Cos’è Altrove Ristorante? Il locale di una Onlus. Senza padroni. Dove i confini geografici sono un punto di forza e una varietà di ragazzi di ogni parte del mondo porta la propria storia nel piatto.
Mohamed, Alina, Mamadou, Domenico, Elizabeth, Godwin, Wafa, Claudia. Se volete sapere cos’è il ristorante Altrove a Roma, la risposta sono loro. Loro e gli altri ragazzi che non ho citato. Altrove ha aperto da poco più di un anno nella Capitale, accanto a quello che è l’Eataly più grande del mondo, a stazione Ostiense. Quando il ristorante ha aperto mi ricordo ancora le facce perplesse di chi pensava sarebbe stato un progetto destinato a implodere. A sparire dalla scena molto presto. “Sì, carina l’idea, ma…” E invece non solo rimane lì, con la sua caffetteria, il pranzo, la pasticceria e i piatti della sera. Ma va pure molto bene.
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Vi spiego in breve. Altrove non ha padroni. È il risultato incredibile di una ONLUS -il CIES– che da più di trent’anni aiuta chi ne ha bisogno in Italia e fuori.
Qui a Roma, il CIES ha deciso di aprire dei progetti importanti di integrazione, di comunione: con Matemù ha dato spazio a tutti quei giovani italiani, stranieri, immigrati, rifugiati, chiunque, bisognosi di aiuto o che volevano stare in un ambiente per imparare, studiare o trovare lavoro. Si insegna recitazione, l’italiano e un paio d’anni fa hanno creato una serie di corsi di formazione di cucina, “Matechef” (non è difficile capire a chi fa il verso). Dei 60 ragazzi, almeno 50 hanno trovato lavoro in cucina, dopo essere stati formati su panificazione, pasticceria e cucina. Una parte di loro è andata a creare l’organico di Altrove. Quindi, se devo rispondere alla domanda che “cos’è Altrove Ristorante?”, la risposta è: il locale di una Onlus. Senza padroni per davvero. Dove non ci sono porte, i confini geografici sono un punto di forza e una varietà di ragazzi di ogni parte del mondo porta la propria storia nel piatto.
Quello che fa la chef di Altrove non è altro che raccordare i piatti che loro propongono per poterli servire nella maniera migliore al cliente. Niente pietismo, niente scuse, solo buona cucina.
A lavorare qui ci sono italiani, nigeriani, egiziani, haitiani, ucraini, di tutto. E la chiave che li fa vincere è il fatto di non essere limitati “all’etnicità standard” a cui siamo abituati quando andiamo a mangiare qualcosa di diverso dalla cucina italiana, ma nell’essere stati in grado di mettere insieme le proprie case, origini, racconti in tutti i piatti che vengono serviti. Perché alla fine, gira che ti rigira, vi sfido a trovare qualcosa che faccia capire la propria origine più della cucina.
A coordinare il tutto c’è Claudia Massara, una di quelle persone che quando ci parli sta già pensando a cosa fare dopo. Che collega quello che la circonda per arrivare a una ricetta, a una tecnica di cottura, a una cultura gastronomica e non solo. “Io venivo da tutt’altro ambiente, sia a livello di palato, sia a livello lavorativo”, mi dice davanti a un caffè. “Prima di entrare qui quello che mi piaceva, la mia concezione di alta cucina era quella dello stellato, del gourmet. Ho lavorato con Giulio Terrinoni, con Troiani, insomma non venivo da questo background. Ma quando ho iniziato, ho avuto la possibilità di conoscere altre culture, le loro cucine, usanze, tecniche. Da Matemù c’è una biblioteca, e mi piace fissarmi a periodi su una cucina specifica per poi riprodurla”.
Il gioco sta tutto nel dialogo con i ragazzi. Quello che fa Claudia non è altro che raccordare i piatti che loro propongono per poterli servire nella maniera migliore al cliente. Niente pietismo, niente scuse, solo buona cucina.
“Ok, chiedigli quello che vuoi, ma non fare la solita domanda da giornalista: “come siete arrivati in Italia?”, mi dice Claudia
Qualche giorno fa sono tornato da Altrove con il buon Andrea Di Lorenzo, che ha fotografato le facce incredibili dei ragazzi. Mentre lui scattava, io chiacchieravo con loro. “Ok, chiedigli quello che vuoi, ma non fare la solita domanda da giornalista: “come siete arrivati in Italia?”, mi dice Claudia. E invece come ci sono arrivati, a volte, sono stati loro a dirmelo. A volte un po’ commossi, altre un po’ schivi.
Mamadou è stato il primo con cui ho parlato. Doveva andare di fretta, ma alla fine è rimasto per farsi una bella foto con un sorrisone dopo essere appena stato dal dentista. “Vengo dalla Guinea, ho 20 anni. E ormai sono quasi tre anni che sto in Italia, sempre a Roma, a parte un mese ad Agrigento.” Mamadou fa il pasticcere, ha imparato durante i corsi di formazione e si è innamorato di quel lavoro. “Da dove vengo io non ci sono molti dolci. La pasticceria è una cosa bellissima. Mi piace il rigore che devi metterci per fare le finiture, mi piace vedere la gente felice dopo aver mangiato un mio dolce. A casa mia non ci sono molti dolci, ma ce n’è uno che vorrei fare: una sorta di palla tagliata a cubetti con farina di riso e miele che si mangia durante una festa.” Mi racconta del suo viaggio in barca, 7 ore in mare aperto e tre giorni fermo a capire in Italia cosa doveva fare dopo essere stato salvato da una nave. Non sapeva nemmeno se sarebbe finito in Italia o in Spagna.
Per creare il menù, Claudia mette a disposizione i fornelli durante la cena del personale. A turno ognuno di loro cucina per tutti, solitamente piatti del paese da cui provengono. Da lì, le ricette buone, vengono elaborate insieme per poi essere messe in carta. Alina, ucraina, ha fatto le Kofta, che sarebbe polpette, qui di pecora con cannella e salsa di feta. Mohamed, egiziano, la Caponata in crosta d’avena con spuma di mandorle. Godwin, nigeriano, una Zuppa di pesce speziata da urlo.
“A volte vengono fuori delle cagate clamorose, non pensare che sia tutto rose e fiori”, ammette Claudia. “Ma quando esce qualcosa di buono lo lavoriamo anche per settimane. Per fare la zuppa di pesce ho dovuto lottare con Godwin che mi diceva come fosse necessario un gigantesco pentolone e una specie di clava sopra un braciere.” La spesa la fa insieme ai ragazzi e spesso, per trovare gli ingredienti, va al mercato etnico dell’Esquilino.
Alina, 23 anni, nata in Kazakistan e vissuta in Ucraina, è la sous chef di Claudia. Un po’ timida, ma con gli occhi concentratissimi e vederla lavorare è un piacere.
Mohamed è arrivato in Italia ancora minorenne. Ha conosciuto il centro e piano piano è arrivato in cucina. Ha 19 anni adesso, qui lavora da due. “Mi ero rotto il cazzo di stare in Egitto”, mi dice un po’ sprezzante, ma non molto convinto. “A casa sapevo fare solo le patatine fritte al massimo e la frittata.” Mica male, io faccio fatica a non bruciarla a dirla tutta.
Tutti loro sono in regola, hanno contratti che vanno dall’apprendistato all’indeterminato e vivono in una sorta di bolla che li protegge.
Elizabeth, nonostante sembri molto più giovane, è la più grande. Ha 28 anni, viene da Lima in Perù, e lavora in cucina da dieci anni. In Italia è arrivata per un’opportunità di lavoro che si è consumata subito, e poi ha trovato Altrove, dove cucina e tramite cui ha trovato anche casa sua. “Mi piace tantissimo stare qui. Mi piace perché c’è un’aria interculturale pazzesca. Anche in Perù si studiavano le cucine degli altri paesi, ma è completamente diverso quando mangi un piatto nigeriano fatto da un nigeriano. È emozionante.” Tutti loro sono in regola, hanno contratti che vanno dall’apprendistato all’indeterminato e vivono in una sorta di bolla che li protegge. “A me piacerebbe che andassero via. Nel senso che gli voglio tanto bene e so che il mondo della cucina fuori non è così, è più duro. Mi piacerebbe che non lasciassero le loro storie solo qui dentro, ma che scoprissero cose nuove”, mi dice Claudia. E penso che sia fisiologico, ma ancora il tutto è troppo giovane.
“Io vorrei andare in Olanda, negli USA o in Inghilterra”, mi dice invece Godwin svaccato sul divano appena dopo aver servito il pranzo. La sua “Egousi Soup” mi ha fatto sbroccare: una zuppa di pesce superspeziata accompagnata da un gelato allo spinacino e zenzero e questi gnocchetti di yucca incredibile. Anzi, ora che siamo sotto Natale potreste anche farla. Tostate le lische di un pesce bianco, le asciugate, le sfumate, sedano, carota, cipolla, gambi di prezzemolo, acqua per tre terzi, aggiungete pomodoro (loro usano quello di Funky Tomato), il pesce sfilettato, le cozze, le canocchie, le vongole, erbe selvatiche, peperoncino e cuocete per 40 minuti circa. E avete una zuppa da sballo. “Tramite la casa famiglia in cui stavo ho conosciuto Matemù. Mi piace la cucina, moltissimo, tanto che la sera faccio anche l’alberghiero. Era una cosa che non conoscevo perché in Nigeria sono le donne a cucinare, non avevo mai visto gli uomini farlo. E poi mi piace la divisa con il cappellone e Gordon Ramsey.” Ha 25 anni e assaggia tutto curioso. “Sono venuto qui in barca dalla Libia. Eravamo su una barca grande quanto una stanza in 400 persone.” E dopo aver spalancato la bocca non gli ho chiesto più niente.
Nella cucina di Altrove c’è anche un ragazzo italiano, Domenico, che viene da Pescara. “All’inizio era un casino, non si capiva niente in cucina. Ma poi abbiamo superato la barriera linguistica e ora siamo davvero una famiglia. Usciamo dopo il lavoro, facciamo viaggi, siamo legatissimi.” E da quanto ho capito anche la musica che ascoltano mentre cucinano è un vero casino: spazia dalla trap alla musica araba a quella africana e peruviana.
Altrove è davvero una bolla felice. Un esperimento sociale, imprenditoriale ben riuscito dove non ci si scorda mai che quello che esce dalla cucina deve essere buono per davvero. Nessuno ti fa degli sconti solo perché la tua storia è più tragica degli altri. Altrove è un modello che dovremmo stamparci bene in testa per capire che la socialità è ancora possibile, così come il dialogo.
Entri lì dentro, ti siedi a tavola e fai dei viaggi che non ti saresti mai aspettato. La testa vola, il cuore si apre e non c’è bisogno che ti dicano che in cucina ci sono dei ragazzi stranieri o rifugiati. Lo senti in bocca e sorridi.
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