Andare in vacanza da soli è bellissimo, se sei capace

andare in vacanza da soli

Partiamo dalle verità: è importante essere organizzati quando si viaggia da soli. Non conta se nella vita ti avveleni con le muffe dei barattoli di tonno che lasci in frigo o se la sciatteria divora i tuoi panni umidi nella lavatrice dopo ogni lavaggio: se stai partendo senza compagnia, bisogna cominciare a modino. Non che la mattina della partenza ti ritrovi a correre perché stai perdendo l’imbarco, mentre urli “Sono qui!!” alla voce dell’ hostess che pronuncia male il tuo nome in inglese mentre ti cade lo zaino e ti cade il telefono e cadi tu.

No! Tra i venti e i venticinque anni ancora ancora, dopo i trenta, no.

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Bene. Ci sono ottimi motivi per decidere di partire da soli: il primo e il secondo (nonché l’ultimo) riguardano esattamente il fatto di essere da soli—il tempo lo decidi tu, gli spostamenti anche, i malumori sono tutti tuoi, spesso le felicità improvvise ti risarciscono il doppio, c’è grande margine per improvvisare e se sei un po’ allenato a quella leggerezza può essere più che divertente.

Ma la faccenda, dicevamo, deve essere approcciata in modo pratico.

Iniziamo con le criticità. Volendo usare una metafora, si può ben dire che quello che accade a viaggiare da soli sia una sorta di seduta psicoanalitica immaginaria in cui il terapeuta ti guarda un po’ ebete mentre mangia delle olive ascolane senza mai proferire parola. Mai.

Non ti aiuta mai. Nemmeno quando stai per finire sotto una macchina o hai perso il terzo treno perché non capisci il tabellone o uno ti sta rubando il portafogli. Viaggiare da soli può essere un tête-à-tête col tuo io in cui due più due fa quattro e poi quattro e poi ancora quattro e se sei diventato un essere umano cretino te ne accorgi subito, perché tendi a voler capire quante volte ancora potrà fare quattro, ripetendo gli stessi errori e perdendo tempo.

Tira fuori, un viaggio in solitaria, esattamente i pregi e i difetti con cui si ha a che fare tutti i giorni ma che nella vita di tutti i giorni sono abbastanza invisibili, coperti dal rumore della routine e tendenzialmente dall’alcol della fine della giornata, producendo la continua autoassoluzione di sé, che significa: “Ci penserò, lo affronterò, risolverò, adesso prima devo perdermi in atti molto puerili fuori tempo massimo.” Esattamente per questo, la prima cosa che si capisce a partire in solitaria è che il mondo nella sua perfezione, volendolo immaginare al massimo del potenziale possibile, è degli organizzati, di quelli che non si sono fatti prendere dalla pigrizia quando si trattava di elaborare un itinerario specifico per non perdersi nulla, oppure, al contrario, degli improvvisatori ma cuor contenti, che vanno incontro alla sorte senza programmare niente e sono felici così.

Questa seconda categoria di figoni del viaggio in solitaria è forse più odiosa della prima, perché l’improvvisazione è bella ma a volte quando improvvisi, per rimediare agli imprevisti, ti ritrovi a spendere soldi in più o a perdere tempo (ammesso tu abbia entrambi). Nel mezzo ci sono quelli che cercano di stare sul pezzo senza esagerare, che perdono almeno un treno ma in compenso non finiscono al commissariato, che sbagliano strada, ma incontrano poi dei personaggi simpatici con cui rallegrarsi le serate. In un viaggio da soli, del resto, la compagnia degli altri diventa molto più piacevole.

A patto che si faccia un uso pratico e sporadico del telefono, il viaggio da soli vive anche di squarci di noia—e è questo da considerarsi come elemento positivo, alla pari di un sentimento di non intrattenimento di se stessi continuo e compulsivo. In particolare in queste occasioni si verificano due tipi di noie: la noia di alcune pratiche che si ripetono tutti i giorni, o di alcuni posti che non sono come ci si aspettava, e poi la noia di sé, un sentimento benedetto dal fato, quel momento magico in cui i pensieri con cui affastelliamo la mente ci risultano veramente pallosi.

È lì, in un grande “Amen”, che qualcosa da dentro ci ringrazia per essere andati a sbattere da soli nei luoghi che stiamo visitando. Ed è lì che ci si rende conto che quella produzione mentale eccessiva, che di fatto è quanto nella vita quotidiana ci impedisce poi di agire velocemente, non c’è più.

Quello solitario non è un viaggio per distratti. Non essendoci nessuno a raccattare quanto lasci in giro o ad accorgersene, tendenzialmente torni a casa con metà della roba con cui eri partito. Però, a volte, trovi altrettante cose, lasciate in giro da altri sprovveduti quanto te.

Ciliegina sulla torta di un viaggio in solitaria è che spesso se si sta viaggiando all’estero, le relazioni sono mediate da un’altra lingua e questo implica un’attenzione maggiore nella comunicazione e un abbassamento, per ovvi motivi, del livello del sarcasmo, molto difficile da rendere in un’altra lingua e forse non prioritario, aprendo lo spazio a chiacchiere in cui paradossalmente si dà la priorità al fatto di comunicare: commovente.

Insomma alla fine, aver viaggiato da soli fa una lavatrice di quello con cui si era partiti da casa, i pensieri, il periodo da cui si arriva, le difficoltà che si scoprono e quelle che si ripropongono sfacciate. Poi però, in questo grande rimescolamento, resta valido quello che dice un proverbio triste: partire è un po’ morire, morire si muore da soli e partire da soli vuol dire inevitabilmente che qualcosa si lascia lungo la via.

Forse non serviva.

Che sollievo.

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