Scusatemi una lunga citazione all’inizio, ma:
Amo Roma, la strada e in tutte le sue forme. Non mi fido di chi dorme, me fido solo dei fratelli con cui bevo e magno. E da morto non dite che ero un santo, ma un bastardo che stava sempre ‘mbriaco. Bevo birre in un angolo da solo come un appestato, bevo tanto e fumo per reprimere tutta ‘st’angoscia che non mi fa dormire. Sogno il giorno che ti rivedrò aspettarmi su una panchina in piazza.
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Ugo Borghetti scrive così, con il male dentro. Nel suo corpo ci sono pezzi di vetro, infilati tra i muscoli a farli sanguinare, ficcati nella gola a raspargli la voce. Ci sono finiti negli anni di quelli che chiama “danni”—proprio così, “facevo i danni”. La vita di strada come scelta, TSO, comunità, ansia nera, e poi gli amici. La gang dell’amore, che gli ha insegnato che cos’è l’amicizia.
Tra questi amici Asperino, Asp, è il più tenero. O almeno così mi sembra, parlandogli e ascoltando le parole che mette sulla traccia. È l’unico di loro laureato (“Pretendo che sia messo agli atti che sono il dottor Asperino!”), fa il cuoco nel ristorante della sua ragazza, scrive barre col sorriso anche quando si sente il cuore pesante. Perdonatemi quest’altra citazione.
E poi ‘sta mattina, ma che bomba di giornata Il sole mi bacia le occhiaie. Ed esse triste è curiosamente bello. Così mi pare, ma non so il perché.
Ma non so il perché. Che è un po’ la risposta che Asperino dà quando gli faccio delle domande—come gli è venuta quella barra lì? Come vive quella cosa là? Boh, la vive e basta. Non è che si fa tante pippe mentali. Al contrario di Ugo, che invece le paranoie le prende per mano e le porta con sé ogni singolo giorno che si alza dal letto.
E quindi il fatto che abbiano fatto un disco insieme, Senza Ghiaccio, è proprio bello. Perché sono persone quasi opposte e quindi è bello sentirle rappare insieme, sì, ma anche perché sono i due artisti più off della Love Gang. Quelli più naïf e difficili, quelli più divertenti e disturbanti. Quelli meno, perdonatemi il termine ma dopo ne parliamo, vendibili.
“Sono nato a Roma in una situazione familiare tranquillissima”, mi dice Ugo. Poi si corregge: “Cioè, tranquillissima… magari nel tempo lo racconterò con la musica.” Usa la classica immagine del piatto caldo di pasta in tavola per spiegarmi che cosa mi vuole dire. “Quello che ti porta avanti nella vita sono le scelte”, continua, “uno può avere pure il padre plurimiliardiario, ma se scegli de campà de impicci, non chiedi mai un euro a tu madre e ti fai i cazzi tuoi, la famiglia o i soldi non cambiano niente.”
Ha capito, Ugo, che sto cercando di capire da dove viene tutto il marcio che canta, la sfiducia nella gente, in sé stesso e nel mondo che trapela dal suo rap. Che poi, “rap”: lui è abbastanza dubbioso sul termine. “Io ho sempre scritto appunti, però non ho mai avuto l’idea de fà rap. C’era un amico mio de San Giovanni, er Paure1, che ha fatto pure delle tracce con Gianni Bismark… quando ero regazzino lo pijavo pe ‘r culo perché rappava. Io mi sentivo roba totalmente differente: er Suarez, Lino Nacapito, Chicoria, Muggetto… roba che non capisci se non hai un background di strada.”
Ugo, insomma, adorava le seconde linee del rap romano, almeno per come è percepito al di fuori di Roma. Quelle brutte, sporche, per pochi, ma proprio per questo vere. “La prima volta che ho scritto una barra è stata con Franchino”, continua. “Stavamo alle scale sotto casa di Asperino, ancora me lo ricordo. Lui è salito a casa per pijà il computer.” La barra in questione? Sta qua sotto.
“Nei miei sogni amici che porto a spalla dentro ‘na bara / Un’altra guardia come Raciti, sogno mortale / In giro per Trastevere co ‘na cicciona spaziale”.
Già dalle prime parole, è puro Ugo Borghetti. “Franchino ci ha volato tantissimo,”, continua, “e da là me sono reccato ‘Periodo d’oro’ a casa mia… e ho detto boh, provamoce. Magari continuo a scrivere e fà i dischi e tra sei mesi me metto a pulì er culo alle vecchie, a pulire i cessi.” È proprio come canta in “SAD!” con Joe Scacchi: “L’ennesimo hotel, sto girando l’Italia / Ma non aumenta il mio conto in banca / Indossare tutti i giorni una maschera.” Non si sente un rapper, Ugo: si sente un ragazzo che è finito a fare il rapper nonostante i suoi problemi.
Gli chiedo dei soldi, quelli futuri che evoca ad Asperino in “Gin Tonic: “io c’ho ventisett’anni. Comunque devi pensà a qualcosa che te fa guadagnà, e col modo mio de scrittura… a meno che me dice una botta de culo questo qua non potrà mai essere il mio lavoro principale”, mi dice. La sente, la sua età, Ugo, e si fa delle domande. Mi racconta che gli era passata la voglia di fare tutto, da quando si era reso conto di non avere comunque un soldo in tasca e di essersi rimesso a fare i danni che aveva smesso di fare.
Ugo ringrazia Asperino, Franchino, suo fratello, Bomba Dischi, il loro amico Degaz aka Emphashishi. “Asperino è un santo, me lo devo tatuà al centro del petto. Devo ringrazià il cielo e tutti se è uscito ‘sto disco.”
“A scuola andavo abbastanza bene, finché so andato alle elementari e alle medio ero uno forte, bravo e intelligente. Alle superiori però ho inizato a fammi le bombe… ti inizia a piacere quella roba un po’ più malandrina”, mi spiega Asp quando gli chiedo di raccontarmi da dove viene. “I figli di papà, i precisi, quelli inquadrati, non stanno simpatici a nessuno. Quindi abbiamo provato un po’ tutti a fare i malandrini, mica solo io.”
Per lui la musica, più che una passione, è stata una costante all’interno delle sue amicizie. Mi spiega che Ketama, che conosce fin da quando aveva 7 anni e andava a catechismo insieme a lui, è sempre stato il suo “esperto di musica”, quello che gli passava i gruppi da sentire—”Andando a strigne, la prima cosa che ho sentito e ho sentito mia è stata il TruceKlan”, spiega. E quindi quando si è messo a registrare pezzi con il resto della banda.
“I figli di papà, i precisi, quelli inquadrati, non stanno simpatici a nessuno. Quindi abbiamo provato un po’ tutti a fare i malandrini, mica solo io.” – Asp126
“Quando ci siamo messi a fare rap sul serio, eravamo un po’ accoppiati—Ketama col Solero e io con Franco”, mi racconta Asp, il cui nome compare come featuring già in Dieci Pezzi, la prima vera uscita discografica della 126. Ma la sua poetica comincia a venir fuori da “Tarallucci & Vino”, tre minuti e mezzo di pura romanità trasteverina in salsa enogastronomica insieme proprio a Franco e Ugo Borghetti. “Vino a brocche, pecorino a tocchi, semolino gnocchi / E se morimo per i panzerotti”, rappava Asp, ripreso nel ristorante in cui oggi lavora. Quel pezzo stava in Asso di Guasconi, un progetto mai finito di cui restano ad oggi sei pezzi su YouTube.
Ugo, gli amici, lo chiamano Bebbo. “Di fama lo conosco da quando c’ho 14 anni, all’uscita de scola mia lui era uno di cui se parlava. Era uno che faceva i danni”, mi dice Asp quando gli chiedo come ha conosciuto il suo compagno di disco, ultimo entrato nella 126 in ordine di tempo. Mi spiega di una epica sagra del vino a Marino dove hanno legato per la prima volta. “A un certo punto è diventata tipo l’Oktoberfest senza regole, anche se ora l’hanno un po’ ripulita. Da un punto di vista etico è pure mejo, succedeva de tutto… Una volta un tipo stava a piscià sotto a una balconata grossa, gli cascò il telefono e la gente da sopra gli tirava le bottiglie. Poi alla fine scialla, avevamo riso tutti, ma era potenzialmente pericolosa. Per me era poesia, mi piaceva andà là a vedè ste cose.”
Che poi, la carriera nel rap di Asp finora è stata un po’ così—un lasciarsi trascinare dal flusso della vita seguendo il suo ritmo. Esistere in strada, parlando con le persone, stringere legami. Il punto è questo, non il successo: “A me dei soldi non frega un cazzo, ma non ne faccio un fatto morale, non è che dico che sto mejo io de quell’altri. Forse sono solo più cojone”, mi spiega quando gli chiedo dei soldi futuri di cui parla Ugo in ‘Gin Tonic’. Mi piace molto di più essere apprezzato, sentirmi dire ‘bravo’. Poi mi mantengo da solo da un po’, a prescindere dalla musica.”
Ugo interviene: “Io pure all’inizio c’avevo ‘sta cosa, all’inizio dicevamo sticazzi dei soldi. Poi mi è presa un po’ la fobia recentemente. Ma perché magari vedi gente che non vale veramente ‘na lira, a livello musicale o de testi. Però loro riescono a campà col rap. E allora io dico, perché io no?” È lo stesso concetto che sta in una sua barra, “’Na vita di impicci, ma in tasca niente / Du’ interviste e ve siete scordati tutti quanti da ndo’ venite”?
“È esattamente quello”, risponde lui. “Mi rendo conto che è magari un problema mio, preferimo più esse coerenti che magari vende er culo pe fà ‘na traccia. Ma penso che con la coerenza prima o poi ci magnerò pur’io. Personalmente vorrei comincià a farli i sordi, mi sono un po’ rotto il cazzo della gente che dice bravo ma poi quando c’è da comprare dieci euro n’sii comprano, capito?” Asp interviene, col sorriso: “I soldi ce li dovete dare, però non perché li vogliamo, capito?”
“Preferimo più esse coerenti che magari vende er culo pe fà ‘na traccia. Ma penso che con la coerenza prima o poi ci magnerò pur’io” – Ugo Borghetti
“Palazzi” è l’unico pezzo solista di Asp all’interno di Senza Ghiaccio ed è notevole in quanto è la prima volta che sento un ragazzo italiano scrivere barre sulla crisi degli affitti e la gentrificazione. “40 MQ / 900 d’affitto”, fa il ritornello; “Ce vonno chiusi in casa / E invece noi sempre in piazza / Ce vonno rinchiude’ in palazzi / Dentro quartieri senza le piazze”, continua. È un pezzo che ribalta la classica narrazione dei palazzoni e delle periferie come luogo d’origine del rap, base di partenza per un percorso di rivalsa: “Tirano su un altro mostro de cemento / Pe’ mettece la gente dentro”, canta Asp.
“Uno che fa un lavoro qualsiasi perché non deve poter vivere nel centro della città dov’è nato, nel quartiere o nella via dove sono nati i suoi genitori?”, mi racconta Asp, che paga effettivamente 900 euro per un appartamento di 40 mq a Trastevere, il quartiere dov’è nato. “La mia proprietaria di casa è una pazza, io sono l’unico che ce vive. Gli altri sono tutti americani che pagano 100 euro a notte, hai capito? Nella Roma dei sampietrini ci può dormire solo chi paga 100 euro a notte? Che vor dì, che quindi i poveri devono stà tutti quanti in dei posti in culo al Signore? Senza i mezzi pubblici?”
La Roma di Asperino è quindi ancora romantica, ma anche un po’ triste e intrisa di nostalgia. Si sente tanto in “2009”, un amarcord tutto cannette e rap dalle casse del computer: “Andavamo alle serate, tornavamo a casa a piedi / Mi ricordo che l’asfalto non sembrava così grigio”. Ugo gli fa da contraltare nero: dieci anni fa, lui stava male. “La terapia non basta / Ma Roma era sempre la stessa / Tombini pieni de merda / Travestiti e puttane a Caracalla”. E ancora, “Davamo le botte manco sapevamo qual era la sostanza / Poi qualcosa cambia / I primi attacchi di panico e crisi d’astinenza.”
Chiedo a Ugo da dove venga tutto questo livore, e lui si apre: “Tutti nella vita viviamo la stessa merda. Asperino in quel periodo viveva la sua, io vivevo la mia. Il 2009 è stato il primo anno che ho vissuto in comunità. TSO e tutto. Ci tengo a dire che sono convinto che sia solo un modo per rubà i soldi.” Ugo, mi dice, aveva problemi con le rivotril, una benzodiazepina, e di essere entrato in comunità con le migliori intenzioni: “non facevano altro che ingozzarmi della stessa medicina. Dopo 9 mesi avevo solo imparato il dosaggio, i nomi dei farmaci.”
Ugo continua: “Te mettono là dentro in un reparto de 11 metri, quello che te dicono è ‘Ok, disegna i puntini’ come se stai alla materna. Te trattano come ‘no scarto della società. Io sono entrato lì dentro sapendolo, che ero uno scarto della società. Uno deve cambià de testa. I farmaci manco t’aiutano, sono soltanto un sostitutivo.” Viene anche difficile per uno come me, che di lavoro racconta le vite degli altri, a continuare il discorso—mi viene solo da citare altre parole di Ugo, a sottolineare il valore di tutto ciò che fa: “Vorrei avere la spocchia de ‘sti rapper e scrive’ testi der cazzo / Dove dico che ‘sta merda spacca”.
“Te mettono là dentro in un reparto de 11 metri, quello che te dicono è ‘Ok, disegna i puntini’ come se stai alla materna. Te trattano come ‘no scarto della società. Io sono entrato lì dentro sapendolo, che ero uno scarto della società” – Ugo Borghetti
Il pezzo che incarna meglio Senza Ghiaccio, credo, è quello che lo chiude. Si chiama “Campare di Campari”: Asp tira in mezzo subito il Vichingo, storico abitante di Trastevere, grande bevitore di Campari, incarnazione dell’anima del quartiere, morto nel 2018. Vorrebbe fare come lui, dice, “E contare sui passanti / E campa’ come i cristiani”. Che cosa vuol dire? “L’insegnamento condiviso che abbiamo avuto dallo stare così tanto tempo per strada, a conoscere gente, a parlare con gli assurdi, con quelli che ti insegnano a evitare e invece tu ti ci butti, è la bellezza del vivere assieme”, mi spiega lui. “Il vichingo campava dell’affetto della gente che lo conosceva.”
E così, senza che io lo imbocchi, Asp mi rivela un significato del nome della crew di cui fa parte: Love Gang è affetto, prima di tutto. “Mò nella musica, e non solo nel rap, passa sempre di più un messaggio assurdo, cioè che vince chi c’ha i sordi, la tipa con le zinne rifatte. Ma magari non perché è figa e ci vuole stare davvero, perché se la porta appresso”, spiega. “Per averci tutti ‘sti sordi e ‘ste cose gli affetti li devi mettere in secondo piano.” La vera sfida è continuare a tenere l’affetto al primo posto, non ottenere certificazioni.
“Se uno c’ha una fanbase di 400.000 persone grazie al cazzo, il problema sarebbe se il disco d’oro non lo fai”, interviene Ugo. “Pure ‘sta simbologia—ma che cazzo me ne frega, devo fare il disco d’oro facendo musica di plastica? Se faccio disco d’oro è perché sto facendo quello che vuole la gente, quello che piace a tutti. A me non me interessa, perché se piaccio a tutti divento un meme, com’è successo co ‘Ansia’. Preferisco piacere a dieci persone, e che ognuna mi dia cinque euro e mi dica ‘bravo’. Non voglio gente che mi segue perché sono un personaggio.”
E ancora: “Tutta ‘sta gente che ti tagga co “MORTI DI FAME CON IN TASCA LE LAME”, o “A KETÀ STO A RECCÀ”… io non ci trovo nulla di divertente fratè. Io quando scrivo “Metà de gli amici so tossici e l’altri so morti” e la gente lo fa come un meme pe ride, a me rode il culo. Io penso siano più prese pe ‘r culo. Sai magari quanto ci ho pensato io prima di scrivere una cosa?” Asp è d’accordo: “Se ti piacciono le cose così vere, crude, traumatiche e traumatizzanti che ti dice Ugo Borghetti sei uno che c’ha il fuoco dentro, così come noi.”
“Io con loro ho trovato una fratellanza e un senso di amicizia che non avevo mai vissuto”, conclude Ugo, dopo un’ora e passa che stiamo parlando. “De stacce sempre, in ogni caso. Tra di noi è sana competizione, quando vedo i miei amici che spaccano il palco io mi emoziono, so sincero. Io non so se ce la farei a cantare ‘Ieri l’altro’ senza piagnere. Tutto il tour che ho fatto con Franchino, le prime 7 o 8 date ho pianto tutte le volte.”
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