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Nel 1998 ero una delle persone più famose di internet, poi sono scomparsa

Ana Voog webcam, videochat in 1988

Una volta, sette milioni di persone guardavano ogni cosa che facevo, e a me sembrava perfettamente normale.

Mi chiamo Ana Voog, sono un’artista multimediale, una ricercatrice e una cantautrice. Ma forse mi conoscete come la ragazza dietro anacam, un servizio di livestreaming nel quale ho condiviso la mia vita personale 24 ore al giorno, ogni giorno, per 13 anni. (Ora è offline, e mi trovate su AnaVoog.com.)

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Ho lanciato anacam il 22 agosto 1997, e l’anno successivo mi seguivano sette milioni di persone al giorno. Internet era proprio agli inizi—Google non era nemmeno ancora nato—ma anche allora, l’appetito insaziabile per i dettagli intimi, inutili e osceni delle vite degli altri online già esisteva.

Sono diventata famosa. Ho fatto una mostra al MoMA di New York. Ho fatto sesso (con una pausa in mezzo per ordinare una pizza) e ho partorito (senza pizza) davanti alla telecamera. Tutto questo usando una vecchia webcam FTP che trasmetteva immagini sfocate e il modem di casa collegato alla linea telefonica.

Sebbene sia stata tra le prime celebrity online, per fortuna oggi sono davvero in pochi a ricordarsi di me. Col senno di poi, credo di aver capito perché tutto questo mi sembrava normale: oggi mi è stato diagnosticato un grave disturbo da stress post-traumatico. Il progetto anacam era un’idea con cui probabilmente avevo cercato di dare un senso nuovo al mondo e alla mia vita.

Ho sempre avuto un modo particolare di affrontare la sofferenza, trasformandola in un motore per l’arte. Quando inizio a provare dolore, mi ci butto a capofitto e lo analizzo a fondo.

Nel 1997 soffrivo di un’agorafobia paralizzante, ma allo stesso tempo desideravo condividere la mia arte con un pubblico più esteso possibile. Internet mi è subito sembrato il sistema perfetto per eliminare le gerarchie, quello che mi avrebbe permesso di arrivare al mio scopo. Mi avrebbe aiutato a superare ostacoli che fino ad allora mi erano sembrati insormontabili: uno strumento per dare voce agli ultimi, ai dimenticati. Potevamo finalmente esprimerci. O almeno, questo era quello che nel 1997 pensavamo potesse diventare internet.

Cosa ho imparato da quegli anni passati davanti alla webcam? La prima cosa è che tutti su internet vogliono sentirsi parte di un gruppo e potersi esprimere, anche solo per dire “ciao”. Me ne sono resa sulla mia chatroom. C’erano sempre circa 75 persone connesse da almeno 15 paesi diversi. All’epoca, era davvero un’utopia poter parlare con tutti quei paesi contemporaneamente. Volevo arrivare in Russia, Brasile, Ecuador, Giappone, Germania, Belgio, Australia e a tutti gli altri.

Liberiamoci dalle cazzate, pensavo. Lasciamoci alle spalle i residui tossici della Guerra Fredda. Eppure nessuno sembrava capire la mia intenzione, né aveva i miei stessi obiettivi. “Dimmi ciao!” “Mi vedi? Io ti vedo” erano i messaggi che ricevevo in continuazione da chi mi guardava online. In quel momento mi sono resa conto dell’enorme bisogno di ogni essere umano di venire ascoltato e considerato. Non penso sia cambiato molto da allora.

Oggi i social media ci illudono, ci fanno credere di essere ascoltati. Eppure è evidente che l’ostacolo principale siano gli interessi delle grandi aziende che non investono con questo fine e, anzi, vogliono scoraggiare questo tipo di interazione. E così finiamo col condividere fino all’esaurimento, fino a raggiungere quella soglia di rabbia, disperazione e frustrazione che ci fa sentire male fisicamente, mentalmente e spiritualmente.

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Uno still di anacam. Foto per gentile concessione di Ana Voog.

Ai tempi di anacam, ho subìto personalmente il cyber-bullismo di cui oggi molte donne sono vittima. Essere una donna single che esprime le proprie opinioni—che si mostra addirittura nuda—era un enorme tabù. Mi dicevano che avrei dovuto stare al mio posto. Ero vittima di stalking e molestie.

Nel 1997 sostenevo che “la privacy è dentro di noi.” E ci credo ancora oggi. Per me, la privacy è una sensazione che proviamo: la sicurezza. Io lottavo per la sicurezza cercando di essere il più trasparente possibile.

Benché sia stata più volte vittima di molestie, non mi sono mai sentita più al sicuro di quando documentavo tutta la mia vita in webcam. Nella mia testa, se qualcuno mi diceva o faceva qualcosa di offensivo, ne avrebbe pagate le conseguenze. Oppure sarei rimasta tutta la notte a scriverne davanti al mio pubblico fino a sentirmi esausta e soddisfatta.

Non mi interessava che la gente sapesse tutto di me o mi vedesse nuda. Quelle sono cose transitorie. È solo un’immagine del mio corpo, non è reale e sono io che controllo il risultato e il modo in cui mi vedono. Ero convinta di voler vivere una vita senza segreti. “Non c’è miglior modo per nascondersi che mostrare tutto,” dicono.

Molte persone hanno scritto di me e del mio lavoro, ma a mio parere, non hanno mai davvero capito quello che stavo cercando di fare. Non ero un’esibizionista. Ero un’anarchica. Volevo distruggere ogni stereotipo su di me—quello della bionda stupida, per esempio—disintegrandoli lentamente, uno per uno. Pensi che io sia stupida? E io ti dimostrerò che sono intelligente, pensavo.

Non è semplice cercare di riassumere un progetto multimediale durato 13 anni, cominciato quasi vent’anni fa e cercare di trarne un’analisi della realtà contemporanea. Una volta spenta la webcam, posso dire di avere acquisito maggiore consapevolezza: non sono più solo io a essere guardata, ma io che guardo gli altri a mia volta. Vivendo senza segreti sotto gli occhi del mio pubblico, mi sono guadagnata la loro fiducia, per questo condividono con me cose estremamente personali. Ho ascoltato le confessioni, i segreti, i desideri nascosti e i sogni di tantissime persone, dalle casalinghe, ai diplomatici, dai camionisti agli agenti dell’FBI. In parte, è anche grazie a tutti loro che oggi posso dire che ne è valsa davvero la pena.

Questo articolo è tratto da Broadly.