Per anni mia madre ha narrato su mia incessante richiesta la storia secondo cui la villetta abbandonata all’ingresso del paesino in cui sono cresciuto sarebbe priva di porte e finestre “perché gli spiriti che la abitano non gradiscono sentirsi rinchiusi.” So che si tratta di una delle tante leggende nate dalla fantasia popolare, ma sono da sempre così suggestionato dal mistero racchiuso in quell’abitazione da non averlo mai messo davvero in discussione.
Ad essere da sempre appassionato di misteri, luoghi dalla storia alquanto particolare e fatti inspiegabili fino a un certo punto è anche l’illustratore Francesco Bongiorni, 34 anni. Dalla sua biografia si può notare che ha collaborato con realtà come New Yorker, Time, Guardian; ma al telefono mi racconta che a un certo punto voleva realizzare qualcosa di suo al 100 percento.
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Così ha preso poco a poco forma Atlante dei luoghi misteriosi d’Italia: un libro illustrato che regione per regione, da nord a sud, racconta oltre 70 luoghi che custodiscono antiche leggende o misteri più recenti—tra micronazioni, mostri e tesori andati perduti.
La gestazione del progetto è stata di oltre due anni, e ha visto la stretta collaborazione tra Francesco Bongiorni e Massimo Polidoro, il quale ha redatto tutti i testi. “Ho fatto un colpo di telefono a Massimo Polidoro, che definisco il Dylan Dog italiano, perché mi piaceva il suo lavoro,” mi spiega Bongiorni. “È stato gentilissimo, mi ha chiesto di collaborare attivamente alla selezione dei luoghi, così poi da poter proporre il tutto [a Bompiani].”
Per chi non lo conoscesse, Massimo Polidoro è un divulgatore, scrittore e presenza fissa a Superquark. In aggiunta, tiene su YouTube la rubrica “Stranger Stories,” e fa parte del CICAP, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze—insomma, è uno che coi misteri e il fact checking ci sa fare.
“[Con Polidoro] abbiamo iniziato così a selezionare casi di criptozoologia (la branca che studia gli animali la cui esistenza è ipotizzata su basi indiziarie), luoghi di fantasmi, abbandonati o con storie affascinanti,” continua Bongiorni. “Sono storie che, pur non credendoci, riescono a renderti un luogo doppiamente interessante—perché ti godi sia il luogo in sé, sia la leggenda che in fondo ti lascia e trasmette qualcosa.”
Bongiorni mi racconta che tra le storie che l’hanno colpito maggiormente ci sono l’ufo caduto ai tempi di Mussolini nei pressi di Varese, la tomba di Dracula a Napoli e il Tatzelwurm (una sorta di serpente-dragone) delle Alpi. Per illustrarle inizialmente aveva pensato di concentrarsi maggiormente sui luoghi, ma poco a poco ha deciso di distaccarsene per lasciare spazio alle leggende vere e proprie. Il risultato sono delle illustrazioni dalle atmosfere plumbee, enigmatiche ed essenziali.
Qua sotto trovate alcune illustrazioni di Francesco Bongiorni contenute nel libro, con estratti delle leggende raccontate (e in certi casi smontate) da Massimo Polidoro.
L’UFO DI VARESE CENSURATO DAL DUCE
“È il 13 giugno 1933, il cielo stellato di Vergiate, in provincia di Varese, è improvvisamente attraversato da una scia luminosa. […] Immediatamente, le forze dell’ordine intervengono e, recatesi sul luogo dello schianto, trovano i resti di un misterioso velivolo e i corpi di due piloti, piuttosto alti e con capelli e occhi chiari. L’incidente è subito secretato, scatta il divieto di diffonderne la notizia ed entra in gioco il misterioso Gabinetto RS / 33, dove la sigla sta per ‘Ricerche Speciali’, voluto da Mussolini in persona e guidato da Guglielmo Marconi.
I resti dell’oggetto volante sono trasferiti in un hangar degli stabilimenti aeronautici che la Savoia-Marchetti possiede a Vergiate e i corpi dei due cadaveri finiscono in formalina. Tutto resta occultato finché, a guerra finita, l’Air Force americana si impossessa dei resti e li spedisce in America, dove saranno collocati in una nuova zona militare segreta, appena allestita nel deserto del Nevada, che prenderà il nome di Area 51.
È una storia suggestiva, quasi cinematografica, che sembra consegnare all’Italia la palma per il primo crash ufologico, quattordici anni prima del ben più celebre incidente di Roswell. A renderla pubblica, nel 2000, è il segretario del Centro Ufologico Nazionale, che racconta di avere ricevuto da una fonte anonima alcuni documenti d’epoca fascista contenenti informazioni riservate sull’incredibile scoperta. Dal CUN si sostiene che sottoposta a esami la carta dei documenti risulta autentica, ma qui sorgono i primi problemi.
Non è chiaro quali test siano stati effettuati e, in ogni caso, fogli di carta risalenti agli anni trenta del secolo scorso non sono sufficienti a confermare l’autenticità di ciò che può esserci scritto sopra. Non risulta infatti nessun altro documento a disposizione degli storici riguardante un possibile schianto aereo a Vergiate nel giugno del 1933, né tantomeno esistono conferme circa l’esistenza del cosiddetto ‘Gabinetto RS / 33’. […]
Il mondo dell’ufologia, che da sempre si muove a cavallo tra la fantascienza e il complottismo, è stato spesso vittima di scherzi e burle poi sfuggite di mano ai loro creatori. La storia dell’UFO di Mussolini non sembra molto diversa. A meno che un giorno, quando si apriranno i portoni blindati dell’Area 51, qualcuno non vi ritrovi alcune vecchie casse provenienti dall’Italia e risalenti al 1933.”
LA MALEDIZIONE DI CA’ DARIO A VENEZIA
“Può esistere un palazzo maledetto? Per chi ci crede qualunque cosa può contenere una maledizione: una pietra, un quadro, un libro o, anche, una casa. Come Ca’ Dario, uno dei palazzi più caratteristici e dall’insolita bellezza che si affacciano sul Canal Grande a Venezia. Voluta nel 1479 da Giovanni Dario, segretario del Senato e ambasciatore per la Serenissima Repubblica, come dote per la figlia Marietta che andava in sposa al nobile Vincenzo Barbaro, ricco mercante di spezie, la costruzione della casa è opera dell’architetto Pietro Lombardo.
Ma sarebbe una misteriosa scritta che compare sulla facciata a nascondere un oscuro presagio: ‘Genius urbis Joannes Dario’. All’apparenza una dedica al suo proprietario, che anagrammata però diventa ‘Sub ruina insidiosa genero’, vale a dire: ‘Genero sotto una insidiosa rovina’. O, in altre parole: ‘Porto alla rovina chi vive sotto di me’. E alla rovina pare condurre subito Marietta e suo marito, in seguito a un tracollo finanziario che porta all’accoltellamento di lui e al suicidio di lei. Anche il figlio della coppia, Giacomo, finisce assassinato.
Nell’Ottocento, lo studioso Rawdon Brown, ridotto in miseria dalla costosissima manutenzione, si toglie la vita dopo solo quattro anni di proprietà. Nel Novecento l’americano Charles Briggs, fuggito dagli Stati Uniti perché l’omosessualità è vietata nel suo Paese, acquista la casa ma è costretto a lasciarla perché la magistratura italiana gli comunica di non essere persona gradita. Si suiciderà con l’amante. La compra il conte Filippo Giordano delle Lanze nel 1968, ma finirà ucciso nella casa dal suo giovane amante, a sua volta ammazzato da sconosciuti. Tocca poi a Kit Lambert, manager del celebre gruppo rock degli Who, che diviene proprietario della casa ma muore suicida gettandosi dalle scale. Per finire con l’imprenditore Raul Gardini, che la compra per la figlia e, travolto dallo scandalo di Mani pulite, finisce per spararsi. Tutto molto misterioso e inquietante. Finché non si comincia a entrare nei dettagli e a verificare i fatti.”
PARCO DEI MOSTRI DI BOMARZO
“‘Voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte et stupende venite qua, dove son facce horrende, elefanti, leoni, orchi et draghi.’ È questo l’invito che il principe Pier Francesco (detto Vicino) Orsini rivolge ai visitatori del parco che progettò e sovrintese nel 1552 a Bomarzo, in provincia di Viterbo. Tre ettari di conifere e latifoglie alle pendici del monte Cimino trasformate in un Sacro Bosco, o una Villa delle Meraviglie o, ancora, in un Parco dei Mostri. […]
Dopo la morte dell’ultimo principe Orsini nel 1585, il parco fu abbandonato e, insieme alle erbacce, iniziarono a fiorire anche le leggende. Per circondarsi di così tanti mostri, si raccontava, anche il suo proprietario doveva essere un mostro. Forse era un principe deforme e codardo, che aveva realizzato quel luogo terrificante per spaventare la moglie e dissuaderla da ogni tentazione terrena. Oppure una sorta di Barbablù, che possedeva e uccideva fanciulle per darle poi in pasto ai suoi mostri, finché una delle ragazze sventurate non riuscì a strangolarlo nel letto con la sua treccia e a liberare il borgo da quell’orrida minaccia. Altre leggende, invece, viravano sul fiabesco. Si raccontava, infatti, che alla nascita del giovane principe di Bomarzo una fata gli fece da madrina e lo colmò di tutti i doni possibili. Per distrazione, ne dimenticò solo uno: la capacità di riconoscere la bellezza. Così, cresciuto, quel gentil signore non seppe fare altro che ornare il suo parco di mostruosità sgraziate. […]
Resta il dubbio su ciò che spinse il principe Orsini a investire tante risorse in un parco tanto particolare, che pesca ampiamente nell’immaginario simbolico cinquecentesco, dall’Orlando furioso dell’Ariosto al Floridante del Tasso, fino alla Hypnerotomachia Poliphili del Colonna, e sembra rimandare a un itinerario di matrice alchemica. È chiaro, tuttavia, che il dubbio è qualcosa che lo stesso Orsini voleva suscitare nei visitatori, come rivela una delle iscrizioni sopravvissute all’usura del tempo: ‘Tu ch’entri qua pon mente parte a parte et dimmi poi se tante maraviglie sien fatte per inganno o pur per arte.’ Ma, forse, la chiave di tutto si trova nel tempietto, che mescola le forme classiche a quelle rinascimentali, e che rappresenta l’omaggio funebre di Orsini alla moglie morta prematuramente, Giulia Farnese, omonima di ‘Giulia Bella’, famosa amante di papa Alessandro VI Borgia. È in un’altra iscrizione, infatti, che forse può trovare spiegazione un parco voluto da un marito affranto dalla perdita dell’amata: ‘Sol per sfogare il core.’”
LA REPUBBLICA DELL’ISOLA DELLE ROSE
“Dietro la vetrata della pensione Paradise, a Bellaria, l’ingegnere Giorgio Rosa osserva la tempesta che si sta abbattendo sul tratto di mare che ha davanti a sé. La furia degli elementi rende tutto opaco e indefinito, cielo e mare si confondono in una macchia grigia, ma l’intrico di tubi contorti e cemento sfondato è certamente laggiù, anche se non si riesce a vedere. […]
Rosa iniziò a sognare di costruirsi un’isola personale, dove aprire una trattoria da cui guardare le navi che passavano, senza dovere rendere conto a nessuno. Come fare? La strada giusta, pensò, era quella di costruire l’isola fuori dalle acque territoriali, lontano da qualunque vincolo demaniale. Iniziarono così i sopralluoghi, si affrontarono e risolsero gli inevitabili problemi tecnici e finanziari, finché, individuato un punto a 11 chilometri e 612 metri dalla costa, cinquecento al di fuori delle acque territoriali italiane, nel 1965 iniziarono i lavori di armamento della struttura. Il progetto prevedeva una prima struttura di 400 metri quadrati, retta da 9 piloni di acciaio piantati nel terreno marino. Sarebbero poi seguite altre piattaforme collegate a più piani, e persino una pista per l’atterraggio e il decollo degli aerei. I lavori iniziarono e, naturalmente, non passarono inosservati. La Capitaneria di Porto di Rimini chiese l’interruzione degli scavi, dato che la zona era stata data in concessione all’ENI, e la polizia iniziò a interessarsi alla vicenda. Rosa continuò imperterrito finché si rese conto che se non faceva qualcosa sarebbe stato fermato. Così, l’1 maggio 1968, con un atto unilaterale Giorgio Rosa proclamò l’indipendenza della struttura, battezzandola Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, o Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj, come si chiamava in esperanto, lingua ufficiale della nuova micro nazione. […]
Il 24 giugno, l’isola fu aperta al pubblico, incoraggiando un traffico di battelli, già iniziato da settimane, che portava alla palafitta turisti e curiosi intenzionati a vedere la struttura da vicino. Il giorno seguente, però, le forze dell’ordine circondarono l’isola con una serie di motovedette, vietando a chiunque l’approdo. […] Privo di qualunque appoggio politico, a 55 giorni dalla dichiarazione d’indipendenza, Rosa aveva osservato inerme la presa di possesso della sua creatura da parte delle autorità italiane. La motivazione ufficiale? Evitare che la struttura si trasformasse in uno stratagemma per raccogliere i proventi dei turisti senza pagare le tasse. Giorgio Rosa fece un appello al presidente Saragat, ma rimase inascoltato. Nel febbraio 1969, gli artificieri della marina militare minarono i piloni con 675 kg di esplosivo per fare implodere la struttura e recuperare poi i detriti, pericolosi per la pesca. Ma la palafitta sopravvisse all’esplosione. Pochi giorni fa, altri mille chili di dinamite hanno deformato la struttura portante, ma non sono riusciti ad affondarla. Forse sarà un’idealista senza futuro, Giorgio Rosa, ma l’ingegnere lo sa fare bene.”
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