La tortura in Italia non è mai sparita


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Qualche anno fa il giurista americano Alan Dershowitz ha detto che “tutte le forme di tortura sono diffuse tra le nazioni che hanno firmato i trattati che proibiscono la tortura.” L’Italia non fa eccezione. E per quanto possa sembrare incredibile, nel nostro ordinamento non è ancora previsto un reato specifico per punire la tortura.

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Il 5 marzo 2014 il Senato ha cercato di colmare questo vuoto approvando, con 231 voti favorevoli e tre astensioni, il disegno di legge che inserisce il reato di tortura. La misura, che comunque dovrà passare al vaglio della Camera dei Deputati, arriva 26 anni dopo la ratifica dell’Italia della Convenzione Onu (adottata nel 1984) contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani, crudeli o degradanti.

Il senatore del Pd Felice Casson ha commentato soddisfatto: “Il divieto di tortura entra finalmente tra i reati previsti in Italia. L’uso della tortura e ogni trattamento umiliante e degradante rappresentano la negazione di tutti i diritti umani. Il divieto di tortura […] consacra un valore fondamentale nella società democratica e costituisce il contenuto di una norma imperativa del diritto internazionale generale.”

Tutto a posto, quindi? Non proprio.

La norma approvata al Senato è stata investita da una serie di critiche, e persino il primo firmatario del ddl, il senatore Luigi Manconi del Pd, ha espresso “forti perplessità e insoddisfazione nei confronti di questo testo.” L’Unione delle Camere Penali ha parlato di “soluzione pasticciata” e ha definito un “grave errore” il rendere la tortura un reato comune e non un reato proprio delle forze dell’ordine. “In questa maniera,” si legge nella nota, “la condotta prevista finisce per sovrapporsi a quelle prese in considerazione da altri reati già esistenti, invece quel che doveva essere chiaramente e severamente sanzionato è proprio il fatto che la persona nelle mani dello Stato sia sottoposta a violenze fisiche o morali.”

Il Siap, un sindacato di polizia, si è scagliato contro il provvedimento per i motivi diametralmente opposti a quelli dell’Unione delle Camere Penali. Secondo il segretario Pasquale Di Maria, infatti, la legge contro la tortura non solo “crea gravi e assurdi squilibri”, ma espone le forze dell’ordine al rischio di beccarsi l’“ergastolo”. Il tutto, secondo il segretario, è stato fatto “con l’appoggio dei soliti politici” per accontentare i “professionisti delle piazze”, incuranti di “centinaia di feriti tra le forze dell’ordine, di città assediate, di cittadini terrorizzati e la distruzione di milioni e milioni di euro di beni.”

Per andare oltre le polemiche, e cercare di capire come sia stato possibile arrivare fino a questo punto, ho fatto qualche domanda a Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone e autore del saggio La tortura in Italia.


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VICE: Qual è il suo giudizio sul reato di tortura appena approvato in Senato? È una legge che possiamo considerare soddisfacente?
Patrizio Gonnella: Il giudizio è ovviamente un giudizio sospeso. È soddisfacente il fatto che il Senato sia arrivato a conclusione del suo iter, e quindi che si sia fatto un passo in avanti verso questo obiettivo giuridico, politico e costituzionale. Per tanti anni l’abbiamo visto come un obiettivo che sembrava alla portata ma che in realtà poi non si riusciva a raggiungere.

Il dato invece che desta preoccupazione è che il reato continua a essere configurato come generico, cioè un reato che può essere commesso da chiunque, anche fuori da un contesto di custodia legale (che è quello tipico della tortura). Nel dibattito parlamentare c’è stato un ampio riferimento a contesti di tipo diverso, quali ad esempio di criminalità organizzata o familiari, come se la tortura potesse essere una semplice degenerazione della vita privata.

In realtà la tortura ha un’altra ragion d’essere. La tortura nella storia è quella “giustizia” che fa parte del campo delle estorsioni delle confessioni per fini ingiustificati, o comunque come manifestazione del potere punitivo.

È stata comunque prevista una circostanza aggravante nel caso in cui si tratti di pubblico ufficiale, ed è stato previsto il reato ad hoc di istigazione a commettere atti di tortura per chi comunque riveste questa funzione. Diciamo che sarà poi la pratica giurisprudenziale a farci capire quale sarà il campo di maggiore applicazione. Per cui, meglio questa legge che il nulla.

Mi sembra che politica e opinione pubblica liquidino la questione della tortura come se fosse un qualcosa che non riguarda l’Italia, che non ci appartiene. È così?
Questo è un punto che riguarda l’essenza della democrazia: nessun paese può dirsi, o potrà mai dirsi, esente dal rischio di violenza istituzionale. Non lo può fare nessuno perché la tortura fa parte della patologia di una democrazia. Per immunizzarsi da questo rischio le cose vanno chiamate per nome e non bisogna averne paura. 

Il presupposto è questo: la democrazia forte non è quella che rimuove il problema e dice che quel problema riguarda il terzo mondo. La democrazia forte è quella che sa farsi carico del problema e che lo chiama per nome, lo esprime, lo esplicita e non ne ha paura.

Perché l’Italia si trova ancora in una condizione di ritardo rispetto al recepimento della Convenzione Onu del 1984?
La Convenzione Onu è stata ratificata alla fine del 1988, quasi all’epilogo della Prima Repubblica e all’inizio della seconda. Nella Prima Repubblica le forze politiche, pur con tutti i loro difetti, esercitavano una funzione pedagogica, nel senso che sapevano ragionare intorno agli umori dei loro corpi sociali di riferimento. Questo poi non è più avvenuto. Il motivo dell’assenza di una legge contro la tortura è da ricercare anche nella personalizzazione della politica che ha portato a una campagna elettorale permanente e a dei leader che vanno alla ricerca del consenso—e questo non è un campo su cui si ottiene consenso.

A questa debolezza pedagogica e ontologica si aggiunge anche la forte pressione, indiretta e un po’ occulta, che viene esercitata dalle grandi organizzazioni della sicurezza italiane, che sono sia le forze di polizia (alcune, non tutte) e alcuni sindacati di polizia. Per fare un esempio: quando nel 2012 è saltato per l’ennesima volta il disegno di legge, gli interventi che l’hanno affossato sono stati quelli di un ex prefetto eletto nelle file del centrosinistra e di un ex sindacalista della Polizia di Stato eletto nelle file del centrodestra.


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Un’altra causa di questo vuoto potrebbe essere il fatto che lo Stato, in un momento storico in cui appare “debole” dal punto di vista politico-economico, vuole far valere la sovranità mostrando i muscoli nel campo penale e punitivo.
La globalizzazione è stata una grande ondata che ha travolto gli Stati-Nazione. Gli Stati hanno certamente perso pezzi di sovranità economica, politica, monetaria e così via: il nocciolo duro dello Stato sovrano si è ridotto a poco. Effettivamente, un pezzo che è rimasto a disposizione è quello dell’uso monopolistico della forza. Questo ha rinvigorito alcune tentazioni, tra cui quella di dire: “Mi puoi anche imporre politiche monetarie ma non mi imponi come trattare gli stranieri o come maltrattare le persone.”

È stato però un gioco che sta portando a una sorta di scontro finale, perché comunque siamo in una fase storico-politica in cui non si sono ancora conclusi i processi di costituzionalizzazione e internazionalizzazione dei diritti umani iniziati nel 1948. Bisognerà vedere se prevarrà il desiderio di onnipotenza dello Stato in materia penale, oppure se preverrà il limite insormontabile della dignità umana.

Moltissimi casi di tortura sono avvenuti all’interno delle prigioni. Secondo lei, l’approvazione di una legge seria contro la tortura potrebbe portare a un ripensamento del sistema carcerario?
Anche qui bisognerà vedere quale sarà l’applicazione giurisprudenziale della norma. Se per i prossimi dieci anni, nonostante le denunce, non ci sarà neanche un processo o una condanna, probabilmente certi comportamenti continueranno a essere avallati. Se invece ci saranno pratiche giurisprudenziali diverse, allora potrebbero cambiare anche i comportamenti.

Da un punto di vista internazionale, invece, com’è cambiata la percezione della tortura nelle società occidentali dall’11 settembre a oggi?
Gli Stati Uniti hanno riaperto un dibattito sulla questione della legittimazione della tortura, che però non ha in realtà prodotto cambiamenti significativi nella legislazione interna. Ci sono anche stati tentativi di legittimare la “tortura debole” (come ad esempio quelli del sottosegretario alla Difesa USA Dick Cheney), ma alla fine sia il Patriot Act che la legislazione antiterrorismo europea in realtà non sono riusciti a scalfire i principi codificati a livello internazionale.

Questa circostanza, nonostante la retorica della “sicurezza”, ha del miracoloso. Per uscire dai confini dell’Italia, basti pensare che l’Inghilterra, la Francia, la Germania e molti altri Stati hanno mantenuto il divieto di tortura, e che ci sono diversi paesi in giro per il mondo in cui tale divieto è inserito nelle Costituzioni.

Nonostante i principi abbiano retto, la discussione intorno alla legittimazione della tortura non ha fatto “perdere l’anima” alle democrazie occidentali?
Sicuramente. Gli anni dal 2001 in poi sono stati molto complicati, e sono arrivati mentre si pensava che il problema fosse finito. È chiaro che c’è stata un’involuzione nel dibattito; ma poteva andare molto peggio.

Nel senso che, prendiamo l’esempio dell’Italia, i media hanno iniziato a occuparsi di questi temi, c’è un’attenzione maggiore rispetto al passato e il Senato ha approvato un pezzo del percorso parlamentare. È un qualcosa che forse era inaspettato, dopo le violenze di Genova.


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