I fascisti vogliono ancora fare parte della storia

Foto di Luca Massaro.

Quando c’era lui, il 23 marzo era festa nazionale. Si ricordava la riunione di via San Sepolcro del 1919, atto fondativo dei fasci di combattimento e dell’iniziale apparato ideologico fascista, a partire dal contributo di gruppi fino a quel momento slegati di interventisti, intellettuali futuristi, reduci militari e industriali, pronti a coalizzare i propri interessi ideologici, pratici ed economici contro “il doppio pericolo, quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra.”

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Arringati da Marinetti che tuonava conto il partito socialista, più di ogni altra cosa i membri di quell’assemblea inaugurarono una nuova stagione di cerchiobottismo all’Italiana per la quale bisognava “accettare i postulati delle classi lavoratrici… anche perché vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva delle aziende.” Tutto ciò nei locali del Circolo dell’Alleanza Industriale. Insomma, si parlava di operai a casa dei padroni—magari vi ricorda qualcosa. 

Elemento determinante di quel primo movimento furono gli ex-Arditi, membri dell’oramai sciolto corpo speciale di fanteria già riorganizzatosi in un’associazione chiamata ANAI. Ebbene, per assurdo che possa sembrare (ma anche no, in un paese che non ha mai voluto davvero rimuovere le scorie del passato preferendo riciclarle) nel 2014 l’ANAI esiste ancora, e ogni tanto esce in pubblico a commemorare le proprie tradizioni.

Ieri al Cimitero Monumentale di Milano è stato così, anche se il significato attribuito alla giornata oggi è molto più romantico, e poco ha a che vedere con l’operaismo di cui sopra. Si celebrano la guerra e, in particolare, i morti, i caduti della rivoluzione fascista che, a quanto dicono i partecipanti con uno strano vittimismo, “non vengono mai raccontati.” 

La cerimonia inizia verso le tre del pomeriggio. Gli intervenuti non sono molti ma tendono comunque a fare brutto, o perlomeno ci provano. Sono fondamentalmente divisi in due gruppi, in due fasce d’età distanti fra loro e con poco-niente in mezzo: da una parte ci sono gli over-sessanta, nostalgici dell’MSI più che del fascismo vero e proprio; dall’altra gli immancabili skinhead, tutti direi tra i venti e i trentacinque. Secondo logica dovrebbero appartenere perlopiù a Lealtà azione.


Se gli anziani sono leggermente più rilassati e chiacchieroni, i giovani fanno “un quadrato” dall’inizio alla fine, senza neanche conferire troppo con l’altra sponda anagrafica. Tra i pochi “di mezzo” si riconosce subito Roberto Jonghi Lavarini, barone ex-candidato della Destra di Storace e storica sponda tra il mondo della politica e quello degli hammerskin, fondatore di “centri sociali” di destra che qualcuno accusa di essere stati frequentati anche da facce note della mafia di Quarto Oggiaro. Tanto per dare una nota di colore, il barone ha fatto salire la figlioletta sull’altare con un mazzo di fiori.

Ad ogni modo, sono completamente assenti bandiere e simboli dei movimenti. Non si intravedono neanche celtiche, e l’unico fascio sta nello stendardo dell’Unione Combattenti dell’RSI. Anche gli skin stanno molto attenti a non esibire niente: i tatuaggi sono ben coperti e sui bomber c’è al massimo la bandiera italiana.

Entrano sfilando, coi pelati ancora compatti e ordinati (dopotutto rappresentano la maggioranza dei presenti, e sono pure i più scenografici), e si dirigono subito verso la cripta di Filippo Tommaso Marinetti, davanti alla quale è stato allestito un piccolo palco.

Prende la parola per primo Pierpaolo Silvestri, grand’ufficiale dell’ANAI (il primo non combattente, ci tiene a specificare) in divisa da Ardito, il cui discorso è tutto improntato alla glorificazione del passato—non tanto a quello del ventennio fascista, quanto a quello guerriero e patriottico della prima come della seconda guerra mondiale.

Neanche a parole si sfiora l’oggi e ora, la situazione italiana o quella europea. Silvestri insiste semmai sul ricordo degli eroi e su una forte condanna di chi si è allontanato dal cameratismo per mere questioni politiche. Devo dire, sopra ogni cosa, che perlomeno nei toni usati durante la cerimonia sembra davvero più importante rimanere a una dimensione poetica, puramente narrativa, persino mitologica: contano i simboli e le parole d’ordine degli Arditi, i motti dannunziani e le sparate di Marinetti più dell’eventuale propaganda.

Insomma, questo è “solo un brano di storia,” dice Silvestri e, se da una parte può sembrare veramente fragile l’idea che il racconto storico riesca a prescindere da un’interpretazione dei fatti in prospettiva contemporanea, molti dei presenti sembrano davvero rinchiusi in questo nostalgismo che sembra un rifugio “contro il mondo moderno,” tipo un Evola misero, più che espressione di un autentico attivismo. Certo, questo finché l’occhio non torna alle teste rasate e ai mezzi politicanti presenti.

L’assenza di simboli e di dichiarazioni apertamente fasciste è forse una scusa per evitare l’apologia di fascismo e fare sì che gli appelli dell’ANPI perché la cerimonia fosse vietata cadessero come al solito nel vuoto. Allo stesso tempo non c’è certo stata nessuna volontà di rendere la giornata un gesto dimostrativo riconoscibile dalla cittadinanza o, quantomeno, dal quartiere. Sembra una cerimonia privata, e non posso fare a meno di domandarmi se questa ritualità un po’ religiosa dimostri che il fascismo continua a vivere solo nei suoi simboli e nel sentimentalismo, oppure mostri un movimento ideologico ancora vicino al completo fanatismo, e quindi estremamente pericoloso.


L’atto di “semplificazione” dei morti fascisti come meri personaggi della storia d’Italia sembra dare per scontato anzitutto che ai morti si debba rispetto a prescindere da come sono morti e facendo cosa, a prescindere da chi erano in vita. Dubito che questo ragionamento funzioni a doppio senso, ma tanto sono loro i dimenticati dalla storiografia. Si lamentano infatti di essere vittime di un manicheismo che però riaffermano a ogni parola, quindi il problema è solo che non sono loro i “buoni”.

“Due ore dopo vi entriamo con venti autocarri rigurgitanti di arditi fez neri. impetuoso scamiciamento, fucili branditi da braccia pazze, bocche squarciate dal canto, lazzi feroci di gioia barbarica nel polverone incandescente”—ecco, di roba del genere non se ne è vista, ma se la sono sicuramente raccontata. Dopo Silvestri sale sul palco un uomo molto anziano, presentato come Comandante di cavalleria Scotti, che si cimenta nel breve ricordo di quelli che per loro sono eroi della storia Italiana.

Dopodiché si apre la cripta e i camerati fanno a turno a scendere, molti si fanno foto col cellulare di fianco alla tomba, alcuni accennano qualche timida preghiera (cattolico Filippo Tommaso non lo è stato mai, ma fa niente). Nel frattempo il quadrato è rimasto compatto e gli skin non muovono un singolo passo se non insieme a tutti gli altri. Anche dopo la fine della cerimonia si schiereranno tutti insieme nei pressi del cancello del cimitero, parlando poco e muovendosi meno, in attesa di non si sa bene cosa e impegnati in un gioco a chi tiene più lo sguardo con le due camionette delle guardie parcheggiate a venti metri da loro.

Nel frattempo il fronte della terza età si è sparpagliato a chiacchierare sul sagrato. Sono tutti piuttosto restii a rispondere a domande riguardanti la giornata, e quelli che lo fanno sono perlopiù di un’arroganza incredibile. Uno dà per scontato che non sapessi chi era Marinetti prima di allora, e che la mia intera generazione sia completamente ignorante a riguardo. Non posso parlare per la mia generazione, ma personalmente ho studiato storia dell’arte all’università per cui temo di avere un paio di nozioni sul futurismo.

Miei personali moti d’orgoglio a parte, la cosa più strana che dichiara questo personaggio è di essere venuto a commemorare dei parenti della moglie “uccisi dai partigiani durante le radiose giornate, il 27 aprile, moglie e marito che non avevano fatto niente.” Ora: “radiose giornate (di maggio)” è una definizione di D’Annunzio per i giorni del 1915 in cui gli interventisti scesero in massa a manifestare contro il governo Salandra e a favore dell’entrata in guerra. Non mi risultano né stragi né partigiani né tantomeno che il 27 aprile cada di maggio.

Gli altri partecipanti, comunque, sembrano quasi tutti dell’idea che l’incontro sia stato tutto all’insegna del ricordo, e, riportano tutti la stessa visione della storia ripiegata su una demonizzazione piuttosto random delle violenze dei partigiani e delle guardie rosse (il braccio armato del PCI istituito nel 1921, durante la terza internazionale). Sono molto tutti rassegnati. Tranne uno, un sessantaquattrenne ex-militante dell’MSI che vedete ritratto qui.

Per lui la destra in Europa sta risorgendo e il momento è favorevole; quanto all’Italia, basterà superare le frammentazioni e tornare al soggetto unico dell’MSI. Io non riuscivo a non pensare ai Monty Python.

Di apologia di fascismo ce n’è effettivamente stata poca, di saluto romano solo uno e brevissimo—il fotografo di Repubblica è stato più veloce di noi a beccarlo. A voler essere pignoli si potrebbe dire che c’è quasi più fascismo inconsapevole nelle chiacchiere da bar dell’italiano medio, e comunque l’anti-politica di Silvestri continua a stonarmi: “Una volta mi hanno annunciato che Alessandra Mussolini sarebbe venuta nei locali della nostra associazione,” dice lui, “ma io l’ho avvertita che se l’avesse fatto l’avrei invitata a uscire, perché non voglio intromissioni della politica.” Roba tipo l’“oltre la destra e la sinistra” dei Cinque Stelle. Recentemente, anche Casapound si è detta superiore alle divisioni politiche.

Il dubbio è sempre sul livello di pericolosità di questi soggetti, sul loro numero e sulla loro convinzione. La legittimazione storica, dopotutto, sarebbe solo l’anticamera della tolleranza, una maniera subdola di far agire un aspetto “inedito” della narrazione dei fatti sulla miopia etica e sul qualunquismo dei più, per costringere la cultura italiana a legittimare il fascismo attraverso un romanzetto d’avventura.

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