti altri di commenti incarogniti, sotto diversi altri pezzi che parlano di cibo. Pezzi che parlano di cibo con tanto di approfondimenti storici, opinioni di esperti del settore e produttori, ma dove vengono espresse opinioni personali il più possibile rispettose e contestualizzate. Tutto questo però non ha risparmiato agli autori (in due casi su tre l’autore ero io) insulti di ogni tipo e improperi.

Come magazine che si occupa di cibo noi di Munchies ci siamo ormai abbastanza abituati ad osservare il sacro fuoco che accende gli italiani quando, per qualsiasi motivo, si osa mettere in discussione o anche solo guardare con una prospettiva diversa la nostra cucina tradizionale.

Noi italiani abbiamo inventato la nostra identità per contrasto, rendendo la nostra cucina un campo di battaglia

I commenti più negativi non risparmiano nessuno, e vengono rivolti verso l’esterno, intendendo con esterno tutti quei paesi che si ostinano a male interpretare la nostra cucina tipica, dalla pizza con ketchup alla carbonara rossa; ma anche verso l’interno, nei confronti dello chef famoso che mette la cipolla nell’Amatriciana. Qualche anno fa avevamo parlato anche di questo account Twitter che raccoglieva i commenti – a volte esilaranti, a volte no – di italiani o italo-americani seriamente adirati con video che reinterpretavano piatti italiani.

Ricordo ancora oggi tutto l’astio ricevuto in seguito a un articolo sul Lambrusco, nel quale mi ero azzardata a scrivere che una parte del Lambrusco in commercio ha una pessima opinione all’estero, visto che è per me l’equivalente di una zuccherosissima bibita gassata. Mi sono inimicata sommelier, consorzi, o semplici lettori che dalla semplice lettura di quell’articolo si sono sentiti in grado di desumere il mio quoziente intellettivo e mettere in discussione la mia etica (sto parafrasando in modo raffinato la maggioranza dei messaggi).

Come magazine che si occupa di cibo abbiamo avuto modo in numerose occasioni di testare in prima persona che, quando si parla di cibo, gli italiani riescono a tirare fuori un livore tranquillamente paragonabile a quella di agoni politica.

Perché l’identità culinaria italiana è così conflittuale?

Ho deciso di parlarne con chi la cucina italiana la studia da vicino: Davide Puca, semiologo e autore del libro Forme della cucina siciliana. Esercizi di semiotica del gusto. Ci spiega: “Le differenze rafforzano le identità, anzi, senza differenze non esiste proprio un’identità. Per ragioni storiche in Italia c’è stata un’enorme differenziazione geografica della cucina, che non è solo una questione di cosa si mangia o no. L’alimentazione determina delle filiere produttive, delle competenze e delle attività professionali, interagisce con il paesaggio. In numerosi casi le abitudini gastronomiche cambiano nel giro di pochissimi chilometri, in alcuni casi andando a coincidere con i Comuni, e così le identità hanno teso a rafforzarsi invece che ad ammorbidirsi.”

Noi italiani non siamo gli unici ad andare fieri della nostra cucina al punto da passare ore a disquisire la filologia di una ricetta, la provenienza di un ingrediente, l’origine di un piatto. Il patriottismo culinario in sé è diffuso in tantissimi altri stati, europei e non, la cui cucina tipica è motivo di orgoglio e arriva anche ad essere un traino per il turismo o una vera e propria caratterizzazione degli abitanti: pensiamo alla cucina giapponese, a quella thailandese, alla messicana.

Il localismo gastronomico italiano ci fa vedere quello che divide e non quello che unisce.

Guardando ai nostri vicini europei, un altro paese che possiede la fama “si mangia bene dovunque” è la Francia. Ma la costruzione della loro identità culinaria è passata per strade completamente diverse: “Basti pensare che la Francia ha inventato le indicazioni geografiche tipiche,” spiega ancora Davide. “Ha inventato il concetto di cucina regionale. Ha inventato la Guida Michelin. È stata capace di far risaltare in positivo le differenze alimentari interne, che alla fine convergono in un’idea unitaria di cucina francese, cosa che ad esempio l’Italia non ha. Dopotutto parliamo del paese che ha inventato il concetto di “‘stato moderno’.”

Da noi invece “il conflitto alimentare rispecchia una storia di assimilazione culturale.” Noi italiani abbiamo inventato l’identità per contrasto, sia all’interno che all’esterno, in un processo disordinato che ha reso la nostra cucina un campo di battaglia e dato più risalto alle spinte diversificanti che a quelle unificanti. “Per esempio, parliamo della polenta,” conclude Davide “Non è vero che esiste solo al Nord. Anche il macco di fave o la fracchiata in Abruzzo sono una sorta di polenta. Ma il localismo gastronomico italiano ci fa vedere quello che divide e non quello che unisce.”

La tradizione gastronomica è un concetto recente

Ogni ricetta è un punto di arrivo ma non la fine di un percorso. Fino al 1890 il vitello tonnato si faceva senza tonno. Se qualcuno osasse cambiare la salsa adesso gli si direbbe che ‘sta andando contro la tradizione’

Luca Govoni è invece uno storico dell’alimentazione; con lui riflettiamo sul concetto di tradizione in cucina e su come solo di recente si stia dimostrando un attaccamento nei suoi confronti: “La distanza generazionale si è allungata. Oggi si hanno figli a 35 anni, mentre una volta in casa si poteva avere sia il nonno che il bisnonno: la tradizione si passava velocemente, e altrettanto velocemente si cambiava. Oggi si sono persi i contatti con la tradizione lontana. E la società risponde legandosi a un prodotto, a una ricetta, a un piatto al punto da identificarcisi.”

Però dobbiamo stare attenti quando parliamo di ‘tradizione’ e di ‘autenticità’. Pensiamo ad esempio al Vitello Tonnato: “Ogni ricetta è un punto di arrivo ma non la fine di un percorso. Fino al 1890 il vitello tonnato si faceva senza tonno. Se qualcuno osasse cambiare la salsa adesso gli si direbbe che ‘sta andando contro la tradizione’. Non è vero: sta andando contro una tradizione di poco più di un secolo, mentre quella precedente aveva quasi 400 anni. Il concetto di migliore o peggiore sta solo nel gusto. E il tempo appiana le controversie.”

Cos’è che fa arrabbiare gli italiani?

Secondo questo sondaggio Censis sono 29,4 milioni gli Italiani che si definiscono “appassionati” di cibo, e ben 12,6 milioni di persone – un quinto della popolazione insomma – che si definiscono “intenditori” con ben 4,1 milioni di esperti ovvero cuochi gastronomi o comunque persone che con il cibo ci lavorano, o almeno affermano di lavorarci. Nessuna sorpresa che il patriottismo gastronomico nostrano crei dei mostri. Nonostante manchi un concetto unitario di cucina italiana, anche se si prova a crearlo già da un secolo, l’orgoglio italiano in cucina a volte diventa macchiettistico, come ben dimostra un account come Italians Mad At Food. Ho parlato con i ragazzi che l’hanno creato: “L’idea è nata quando su Facebook ci comparivano tantissimi video di Tasty o Buzzfeed Food – e anche qualcuno di Munchies US! – di ricette di pasta, pizza, lasagne e ci mettevamo a leggere i commenti di noi italiani. Il modo in cui lo facevano era spassosissimo e così abbiamo deciso di postarli. La cosa ha iniziato ad avere molto seguito, il tutto si è un po’ trasformato da presa in giro autoironica a baluardo di italianità, soprattutto per gli italiani all’estero che quelle cose le vedono davvero quasi tutti i giorni.”

Chiedo loro quali sono le faide che vedono più spesso nei messaggi e commenti: “Ogni giorno riceviamo decine e decine di foto e post di ogni tipo. I piatti più massacrati però sono la pizza e la pasta, in particolare la carbonara. Quella veramente ne subisce di ogni: uova strapazzate, prezzemolo, funghi, panna, prosciutto, wurstel… Si discute anche sempre sul mescolare pasta e seguo prima di servirli, anziché lasciare la pasta mezza bianca e mezza con il sugo sopra; sul mettere primo, secondo e dolce su uno stesso piatto; sul fatto che gli americani credano che la pizza from USA sia molto meglio di quella italiana!”.

Non esiste e non è mai esistito un vero e proprio modello codificato di cucina italiana.

Sì, ma cos’è cucina italiana? Nel suo libro L’Identità Italiana in Cucina lo storico Massimo Montanari sostiene che non esiste e non è mai esistito un vero e proprio modello codificato e regolato di cucina italiana. Il concetto di tradizione è fallace di per sé e quello di cucina regionale recentissimo (per la precisione risale al 1928, a una riunione del Rotary Club di Milano, che portò poi alla creazione di una guida del Touring Club di classificazione di prodotti e ricette per regioni e province). Per secoli la stratificazione tra cucina popolare e cucina nobile, o cucina di campagna e cucina di città, è stata più netta di quella di cucina tra città e città. Sicuramente sin dal Medioevo esistono “strutture” italiane, ma basta pensare a un ingrediente come al pomodoro per rendersi conto che il concetto di italianità non è granitico, immutabile e incontestabile. La stessa cucina italo-americana ci insegna che piatti che noi consideriamo abomini della nostra cucina all’estero sono parte della tradizione locale.

Voglio io dire che non potete divertirvi a battibeccare sul fatto che la sauce bolognaise non ha nulla a che fare con il ragù? Ovviamente no. Però le identità culinarie si costruiscono nel tempo. Non sono scolpite nella pietra. Accapigliarsi per decidere se gli arancini catanesi sono più buoni delle arancine palermitane, visto in un’ottica storica e culturale più ampia, forse non ha davvero senso.

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