Saluti romani a Milano

Sabato pomeriggio abbiamo provato, senza neanche troppe speranze di successo, a imboccarci al raduno naziskin di Milano, quello a cui ha partecipato un numero ancora imprecisato di fasci rabbiosi calati da tutta Europa per vedersi qualche gruppo RAC di bassa lega (ma trovatemene uno al mondo che sia anche decente sonoramente e vi pago). Avevamo preventivato di non riuscire a raggiungere il posto, convinti che il punto di raccolta principale indicato dall’infoline sarebbe stato bardato di pelati impegnati a decidere chi meritava di essere scortato e chi no, magari tentando di difendersi a parole dalle pressioni della stampa e soprattutto delle forze dell’ordine intervenute per assicurarsi, se non altro, di eventuali illegalità e disordini che la situazione avrebbe potuto generare. Nulla di tutto questo: molto prima di arrivare a quella che credevamo essere la nostra destinazione, ci siamo imbattuti nel luogo dell’evento, complici le due macchinate di simpatici francesi che abbiamo pedinato: si trattava di un capannone industriale isolato in zona Rogoredo, abbastanza grande e abbastanza ben recintato da nascondere quasi del tutto la parte visiva di quello che vi stava accadendo all’interno. 

Come dicevo, le nostre speranze di portare a casa del materiale utile erano praticamente a zero, e ci siamo accorti subito di avere comunque peccato di ottimismo. Di “giornalisti” e curiosi c’eravamo praticamente solo noi, e abbastanza tagliente è stato il gelo della trentina di nazi che avevano parcheggiato il culo fuori dal recinto, nonostante a separarci ci fosse una strada bella grossa. Quindi nulla, abbiamo telato subito senza farne troppo una questione di coraggio o orgoglio. Di poliziotti se ne sono visti davvero pochi: un pugno di digossini in borghese appoggiati dietro l’angolo a origliare il live, e due celerini annoiatissimi, sicuri che di disordini non ce ne sarebbero stati e che una volta scaduto il loro turno non li avrebbe sostituiti nessuno. Il giorno dopo sono venuto a sapere che un reporter con un istinto di sopravvivenza più scarso del nostro ha provato a intrufolarsi ed è stato pestato—o forse si potrebbe dire che è andato deliberatamente a farsi menare per avere qualcosa di cui scrivere. In ogni caso lo rispetto; gli inviati del Fatto Quotidiano invece sono rimasti quasi tutto il tempo in macchina. Il giorno dopo ancora, poi, ho fatto overdose di polemiche sull’argomento. 

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Tutte giustificate, sia chiaro: ma tutte prive del bandolo della matassa. A scatenarle, quasi più del fatto in sé, è stata la patetica dichiarazione del sindaco Pisapia sull’argomento, che sabato si è svegliato di colpo dicendosi scandalizzato e scioccato, per poi rimettere la testa sotto il cuscino e pisolare un’altra mezz’oretta. In questo modo ha tecnicamente passato la palla a prefettura e questura, che a loro volta se ne sono lavati le mani, perché il luogo era regolarmente affittato, si trattava di una festa privata su invito e minchiate su minchiate… Un clima di confusione molto utile a non attribuire nessuna responsabilità, di modo che tutti possano dirsi sdegnati e vantarsi anche delle proprie mani legate. Nel frattempo, vari blog di—per usare un termine retrò—controinformazione che fanno riferimento a Milano, polemizzano e accusano. A completa ragione, sia chiaro, ma sono già sicuro che nel momento in cui il pezzo che sto scrivendo andrà online, la cosa sarà scemata nel solito nulla di fatto internettiano. Un mulino a vento del cazzo, ci saremo imbufaliti e poi l’interesse sarà scemato, per lasciarsi dietro giusto un alone bavoso di malessere, la sensazione che il clima in questa città e in questo Paese sia di giorno in giorno sempre meno vivibile proprio a causa di incidenti stupidi come questo, di situazioni tanto imbarazzanti quanto preoccupanti. 

Immagino che ci sia una buona fetta di gente che invocherà la libertà di espressione. No, non lo immagino, lo so: basta vedere i “dibattiti” scatenatisi nelle sezioni commenti dei vari siti che riportano la notizia, soprattutto sul già citato Fatto Quotidiano, a dimostrazione di come l’internet e un certo approccio politico all’internet abbiano convinto troppa gente di avere effettivamente un punto di vista legittimo su tutti gli argomenti possibili. Se anche ritenessi accettabile invocare il preciso diritto di questi soggetti di costruirsi attorno un clima di terrore e violenza, di sopraffazione e ignoranza, mi farebbe comunque incazzare l’incoerenza totale delle istituzioni. A loro, situazioni del genere sfuggono sempre di mano: da una parte abbiamo ascoltato la condanna moralistica di Pisapia, dall’altra la situazione è stata gestita come un problema burocratico e di legalità—non politico non etico, non espressione di un rifiuto netto da parte della cittadinanza. E la palla rimbalza. Ci si chiede, se era una festa autorizzata perché il comune l’ha autorizzata, ah no l’ha autorizzata il questore, ah no non era autorizzata, allora perché non l’hanno fermata, ah no era privata su invito, ma non hanno pagato la SIAE, ah no è un ritrovo di chierichetti. L’unico fatto sicuro è che questo rifiuto netto da parte della cittadinanza non c’è stato, né c’è mai, in Italia, quando ci si trova a che fare con l’estrema destra. Si lotta e ci si esprime “contro” per liberarsi di molte cose, dalla mafia alla movida, ma non vedrete mai un quartiere intero preoccuparsi della presenza di un branco di pelati.

Un po’ è a causa della paraculaggine degli stessi, che negli anni hanno imparato a sembrare innocui, semplici appassionati di una cultura tradizionalista di destra promossa e vissuta tra loro senza sfiorare le libertà altrui. A quel punto il cervello rettile xenofobo del cittadino medio si sentirà al sicuro e, perché no, persino protetto. Lo stesso gioco di comune e questura di Milano è stato di una immensa paraculaggine. Il questore che ha fatto intervenire la celere a menare i teknoranger, causando incidenti che hanno mandato in coma una minorenne, non ha previsto nessun problema di ordine pubblico e nemmeno disposto controlli simili a quelli che si piantano normalmente intorno a un rave. Tanto i fasci non si drogano, sarebbe stato impossibile portare a casa un po’ di fermi di quelli facili che ne fai un paio e ti sei guadagnato la giornata. Tutto chiede, la polizia, meno che criminalizzare un fronte politico nel quale non si vuole nemmeno iniziare a scavare per approfondirne le meccaniche e le ramificazioni; sono individui che si possono al limite usare per situazioni ai margini della legalità, che magari tanti celerini rispettano persino (e perdonatemi il cliché, tanto sappiamo che è vero). Si può sempre ridurre tutto alla logica degli opposti estremismi—dall’altra parte ci sarebbero i centrisocialiblecblocanarchicidrogati—per risciacquare la coscienza da ogni posizione critica o meglio millantarne qualcuna, per mostrarsi superiori ai moralismi della massa. Tiritere così cretine e banali che non ho la minima voglia di mettermi a commentarle.

Ma allora a che serve la lagnetta di Pisapia? A niente, ovviamente. L’evento era stato pubblicizzato fin da gennaio e l’amministrazione comunale, che avesse davvero le mani legate, aveva tutto il tempo di organizzare una risposta culturalmente efficace, di fare sentire, d’accordo e in armonia con la cittadinanza, quanto i valori di questi picchiatori bonehead non fossero graditi, non per una questione di legalità o meno dell’apologia di fascismo quanto proprio per sentimento comune. Non se ne è sentito il bisogno sociale, e ancora una volta come succede tutti i giorni in tutto il resto del Paese, forze politiche cosiddette “progressiste” hanno evitato di prendere una posizione netta in difesa di quelli che sbandierano come valori, nel loro buonismo da propaganda post-democristiana, le buone parole di chi è buono a parole. La verità è che l’Italia è un Paese che non ha il coraggio di ammettere il proprio profondo razzismo e la propria chiusura culturale. È per questo che mancano le palle di affermare radicalmente un rifiuto antifascista, a fronte di mille scuse che invece lo rivelano, ma fa anche sì che le tensioni razziali assumano una forma molto particolare. Se altrove possono esprimere solo ansia di integrazione e di parità sociali, da queste parti abbiamo un comodo cuscinetto di estrema destra su cui appoggiare il culo piccoloborghese d’Italia.

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