Aspetto sempre la Fashion Week a Milano. È uno dei periodi più importanti per la città, soprattutto per chi ci vive, come quelle giovani donne che si sono trasferite qui da tutta Italia per inseguire il sogno della moda. Per le ragazze che vengono da fuori, Milano rappresenta quello che San Francisco è stata negli anni Sessanta e Settanta per omosessuali e transgender perseguitati nelle piccole province del sud degli Stati Uniti. Solo che in questo caso la polizia non ti uccide a manganellate inseguendoti, alla fine trovi un lavoro a Cadorna da Condé Nast e tuo padre non ti disereda, ma ti invia 2000 euro ogni mese.
Tutto questo oggi è ancora più vero grazie alla democratizzazione avvenuta tramite blog, Tumblr e Twitter, che hanno finalmente aperto le porte della moda alle ragazze fighe, ricche e ben inserite.
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A fine febbraio tutte loro partecipano sempre allo stesso rito. La forma stessa della città cambia. Il traffico viene deviato, i taxi diventano introvabili e le zone strategiche della moda si riempiono di queste figure che ogni anno scelgono di indossare un nuovo accessorio o capo rubato a qualche etnia a cui non si siederebbero mai accanto sui mezzi pubblici. Camminano sole, attraversano in continuazione la strada, ripassano mentalmente la tassonomia del loro guardaroba mentre attendono che qualche street photographer le riprenda trottare sul pavé. Le ragazze in giro per Milano per la Fashion Week sembrano videogiochi da bar in cui nessuno inserisce mai un gettone. È impossibile interagire con loro, ma proiettano sempre una demo del meglio di loro stesse.
Non sono neanche sicuro che valga la pena provarci. Nella mia mente queste buyer, blogger, creative-fashion-director-qualcosa, It girl, assistant e stagist precar fanno sesso scegliendo un colore fra grigio fumo e champagne, lo associano a un gelato bio alla frutta senza glutine e poi urlano il titolo di un film di Audrey Hepburn.
Questo è ancora più evidente nei fantomatici “eventi esclusivi” organizzati durante la Fashion Week. A un occhio superficiale potrebbero semplicemente sembrare ritrovi da 1% della popolazione in cui bere qualcosa con “millesimato” nel nome ridendo degli immigrati meridionali di quarta generazione che ti guardano da dietro la sicurezza inghiottendo Sprite e auto-stima. Ma sono in realtà dei safari umani in cui capire come ci si deve muovere. Come quella scena ne Il Divo in cui Andreotti non viene eletto Presidente della Repubblica e uno dei parlamentari dice al collega di osservare bene l’espressione del Caro Giulio per “imparare come si sta al mondo.”
Una volta sono stato mandato a questo evento organizzato da Campari nel cortile di un palazzo liberty a Monte Napoleone. Tra gli invitati Lapo, la Sozzani, il sindaco Moratti—le persone più potenti di Milano. Entrando, una tizia vestita di rosso mi porge un cartoncino. “Con questo puoi bere,” dice sorridendo con l’efficienza di una Nespresso. Scopro subito che l’unica cosa che si può bere alla festa del più importante produttore di alcool italiano è un (1) solo mini-drink. Non c’è possibilità di ripetersi. Non ci sono ladyboy morti nel cofano del SUV di nessuno. Non si tira di coca dalle tette di minorenni. Guardo Lapo con speranza, ma parla col Tg1.
La situazione mi ricorda quella riflessione di Warhol sul capitalismo. Sul fatto che abbia riequilibrato le classi sociali, perché non esiste una “Coca Cola” per ricchi e una per poveri. È sempre la stessa. Questo è vero, ma il punto è che la puoi bere nel bicchiere di plastica in Standard sul Frecciarossa o in quello di cristallo in Executive, col tipo vestito come un’erezione di Gordon Gekko. Lo stesso, evidentemente, vale per le feste che fanno schifo.
A un certo punto torna la PR-Capsula. Si avvicina a me; è preoccupata perché mi vede ridere e scrivere sul mio taccuino. Mi chiede cosa ci faccio io lì, se conosco la moda. Mi mette alla prova. “Sai com’è una cravatta di Brunello Cucinelli?” mi chiede. “Lo sai cos’è una Cravatta Colombiana?” le chiedo io. “È quando ti tagliano la gola per poi farci passare la lingua, in modo tale da sembrare appunto una cravatta. Escobar, Primavera-Inverno ’85-’93.”