Il fenomeno “Stranger Things” è soltanto l’ultimo episodio, in termini cronologici, di una fascinazione che coinvolge la cultura occidentale in tutte le sue espressioni da oramai quindici anni: prima c’è stato il revival new-wave, una brevissima stagione che non ha lasciato quasi nulla (no, non i redivivi Kaiser Chiefs, ma un’etichetta newyorchese che ogni tanto casca ancora in quei suoni ma dà ora il meglio con altre proposte e un paio di album che muovono da un’ispirazione eighties ma sono opere lontanissime, entrambe testamento di due grandi band sfuggenti e fondamentali) e che pareva riprendere, degli anni Ottanta, soltanto certe scansioni ritmiche e la passione per un pop-rock il più possibile sintetico, mentre successivamente l’influenza si è fatta più profonda, più subdola ed invadente.
Possiamo forse indicare come spartiacque, come punto di non ritorno, il film del cineasta danese Nicolas Winding Refn: Drive, uscito nel 2011 e interpretato dall’attore-feticcio Ryan Gosling, segna un upgrade non indifferente nella nostra immaginazione di un decennio tanto celebrato quanto bistrattato. Nonostante la pellicola si svolga ai nostri giorni (tra il 2006 ed il 2014, gli anni in cui Rajon Rondo vestiva maglia Celtics, come si evince da uno dei pochi riferimenti temporali del film) tutto, dall’inizio alla tragica conclusione con i titoli, in entrambi i casi, in uno sgargiante rosa shocking che pare uscito dal booklet di Rio dei Duran Duran, grida “anni Ottanta” a gran forza.
Giochi di luci al neon che sono omaggi più che espliciti a Miami Vice, un plot che è praticamente una personalissima rielaborazione del cult Driver l’Imprendibile (Walter Hill, 1978) e soprattutto una colonna sonora, firmata da Cliff Martinez, primo batterista dei Red Hot Chili Peppers e fidato collaboratore di Refn (oltre che di Soderbergh), che pesca abbondantemente ed in egual misura da suggestioni carpenteriane e synth-pop atmosferico (scovando in una traccia del producer francese Kavinsky il perfetto ed anthemico mix di entrambe). A differenza di Drive, che si giocava le sue carte citazioniste con gusto e misura, tra tributi più sottili e un’atmosfera palese, Stranger Things spiattella tutto e subito, a partire dalla sigla, che non è neppure più soltanto riconoscimento ma quasi plagio (il film è La Zona Morta di David Cronenberg, 1983), prima avvisaglia di un verissimo compendio d’ispirazione anni Ottanta di cui la musica è indubbiamente uno dei cardini.
Firmata da Kyle Dixon e Michael Stein (già membri della band synth-pop, appunto, chiamata Survive) la OST delle serie firmata Netflix ha riscosso plausi unanimi; moltissimi commentatori hanno notato le sfumature carpenteriane del materiale e, per quanto l’ombra del regista e compositore inglese sia forte, gli autori in persona hanno ammesso soprattutto un’altra notevole influenza: “Ascoltiamo tantissimo i Tangerine Dream, e loro hanno composto un sacco di colonne sonore. Ce ne sono alcune che ci hanno influenzato alla grande, in un sacco di modi, come quelle per Thief e per Sorcerer.”
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Lo stesso John Carpenter poi ha più volte espresso concetti simili: in occasione dell’uscita del suo primo album ufficiale, Lost Themes del 2014, ha indicato in un’intervista a Rolling Stone lo score di “Sorcerer” come una vera e propria epifania, una rivelazione. Quando il giornalista gli fa notare che, alla pubblicazione di quella colonna sonora dei Tangerine Dream, lui aveva alle spalle un paio di sonorizzazioni decisamente personali (specialmente quella di Distretto 13 che già conteneva in sé buona parte della visione di Carpenter, rafforzata da un’autarchia quasi obbligata), il quasi settantenne maestro britannico si schernisce, ridimensionando il proprio lavoro in un eccesso di modestia e sottolineando ciò che più di ogni altra cosa lo aveva colpito di Sorcerer: “Era tutta synth. Non suona come nulla che avessi sentito in precedenza.”
Arrivati a questo punto, a ciò che più ci interessa, è giusto spendere qualche riga per introdurre qui i Tangerine Dream: i più cosmici tra i corrieri cosmici della Germania anni Settanta nascono a Berlino nel 1967 su iniziativa di Edgar Froese (che sarà l’unico membro fisso del progetto fino alla morte, avvenuta nel gennaio 2015), con qualche anticipo sul krautrock del quale rappresentano, insieme ai Kraftwerk, il lato più elettronico: sin dall’esordio Electronic Meditation, sintetizzatori e sequencer si distinguono come strumenti portanti della proposta dei Tangerine Dream. Se la tecnologia è centrale nella creatura di Froese, non altrettanto può dirsi dei componenti della band: un paio di cambi di line-up coinvolgono il gruppo negli anni addirittura precedenti al debutto, ma sarà una consuetudine che Froese e i Tangerine Dream si porteranno dietro per tutta la carriera.
Inizialmente il sound dei Tangerine Dream prende spunto dalla contemporanea psichedelia d’oltremanica (specialmente dai Pink Floyd, più volte omaggiati in carriera), aggiungendo ai panorami ampi e lisergici suoni e scansioni elettroniche (orientandosi in un primo momento soprattutto sulla manipolazione dei nastri), pesantemente influenzati da artisti più colti ma non del tutto estranei alla musica leggera (da Terry Riley a Karlheinz Stockhausen); è la conferma di come il krautrock non fosse esattamente un genere, ma più semplicemente un nome di comodo, una definizione-ombrello sotto cui raccogliere la produzione seventies di gruppi e artisti uniti soltanto dall’appartenenza ad un’unica nazione (che poi era una mezza nazione, la Germania Ovest): i Tangerine Dream infatti hanno pochissimo in comune con altri gruppi kraut. Ugualmente distante dalla visione pionieristicamente dance dei Kraftwerk, dai tappeti industriali dei primissimi Clüster o dalle più tarde sperimentazioni bucoliche degli stessi con Brian Eno, dal minimalismo esotico dei Popol Vuh o dal rock contaminato e drogato dei Can, la creatura di Edgar Froese ha sempre proseguito nel solco tracciato agli inizi, mescolando in maniera inedita spunti alti, attitudine psichedelica, un occhio alla melodia ed una smodata passione per i sintetizzatori.
Torniamo dunque alle parole di Carpenter: già al secondo album, Alpha Centauri, i synth sostituiscono sempre più la manipolazione dei nastri. Questo primo periodo, fortemente debitore di ambienti ed interessi più intellettuali, raggiunge il culmine con il capolavoro Zeit (1972). Già in questo album i Tangerine Dream si presentano con una formazione che resterà stabile per buona parte del decennio: il trio composto dal solito Froese insieme a Christopher Franke e Peter Baumann rappresenta indubbiamente la combinazione di musicisti più longeva ed iconica all’interno della variabile Tangerine Dream. A loro tre sono infatti attribuibili i lavori più noti firmati Tangerine Dream: dopo Zeit arrivano prima le lunghe suite ambient di Phaedra, Rubycon e Ricochets e poi le cavalcate sci-fi di Stratosfear, un lavoro che praticamente da solo s’inventa un suono electro spaziale, ipnagogico e hauntologico ancora terribilmente attuale (chiedete al recente Mark Pritchard solista o al Clark epoca Iradelphic).
Eccoci dunque arrivati alla prima tappa di quello che, a posteriori, potremmo definire come percorso di definizione dell’estetica eighties: a neppure un anno di distanza da Stratosfear arriva la prima colonna sonora dei Tangerine Dream per Hollywood (mentre in precedenza avevano lavorato solamente con la televisione della Germania Ovest). Sorcerer (tradotto in italiano, perdendo tutto l’esoterismo del titolo originale, con Il Salario della Paura) sarebbe dovuto essere il film della conferma per William Friedkin: salito all’attenzione del grande pubblico con il poliziesco Il Braccio Violento della Legge e confermatosi agli occhi di critica e audience con la pellicola successiva, l’epocale horror L’Esorcista, William Friedkin s’imbarca in un progetto ambizioso e personale. Remake di un film francese del 1953 (Vite Perdute), Sorcerer è un action movie esistenziale, un blockbuster come avrebbe potuto immaginarlo Werner Herzog: quattro uomini in fuga s’incontrano in un villaggio dell’America Centrale e decidono di andarsene sfruttando la ricompensa di un incarico pericolosissimo, praticamente suicida, trasportare della dinamite fallata, pronta ad esplodere ad ogni movimento. Divisi in due camion con tre scatole di esplosivo per mezzo, i quattro si avviano nella foresta, affrontando le diffidenze reciproche e i gli inconvenienti della natura e del clima, le piogge incessanti e le strade fangose ed instabili.
Se la premessa potrebbe lasciar pensare ad una adrenalinica traversata, quella a cui invece assistiamo è più una lenta discesa all’inferno (o meglio agli inferni: ambientali, politici e privati) dei protagonisti: fondamentale nel creare la giusta atmosfera è, insieme alla camera spavalda ed indagatrice, metaforica ed impietosa, la musica dei Tangerine Dream.
Froese, Baumann e Franke sono in un momento particolarmente ispirato di carriera, come dimostrano anche le numerose uscite del periodo, e possiedono una strumentazione senza paragoni: alle chitarre ed ai numerosissimi synth, molti dei quali all’avanguardia tecnologica, si sommano alcuni esemplari di mellotron di varie generazioni, capaci di dare all’insieme una sfumatura insieme più calda e misteriosa. Così Sorcerer vive di sketch brevissimi, schegge di ritmo e tappeti di tastiere, momenti d’intensa introspezione, affondi torbidi, umidi e bui come le giungle in cui si muovono i personaggi del film: è un Carpenter in bad-trip, sono i Goblin di Profondo Rosso dopo aver mangiato il cactus sbagliato. Eppure non basta: i sei minuti abbondanti dei due brani che chiudono la colonna sonora, “Impressions of Sorcerer” e “Betrayal”, sono una primo, già esauriente, esperimento di synth-wave. Un genere che nasce più di venti anni dopo e, ancora una volta, c’è bisogno di ringraziare Drive per lo sdoganamento al grande pubblico: l’estetica synth-wave è oramai parte integrante nella nostra immaginazione del decennio eighties ed effettivamente trova la prima propria completa realizzazione in un altro score firmato dai Tangerine Dream.
Tra il ’77, anno di Sorcerer, e il 1982 il gruppo tedesco vive la consueta altalena di presenze e all’uscita di Thief la band è formata dai superstiti Froese e Franke accompagnati da Johannes Schmoelling: nel lustro che intercorre tra le due opere i Tangerine Dream si sono mossi sempre più verso un suono sintetico, perdendo quasi definitivamente ogni sfumatura kosmische, ma non hanno più collaborato con il mondo del cinema.
Thief, commento sonoro del primo film (destinato al grande schermo) di Micheal Mann, è dunque la seconda soundtrack che i Tangerine Dream curano e, come la precedente, alterna composizioni inedite a rielaborazioni di brani già noti: musica ed immagini si sposano perfettamente, riuscendo a sviluppare un affresco che contiene in sé già tutti i temi della enorme cinematografia di Mann.
L’opera, presentata in italiano con un anonimo Strade Violente, ha la trama del più classico dei polizieschi e la visionarietà di un regista tanto ambizioso quanto meticoloso: il protagonista James Caan, chiamato soltanto Frank perché, come suggerisce il titolo originale, ogni uomo per Mann è definito dalle proprie capacità e dai propri compiti, dall’essere un professionista, è un abile ladro di gioielli, capace di unire la padronanza dei più recenti strumenti tecnici con arguzia e precisione, che tenta un ultimo grande colpo prima di ritirarsi a vita privata.
Se la trama non è niente d’innovativo, a spingere avanti sono un utilizzo della camera iperrealista, una recitazione asciutta e dura, una gestione del ritmo straniante ed innovativa e la scelta di affidare la colonna sonora ai Tangerine Dream, anziché al più prevedibile blues, vero accompagnamento delle strade di Chicago (come dimostrato dall’uso della poca musica diegetica del film). In questa decisione si può leggere già un’anticipazione di uno dei temi del film: come il personaggio di Frank si trova combattuto tra due figure paterne, una (interpretata non a caso dal cantautore country Willie Nelson) raffigura un’epoca di uomini leali e di accordi precisi e l’altra (lo spregevole villain con il volto e la voce di Robert Prosky) invece un capitalismo cieco, spregiudicato ed ingordo, così la volontà di Mann di affidarsi ai tedeschi suggerisce chi sarà a spuntarla sul finale, se non nella pellicola (dove effettivamente non ci sono né vincitori né vinti) almeno nella storia, quella vera.
Le musiche cupe e incalzanti, ma capaci anche di una improvvisa (e fugace) luminosità, e le strade di una Chicago che è un labirinto opprimente sono insieme suggerimenti agli spettatori ed ingredienti basilari per la riuscita del film: ancora più importanti sono due elementi che concorreranno in maniera imprescindibile a forgiare l’estetica di cui stiamo parlando.
I Tangerine Dream continueranno la loro carriera, continuando a sperimentare, a lavorare con il cinema, a sfornare dischi come fossero biscotti: da un’altra colonna sonora di riferimento per gli anni ottanta (quella di “Risky Business”) ad un periodo in cui malauguratamente anticiparono la new-age, dal ritiro indie di metà anni novanta al contributo per lo score dell’ultimo capitolo del videogioco GTA, sono centinaia le uscite che compongono una delle discografie più sterminate. Anche se Edgar Froese è scomparso nel gennaio 2015 per un’embolia polmonare all’età di settant’anni, i Tangerine Dream continuano ad esistere: il nucleo della formazione è ora rappresentato da Hoshiko Yamane, Ulrich Schnauss e Thorsten Quaeschning, i quali, per concedermi di chiudere in maniera perfettamente pleonastica questo articolo, qualche settimana fa hanno pubblicato sul Soundcloud ufficiale alcune personali cover del tema di Stranger Things”.
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