Música

La triste discesa di Alec Empire, da genio a minchione

Secondo la percezione del mondo che abbiamo oggi, praticamente ogni secondo è l’anniversario di qualcosa, nonché a sua volta l’attimo in cui accade qualcosa di, a sua volta, rilevante. Per cui capita sempre più spesso che ci si ritrovi a scrivere di eventi passati che magari ci erano sfuggiti la prima volta, o di cui è possibile analizzare l’importanza solo a distanza di parecchio tempo. Spesso sono dischi: roba che a uno o due decenni di distanza vede finalmente riconosciuta la sua carica innovativa e persino il suo portato rivoluzionario, certe volte anche—diciamolo—in maniera esagerata e un po’ revisionista. Non fa niente, anzi, è bello che ci sia permesso di fare un po’ di revisionismo e di mettere arbitrariamente nella lista dei classici anche dischi che non si era mai inculato nessuno, ma proprio nessuno.

Poi ci sono casi differenti, ovvero quelli in cui si celebra un disco effettivamente seminale, di un artista effettivamente seminale, ma che è, purtroppo per noi, ancora in attività e ha deciso di coprirsi di ridicolo non solo producendo dischi che sono delle autentiche cariolate di merda, ma anche facendo e dicendo cose che sanno di tradimento totale di quanto rappresentato in passato. Il disco vecchio e importantone, in quei casi, fa da giga-alibi per tutto lo sterco che i nuovi lavori secernono senza sosta, l’artista si trova a fare interviste commemorative, dei live in cui risuona tutto l’album, magari esce anche una ristampa… Però resta ancora quello che due mesi fa ha fatto uscire un disco che pare un insulto ai fan e all’intelligenza degli ascoltatori tutti. Però insomma, uno a quel punto da che parte deve guardare? È giusto premiare un passato di cui si aspettava da tanto tempo che la gente si accorgesse, anche se quel passato appartiene a uno che se lo incontro oggi lo meno proprio in quanto traditore di quel passato stesso? Non si capisce più un cazzo, vero? Be’, andiamo con ordine.

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Mentre ero #C2C14, in uno tempo morto tra un’intervista e l’altra, mi sono messo a sfogliare una copia di Electronic Beats, il mag musicale online tedesco che esce anche in cartaceo ed è sempre in inglese. In copertina c’era Alec Empire. A gennaio saranno passati vent’anni da Low On Ice, che è uno di quei dischi là, ed è uscito nel 1995 per Mille Plateaux. Come da manuale e come si diceva poc’anzi, sta per essere ristampato con l’aggiunta di una mezza dozzina di pezzi inediti, in più Alec lo suonerà per intero in una performance a fine gennaio al festival CTM di Berlino, con visual esclusivi realizzati da Zan Lyons. Chi è stato attento sa però che l’ultima fatica discografica a cui Alexander Wilke ha preso parte è Reset, nuovo dei reintegrati Atari Teenage Riot, che arriva a tre anni da un disco piuttosto brutto (Is This Hyperreal) e riesce, se possibile, a essere dieci volte più brutto. Non solo: il nostro, da sempre fiero esponente di una militanza politica di stampo anarcopunk (qualcosa che ha sempre tenuto a considerare come componente fondamentale del suo lavoro artistico), ultimante ha avuto delle uscite sul conflitto israelo-palestinese che definire grossolane e reazionarie sarebbe davvero dire poco.

Eccoci giunti al problema fondamentale di cui parlavo: l’album è effettivamente un capolavoro, e con esso praticamente tutta la discografia dell’Empirico crucco fino ad almeno il 2001. Io aspetto da una vita che si ricominci a parlare soprattutto dei suoi lavori solisti per Mille Plateaux, che comprendono, oltre al già citato Low On Ice, i bellissimi Generation Star Wars, L’Etoile Des Filles Mortes e il mio preferito: Hypermodern Jazz 2000.5. Sono dischi geniali, pieni di idee brillanti e composti secondo un’urgenza sonora che accompagna la ricerca a un’onestà brutale. Mi farebbe un piacere immenso vedere una generazione di nuovi ascoltatori avvicinarsi a questi lavori. non fosse che poi vedo il video di “Modern Liars” e mi rotolano via le palle.

In realtà sono sicuro che sarebbero in molti a voler affermare che gli ATR sono sempre stati una roba caciarona, ignorante e ingenuamente politicizzata da ketabarboni con pretese e zecche snob. A parte che nella vita sono stato entrambe le cose e me ne vanto, questo resta comunque un pregiudizio scemo. Gli Atari Teenage Riot hanno rappresentato invece la sintesi di un’estetica e di un’etica generazionale che all’epoca erano effettivamente nate come rivoluzionarie. Anzitutto, negli ATR trovavano un compimento coerente tutti i discorsi sulla techno, sulla jungle e sui rave come rottura intelligente col passato alimentata da un istinto contemporaneamente edonista e riottoso, mantenendo la sperimentazione e la necessità di un’evoluzione sonora continua rimanendo al servizio di un investimento libidinale violento e condiviso. I ragazzi Atari si presentavano volutamente come personaggi di fiction, terroristi cyberpunk, praticamente una versione manga della Rote Armee Fraktion, anticipando di poco i ribelli psichedelici The Invisibles di Grant Morrison con un’operazione simile a quella che la Underground Resistance aveva fatto con il Black Panther Party. Ognuno di loro si era modellato addosso un’identità da supervillain perfettamente iconica e inconfondibile: Karl Crack era l’MC postatomico trasportato a Babilonia dal cuore dell’Africa; Hanin Elias usava la sua femminilità rabbiosa e fuori schema come un’arma irresistibile mentre Nic Endo si presentava come una disciplinata ma terrificante assassina anarchica, armata di MPC e 909. In mezzo a loro, Alec era un martire strafottente nel doppio ruolo di producer e frontman: il suo era un corpo duro ma sanguinante, alla Iggy Pop, che sublimava e contemporaneamente capovolgeva il machismo del rock’n’roll ferendosi e facendosi saltare in aria. Gli Atari Teenage Riot non facevano propaganda per il popolo, ma rappresentavano esempio concreto e diretto di anarchismo postmoderno.

In una parola: punk. Senza mistificare la realtà, raccontavano una Berlino che era già embrione e territorio di sperimentazione di tutte le contraddizioni e le contrapposizioni sociali che la tecnologia, la globalizzazione e i mutamenti della scena politica avrebbero portato. Non c’è niente di ironico nel constatare come l’esplosione di queste tensioni abbia coinciso alla perfezione con il disfacimento della band, ma a questo arriveremo più avanti. Sta di fatto che la loro dimensione politica, oltre gli slogan altisonanti e i sequestri finti nei video aveva un senso personale e intenso per ciascuno di loro, che determinava la necessità di fare una musica rumorosa, irregolare, furibonda e ballabilissima. Altrettanto importante era celebrare l’uso punk dell’elettronica che dovrebbe essere alla base di tutta la dance underground, quello “sbagliato”, scaturito dall’accesso libero e di massa alle macchine (nonché ai primi software).

D’altro canto, la band Atari Teenage Riot era nata come emanazione naturale del Bass Terror Soundsystem, creatura di Alec e Carl in cui il primo metteva dischi techno e jungle sparandoli a mille, aggiungendo rumore e campioni politici e mixandoli alla peggio musica industriale mentre l’altro ci rappava su. Manco a dirlo, lo scenario di questi set erano party illegali organizzati nel giro degli squatter berlinesi e nel mondo AntiFa, e la motivazione principale era una forte disillusione dei due e dell loro pubblico nei confronti della fiorente scena techno della città, che ci aveva messo un attimo ad attirare su di sé le mani del big business e sfociare in un facile intrattenimento. Oltre a quello, c’era disillusione anche nei confronti del regime della “semplice” cassa dritta. Dal soundsystem erano nati i primi singoli solisti di Alec su etichetta Force Inc., che facevano appunto tesoro di quanto imparato ai piatti miscelando hardcore, acid, noise, riff punk e metal campionati e qualche punta di dub/ragga, in un territorio ritmico che, per quanto incasinato, non perdeva mai di vista le sue radici jungle, incarnate da un onnipresente e distortissimo amen break.

All’alba del ’93 qualcuno chiama questo nuovo stile “breakcore”, ma è un termine che a Empire non piace per niente (e meno male, vista la piega presa dal genere da lì in poi): lui preferisce “digital hardcore”, e decide di battezzare così anche la sua etichetta. Digital Hardcore Recordings (DHR) nasce nel 1994, e diventa ben presto la casa base di tutti i disperati come lui che, in giro per il mondo stanno giocando col rumore, la velocità e i beat spezzati senza preoccuparsi di chi si fa male (Christoph De Babalon, Sonic Subjunkies, Ec8or e Shizuo, tra le prime uscite) e più avanti ospiterà anche gli exploit solisti degli altri ATR. un sound che genericamente faceva un uso costruttivo della violenza bulldozeriana ai fini di un livellamento dello stato di cose che fosse però positivo. Insomma: pace, eguaglianza, anarchia e droghe sintetiche, sì, ma prima è indispensabile buttare giù tutto con una certa brutalità ed è specialmente necessario menare sbirri e nazi. Mentalità del tutto ineccepibile, direi.

Con questo spirito sonoro, di LP firmato a suo nome Alec ne ha fatto uno solo nel ‘96, The Destroyer. In compenso, il suo animo più raver è uscito con una miriade di pseudonimi neanche troppo distanti tra loro per essere dei progetti diversi. Tanto per citarne qualcuno: DJ6666 & The Illegals, Death Funk, e No Safety Pin Sex. Le svisate in altri generi invece avvengono in one shot come i singoli strettamente techno fatti a nome Richard Benson (no, non quel Richard Benson), la drum&bass “normale” di Wipe Out e l’estremissimo 8 bit noise firmato Nintendo Teenage Robots. C’è anche un’unica traccia disco-house a nome Jerky Jay Master “Disaffected” Cool, che però pare più una (efficace) presa per il culo che altro, e qualche roba gabber sparsa qua e là coi nomi più scemi possibili (tipo Naomi Campbell). Una crisi d’identità che giusto Richard D. James o Justin Broadrick, personaggi con cui ha diverse cosette in comune, pur mancandogli completamente la paraculaggine del primo.


Col secondo, invece, almeno un disco ce lo ha fatto: The Curse Of The Golden Vampire, composto a sei mani da Alec coi Techno Animal, essendo la somma di tre parti ENORMI è per forza di cose un disco ENORME. Basta l’apertura, affidata a “Caucasian Deathmask” e a un sax che pare Albert Ayler clonato e ibridato con un Predator, e invece è Kevin Martin, per spazzare via tutto. Oltre a sta bomba qua, di collaborazione degna di nota c’è sicuramente quella con Merzbow, registrata live al CBGBs nel ’98 e sfociata in una colossale rissa tra il pubblico.

Ma, come si diceva, le svisate più grosse Alexander se le concede per i suoi quattro dischi “seri”, e lo fa su Mille Plateaux, che a metà Novanta è, al pari di Mego e Sub Rosa, sicuramente tra le etichette più coraggiose, coerenti e all’avanguardia. La prima carta del poker è del ’94: Generation Star Wars, trasposizione dei suoi breakbeat più rumorosi in un contesto acid-cosmico quasi alla Drexcyia. L’anno dopo esce, appunto, Low On Ice, registrato nel campeggio di un festival in Islanda; nove tracce di ambient glaciale e downtempo statici registrati con una strumentazione tipicamente techno (MPC, 303, SH-101) immaginando la discesa di un’era glaciale con le macchine che restano a suonare da sole senza più nessuno a manipolarle, fino a sparire nella neve chiudendo l’ultimo loop sulla terra. Nel ’96, invece, di LP ne firma tre: oltre al già citato The Destroyer ci sono Les Étoiles Des Filles Mortes—scuro, paranoico e ispirato alla musique concrete—e Hypermodern Jazz 2000.5.

Ecco, se si deve consegnare ai posteri uno e un solo disco di Alexander Wilke detto Alec Empire che sia questo: un tentativo perfettamente riuscito di trasportare le disarmonie spaziali di Sun Ra e il decostruzionismo di Miles Davis periodo ’72/’75 in uno spazio elettronico pesantemente influenzato dall’hip hop. Sono entrambi, a loro modo, precursori della techno e dei ritmi elettronici tutti, insegnando a costruire un brano utilizzando il suono a “blocchi” intorno a un’idea centrale di groove in continua evoluzione intuitiva. Se pensate che le seghette di quello sfigato di Squarepusher abbiano davvero portato il jazz nell’elettronica, be’, ascoltate questo disco e ricredetevi. Non è questione di complessità esecutiva ma di spazi, di strati e di groove, con alla base un’idea di progresso intellettuale e umano tramite la sperimentazione sonica. Una sorta di post-umanesimo collettivista, oltre le barriere razziali, di genere, di specie e anche oltre quelle spaziali. Diretti verso la prossima frontiera, senza troppi romanticismi.

La merda inizia a piovere nel ’99. Gli Atari Teenage Riot danno alle stampe 60 Seconds Wipe Out, loro terzo e ultimo album nonché compimento massimo dell’idea di Digital Hardcore. È zeppo di ospiti: da Kathleen Hanna delle Bikini Kill a Dino Cazares dei Fear Factory più qualche migliaio di MC chiamati a riempire i vuoti di un Carl Crack sempre più fuori di cervello e rovinato dalle droghe. Già il precedente The Future Of War era stato un bel successo, ma questo alo supera: gli ATR fanno un botto incredibile, finiscono continuamente a dire “fanculo il capitalismo” su MTV ben consci di tutte le contraddizioni del caso ma anche incapaci di dire di no alle opportunità di trasportare la loro rivoluzione su scala più ampia. Intorno a loro, intanto, sembra che la tensione stia montando in tutto l’occidente, e c’è una nuova generazione di kids pronti a far volare le pietre contro una globalizzazione controllata dalle multinazionali. Gli ATR non hanno i limiti politici e musicali delle rockstar Rage Against The Machine, il che li rende sicuramente meno popolari ma anche più pericolosi; si imbarcano quindi in un tour mondiale che li renderà oggetto di mitologia ma anche la loro rovina: suonano senza sosta e senza mai risparmiarsi in tutti gli angoli del globo. La fatica è tanta, le droghe anche, e il loro senso di frustrazione nei confronti del music biz sale ogni giorno di più. A una certa Carl sbrocca del tutto: alla partenza della band per il Giappone va in paranoia e cerca di scendere dall’aereo che stava per decollare, aprendo un portellone. Verrà arrestato, rimpatriato in Germania e costretto al TSO mentre i compagni vanno avanti senza di lui, sbriciolandosi un pezzettino dopo l’altro.

Il tour arriva alla sua ultima data nel novembre dello stesso anno, ma proprio quando i ragazzi sono pronti a tornare a casa arriva la richiesta di Trent Reznor, grandissimo fan della band, di aprire la data londinese del Fragility Tour dei Nine Inch Nails. La band è a pezzi, Carl pare essersi ripreso ed è riuscito a recuperare metà delle date europee, ma tutti gli altri sono messi male. Mezzi morti in albergo e presissimi dalle cronache di guerra che arrivano proprio in qui giorni da Seattle, decidono comunque di fare una follia e accettare. Hanin sta peggio di tutti, non riesce più a cantare e dà forfait, mentre Alec e Nic rimaneggiano tutto il live in modo da trasformarlo nell’apocalisse harsh noise che gli serve a sfogare tutto il dolore e la tensione accumulati in quasi un anno. Una volta sul palco, Carl passa i suoi freestyle in un vocoder distorto mentre i suoi soci fanno un bordello allucinante, dimostrando quanta energia fisica e spirituale si possa ficcare in un pugno di macchine. Gli ottomila fan dei NIN sono ovviamente sbigotti e il concerto termina in meno di trenta minuti, tra fischi, lanci di bottiglie e magliette degli ATR strappate o calpestate. È la fine. Da lì in poi gli ATR andranno in un congedo temporaneo che si trasformerà in scioglimento ufficiale solo con una tragedia. Non prima, però, di avere dato alle stampe la registrazione di quel live lì, licenziato nel 2000 come Live At Bixton Academy, demolito dalla critica in maniera quasi unanime e liquidato dal pubblico come una stronzata, mentre è forse la loro cosa migliore.

Alec e Nic iniziano entrambi a lavorare su nuovi dischi solisti. Ms. Endo inizia a registrare Cold Metal Perfection, seguito eclettico del totalmente noise e bellissimo White Heat, del ’98, mentre Hanin Elias resta incinta (e lasciamo stare la sua carriera in solo che è meglio). Nessuno ha più idea di cosa sarà degli Atari, e sembra che freghi a tutti tranne che a loro quattro. Carl Crack sta sempre peggio, soffre di attacchi di schizofrenia alternati a periodi di depressione ed è continuamente in cura psichiatrica. Il loro ultimo parto discografico in assoluto è del 2002: una compilation di remix e b-side intitolata Redefine The Enemy, come un pezzo del loro secondo disco che qua riappare curiosamente in versione originale. Non è un caso: unico esempio di nichilismo in una carriera sempre all’insegna della reattività, il testo di quel pezzo incarna profeticamente tutte le delusioni e le amarezze derivate da durissimo scontro con la realtà. Gli anni di “If the Kids Are United” sono definitivamente finiti, qua c’è solo rabbia disperata e si cerca ancora di fare danni nonostante la propria generazione sia stata definitivamente sconfitta. La disfatta è simboleggiata da due cadaveri: quello di Carlo Giuliani, freddato a Genova durante il G8, e quello di Carl Crack, morto suicida a Berlino al culmine del malessere. Lascia ai posteri un solo, splendido disco solista: Black Ark (1998), piccola gemma di noise catramoso piegato ai linguaggi del dub. La sua dipartita avviene a meno di una settimana dall’ 11 settembre 2001. Da lì in poi l mondo non sarà più lo stesso, e nemmeno Alec Empire.

Ancora una volta profetico e avanguardista nelle forme e nei contenuti, Intelligence & Sacrifice va in stampa meno di due mesi dopo. È il manifesto del nuovo Alec, definitivamente trasfigurato in un martire (anti-)rock’n’roll bello come un dio pagano, bardato di pelle nera dalla testa ai piedi e rimasto vivo in un mondo contro cui combattere è diventato praticamente impossibile. Questa versione Reznor/Matrix di Empire è sola, sanguinante e furibonda in un occidente militarizzato e impegnato in un interminabile scontro di civiltà. Si pone come indistruttibile perché già distrutto, risorto dalle ceneri con un nuovo sound più oscuro, assai meno breakbeat (anzi, le ritmiche sono praticamente gabber) e basato su riff di chitarra ancora più punk e thrash di un tempo, comprese un paio di celeberrime “citazioni” al tempo negate per ragioni di trolling (“I Wanna Be Your Dog” degli Stooges in “Addicted To You” e “Problems” dei Sex Pistols in “Killing Machine”). L’album è comunque composto da due dischi: una cantata, e rumorosa e l’altra molto più quieta strumentale e dubbeggiante (ad ascoltarli oggi, certi pezzi verrebbe da definirli proto-dubstep). Dopo un live inaugurale al festival Fuji Rock con doppia batteria percossa da Merzbow e Gabe Serbian dei Locust, Alec mette su una vera e propria band, con la fida Nic Endo a manipolare di nuovo le macchine, e riparte in tour. I fan degli ATR quasi non ne sentono la mancanza, quelli del vecchio Empire solista ancora non hanno capito che qualcosa è cambiato.

Negli anni immediatamente precedenti, la lezione DHR è stata raccolta da un certo numero di terroristi sonici: Bong-Ra, Kid606, Otto Von Schirach… Uno più folle dell’altro, tutti minacciosi, dadaisti e—almeno per un po’—geniali ma del tutto privi di portata politica. Empire non li caga, si fa influenzare molto di più dal ritorno alle chitarre tipico di quel periodo e ci mette una vita (4 anni) per sfornare un disco inutile come Futurist: hard rock vagamente industriale e vagamente goth, con qualche spruzzatina di ritmiche hip hop. Una roba iper-conservatrice che da lui proprio non ci si sarebbe aspettati. Ma la paraculata non frutta granché, né in termini di fan che di critica. Anche tra quello e Shivers, comunque, passano 4 anni. Oramai di aspro nel suo sound non c’è più nulla, fa una specie di electro wave atmosferica, un po’ shoegaze ma sempre molto robotica, con un paio di passaggi su ritmiche house e altri più krauti. I suoni sono un po’ fighi un po’ no e come idee rappresenta sicuramente una deriva interessante. A tratti sembrerebbe quasi la versione pop di Low On Ice, oppure il nuovo bel disco che Trent Reznor non è mai riuscito a fare dopo The Fragile, non fosse che il nostro si è ora messo in testa di cantare… Nel senso proprio di cantare delle melodie. Il risultato è francamente ridicolo e rovina quello che poteva essere un buon disco.

Il mondo intero ha comunque smesso di cagarlo: specialmente la scena sperimentale, che ha comletamente dimenticato qualsiasi cosa abbia mai avuto a che fare col dancefloor, figuriamoci i suoi dischi su Mille Plateaux. Al che succede l’impensabile: nel 2010 gli ATR si ruiniscono, come praticamente tutte le altre band del mondo. Hanin Elias non c’è, pare si sia frantumata la gola a forza di urlare, ma Nic Endo è perfettamente in grado di prendersi anche la sua parte di palco (come del resto aveva già fatto tante volte negli anni Novanta). Al posto di Carl c’è il rapper e producer americano CX Kidtronix, cioè quello che Kanye ha plagiato per tirare fuori il suono di Yeezus. Sulle prime si limitano a fare dei live, e il revival regge piuttosto bene: si urlano gli slogan, si fa caciara, si poga e si fa appello al ritorno dei pirati, incarnati ora da Anonymous, da Wikileaks e dai vari movimenti Occupy. Proprio come Occupy, però, questi nuovi ATR sembrano mancare completamente di coraggio rivoluzionario e di furia ideologica, c’hanno il culo stretto di rimanere senza i loro privilegi di classe. Quando nel 2011 fanno un nuovo disco, Is This Hyperreal, si impegnano pochissimo e gli riesce ovviamente un mezzo cesso. Senza generalizzare sulle reunion perché non avrebbe senso, diciamo che questa è una di quelle che non hanno funzionato, manco un po’ e per assoluta mancanza di urgenza e coerenza. Nient’altro che uno stucchevole compitino, con la colpa orrenda di contenere un pezzo con quel minchia di Steve Aoki, uno a cui l’Alec del ’94 avrebbe dato fuoco ai capelli. Del resto, il chino è stato il primo di una serie di ex-punk messi male riciclati alla fidget coi chitarroni, da Justin Pearson a Jacopo Battaglia a quel coglione di Denis Lyxzén. Carl inizia a rivoltarsi nella tomba, ma non è colpa tanto del suo sostituto (che a dire il vero se la cava benino in mezzo a sta melma) quanto dei suoi ex-soci.

Fast Forward di tre anni e siamo a marzo 2014: esce Reset, con un ennesimo cambio di MC nella persona del fichetto Rowdy Superstar. Il disco, non temo a dirlo, è una merda senza appello: oramai completamente votati alla electro da coatti, con persino l’intento di monetizzare completamente mancato, dato che sta monnezza di musica è pure passato di moda, gli ATR fanno più tristezza che rabbia. I testi sembrano una sbobba di politica a caso e pacifismo a caso messi lì giusto perché è di quello che si deve parlare in un disco degli Atari. Non a caso Alec si gioca tutta la sua credibilità quando, in piena promozione del disco, rilascia su facebook dichiarazioni in cui dimostra di credere alla demagogia più scema su Hamas e i bombardamenti israeliani. Quando i fan lo criticano lui se la piglia con i compagni europei e dichiara di volersi trasferire in USA perché “adora quel posto”. Chi si ricorda di “America You Should Leave” è quantomeno perplesso. Insomma, è chiaro che di Anarchia e antifascismo non gliene frega più una benemerita sega, e tutti i proclami pro-hackers dell’ultimo album sono una macchietta per non deludere i fan. Il che, converrete con me, fa una tristezza gigante. Almeno in Shivers parlava dei cazzi suoi.

Eccoci tornati al punto di partenza, senza avere del resto risolto niente. A tirare le somme di meriti e colpe i primi sono ancora la maggioranza e il suo pare proprio un caso da manuale di bollitura artistica da mezza età, con però la questione politica a rendere tutto più amaro. E allora ha senso celebrare i suoi capolavori di un tempo, non solo riascoltandoli privatamente ma addirittura in pubblico con l’autore? Continuo a non saperlo. So solo che ora, ogni volta che riascolto alcuni dischi che tuttora amo, mi trovo a rosicare. E non è bello.

Combattere l’Impero significa essere contagiati dalla sua follia. Questo è un paradosso; chiunque sconfigge un segmento dell’Impero diventa l’Impero; esso prolifera come un virus, imponendo la sua forma ai suoi nemici. In tal modo diventa i suoi nemici.
(Philip K. Dick – Valis)

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