Sapreste progettare una città a prova di zombie? È quello che a partire dal 2013 Alessandro Melis ha chiesto agli studenti del suo corso alla facoltà di Architettura dell’Università di Auckland (Nuova Zelanda) all’interno del laboratorio Zombiecity, raccontato attraverso saggi e progetti nel volume ZombieCity, pubblicato nel 2020.
Vi domanderete perché uno studente di architettura dovrebbe imparare a escogitare città capaci di sopravvivere a una epidemia zombie… Ovviamente, c’entrano il cambiamento climatico e la temutissima resilienza di cui abbiamo tanto sentito parlare durante la pandemia di COVID-19. Per saperne di più ho contattato Melis—che è anche curatore del Padiglione Italia alla Biennale d’Architettura di Venezia 2021, dedicato proprio alle “Comunità resilienti.”
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L’intervista—condotta su Zoom—è stata tagliata ed editata per brevità e chiarezza.
VICE: Come è nato il progetto Zombiecity?
Alessandro Melis: Zombiecity è nato dall’incontro tra la mia passione per la cinematografia di George Romero e l’inizio della mia attività di ricerca in Nuova Zelanda, dove il sistema universitario consente di lavorare con una certa libertà facendo anche cose che in ambienti accademici più ortodossi sarebbero viste con sospetto. Volevo discutere della crisi ambientale, ma il cambiamento climatico rischiava di essere un fenomeno troppo astratto; soprattutto in un’epoca in cui il negazionismo climatico era maggiore di oggi.
Allora ho usato il tema degli zombie per far capire che la crisi climatica è qualcosa di concreto e mostruoso. Ho immaginato che, a causa di un rapido cambiamento nell’ambiente, un virus—il virus Z del romanzo World War Z di Max Brooks—faccia un salto di specie… all’epoca mi davano dell’allarmista, ora mi dicono che porto sfiga… Ma insomma, c’è una epidemia zombie, non è più possibile prevenirla, c’è un governo di emergenza e dobbiamo reimmaginare Auckland sulla base di comunità autosufficienti di trecento persone.
Come è andata? Gli studenti sono riusciti a non farsi mangiare vivi?
Quello che ho trovato interessante è che gli studenti hanno proceduto come fanno i personaggi dei film di zombie. All’inizio si sono occupati solo della difesa. Poi si sono accorti che il problema era un altro: puoi anche difenderti dagli zombie, ma se la tua comunità per esempio non ha 0,22 ettari di suolo a persona (per agricoltura e allevamento) la tua fortezza non può sopravvivere. The Walking Dead è piuttosto attento a questa dimensione.
Quindi, inizialmente gli studenti progettavano una fortezza, poi capivano che non dovevano immaginare una grande struttura con un piccolo giardino ma edifici dotati di una notevole quantità di suolo. E questo ha fatto capire loro che anche le nostre città hanno bisogno di suolo: pensiamo di poter costruire dove vogliamo, ma in realtà stiamo già usando quasi tutto il suolo coltivabile sul pianeta. Questa è una delle cause della crisi ambientale e, paradossalmente, della pandemia.
Quindi per difendersi dagli zombie serve una fortezza-fattoria.
Un altro elemento interessante che è emerso—e anche questo appare in molta cinematografia—è che gli studenti a un certo punto andavano anche oltre questi obiettivi di sopravvivenza e autosufficienza e arrivavano al tema dei bisogni secondari. Nel medio-lungo termine la sopravvivenza della comunità dipende dalla capacità di andare oltre la visione meccanicistica dell’architettura moderna.
Lo dico in modo brutale: se in mezzo a un’epidemia zombie non c’è qualcuno che si dedica alla poesia e al teatro, a un certo punto la comunità si suicida per lo stress post-traumatico.
Dalla lettura di ZombieCity emerge che immaginare una cosa impossibile come l’epidemia zombie non sia solo un trucco per rendere le lezioni più engaging ma ci permetta di immaginare come una città possa essere pronta a rispondere anche a quello che pensiamo impossibile.
Il Padiglione Italia alla Biennale—e ZombieCity ne è uno studio preparatorio—dice esattamente questo: il problema dell’essere umano è la sua inerzia, questa sua incapacità di affrontare gli eventi inaspettati perché prende la media di quello che ha vissuto e la interpreta come un progresso lineare. Invece la natura—e ce lo insegnano biologi dell’evoluzione come Stephen Jay Gould—ragiona esclusivamente in termini di resilienza, non di progresso.
Ecco, hai usato la parola “resilienza,” molto presente anche in ZombieCity dove viene definita come la capacità “di trovare un equilibrio dinamico capace di assorbire ogni forma di perturbazione.” Questa parola è improvvisamente arrivata nell’uso mainstream con la pandemia e ci sta terrorizzando da un anno.
Per un anno tutti hanno detto “resilienza” creando una moda, ma ora la vera moda è questo odio verso la moda della resilienza, un odio che non distingue l’abuso del termine dal concetto e non ci salva dal fatto che il problema esista. Per duemila anni abbiamo vissuto con l’idea che la realtà che ci circonda sia statica o al massimo leggermente progressiva e su questo abbiamo costruito una società e una idea di pianificazione e di architettura fortemente deterministica.
Invece ci siamo resi conto che la realtà è estremamente dinamica e fondamentalmente caotica, e parlare di “resilienza” vuol dire immaginare qualcosa—la città—sapendo che non esiste più un unico futuro noto. Oggi non basta più parlare di “sostenibilità,” cioè non basta più l’idea che gli edifici possano essere progettati come abbiamo sempre fatto ma mitigando il loro impatto. Non basta perché la sostenibilità implica comunque un’idea di staticità, mentre l’edificio che progettiamo deve entrare in un mondo di fluttuazioni.
Non è un’invasione di zombie, ma la pandemia di COVID-19—anche se perfettamente prevedibile e prevista—ha travolto le nostre società proprio come un evento totalmente inatteso. Le nostre città come hanno reagito?
Si sono mostrate poco pronte, perché risentono di questa concezione deterministica della pianificazione e non sono in grado di rispondere all’inaspettato. Gli ambienti specializzati—dove pensavi di poter svolgere una sola funzione—e la distinzione tra spazio pubblico e spazio privato non hanno funzionato.
Le risposte positive sono arrivate da quelle situazioni in cui la progettazione—grazie a variabilità, ridondanza e diversità dell’ambiente urbano—era abbastanza aperta da consentire una cooptazione funzionale che non fosse prevista dalla progettazione stessa. Più la città è varia, ridondante e diversa più è facile avere risposte positive da parte della comunità di fronte a eventi non previsti, come la pandemia di COVID-19 o il virus zombie di Zombiecity.
Per esempio, nel centro di Città del Messico è subito sorta una serie di attività informali per soddisfare i bisogni delle persone, mentre le città perfettamente organizzate hanno risposto male perché avevano la pretesa di immaginare solo alcuni scenari. Anzi, ogni fenomeno urbano che non risponde agli scenari previsti rischia oggi di essere considerato illegale.
Per esempio?
Parlo per esempio di come viene limitato l’uso degli spazi. Parlo dei cartelli “vietato giocare a pallone.” Non è chiaro se questi fenomeni di appropriazione temporanea di uno spazio—come una persona che gioca a pallone—vadano eliminati perché realmente negativi o se invece vengono sanzionati solo perché vanno contro quello che è stato previsto e pianificato.
Su VICE ne abbiamo discusso parlando delle cosiddette politiche del decoro, per cui la città viene pensata per produzione e consumo, soprattutto turistico. Quindi—in estrema sintesi—si allontana lo studente universitario magari squattrinato che beve la birra e si dà il benvenuto al turista ricco perché lui sì che valorizza il nostro patrimonio culturale.
Il problema è che il mondo è complesso e la complessità non piace a nessuno. Senza quello studente che beve la birra e si appropria dello spazio, quella zona non assumerebbe quelle caratteristiche che poi interessano al turista.
Parliamo di decoro urbano, ma il decoro urbano di oggi è l’anti-decoro urbano del Medioevo. Gli equivalenti medievali degli studenti con la birra hanno trasformato quegli spazi—per esempio Piazza dell’Anfiteatro a Lucca—attraverso il processo di appropriazione di cui parlavo, e poi noi abbiamo deciso che quei luoghi andavano congelati nel tempo.
ZombieCity era originariamente uscito nel 2014 col titolo Lezioni dalla fine del mondo. Un po’ viene spiegato nell’introduzione della nuova edizione ma in chiusura vorrei comunque tornare sul perché avete deciso di pubblicarne una versione aggiornata e ampliata.
Lo abbiamo deciso perché son passati degli anni e abbiamo capito l’importanza della piattaforma. Se davvero la resilienza—cioè la nostra capacità di adattarci a condizioni ambientali non prevedibili—dipende dalla nostra capacità di costruire strutture creative abbastanza ridondanti e adattabili da saper rispondere a condizioni che non possiamo prevedere, è chiaro che abbiamo bisogno che la nostra piattaforma—la società umana—sia altrettanto ridondante e diversa.
Per questo abbiamo chiamato Barbora Foerster, Dana Hamdan e Selenia Marinelli, che hanno aggiunto contributi che riguardano il rapporto tra questioni di genere e progettazione urbana, lo sviluppo dei campi profughi ad Amman (Giordania) e il nostro rapporto con il non-umano.
Prima parlavamo dell’abuso del termine “resilienza,” ma il termine più abusato nel mio campo è “architettura.” Da duemila anni usiamo la parola “architettura” per parlare non in generale di cosa siano gli insediamenti che costituiscono la relazione tra essere umano e ambiente, ma per parlare di una selezionatissima espressione della cultura occidentale rappresentata da uomini bianchi di sessant’anni.
E così quando diciamo “città” non parliamo della città in generale: parliamo della città dell’uomo sessantenne occidentale e bianco. Come possano essere le città ancora non lo sappiamo.