Luca Pretolesi aka Digital Boy è uno dei capi dell’epoca d’oro techno-rave italiana e mondiale, il vero inventore dell’hoover sound, quell’aspirapolvere poi usato da Human Resource, Bloody Beetroots, The Weeknd, e pure Lady Gaga. A inizio anni Novanta ero troppo piccolo per andarlo a vedere in discoteca, perciò mi dovevo accontentare della radio e, se proprio ero fortunato, dei video che passavano su Superclassifica Show. Crescendo sono passato ai vinili, che cercavo ovunque con curiosità quasi spasmodica. Ma non era abbastanza.
Immaginerete dunque il mio stupore quando su Twitter mi sono imbattuto nell’account “Digital Boy“, provenienza Las Vegas. All’inizio pensavo fosse un profilo fake, o un omonimo fan dei Bad Religion. Invece no, era proprio lui. Così, grazie a Twitter, ho avuto l’opportunità di conoscere una persona eccezionale che non ha mai smesso di pensare in grande, anche da oltreoceano. Ho approfittato di una mia serata a Las Vegas per prolungare il soggiorno in città e fare due chiacchiere con lui.
VICE: Raccontaci degli inizi, come sei diventato Digital Boy?
Digital Boy: Ho cominciato ai tempi delle superiori, da autodidatta, fine anni Ottanta. Ascoltavo Tangerine Dream, Art of Noise, Depeche Mode, Kraftwerk. Facevo già il DJ in Liguria, ma volevo fare la MIA musica elettronica. L’unico modo per scoprire come arrivarci era girare per i negozi di strumenti musicali, facendo mille domande e provando i pochi macchinari che arrivavano in stock. Ovviamente all’epoca non c’era Internet, e le riviste di settore in circolazione non davano molto spazio a questo tipo di hardware. Con i soldi messi da parte lavorando d’estate e una buona dose di istinto comprai la mia prima strumentazione, spendendo un’assurdità per l’epoca: un campionatore Akai S900, un sequencer Roland MC500 e una drum machine 909.
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Digital Boy, 1993.
E da lì hai iniziato a sperimentare… Dove suonavi?
Il mio primo studio era in una stanza dietro al negozio di ceramiche di famiglia. Aspettavo che chiudessero per fare musica, a volte fino al mattino, e andavo a scuola subito dopo. Era un periodo in cui riuscivo a chiudere anche 15 pezzi al mese. Il proprietario del negozio di dischi da cui mi rifornivo mi convinse a mandare una cassetta a Radio Deejay, con un mio mixato. Non avevo grosse aspettative, però ricevetti una telefonata da Molella che mi invitava a partecipare a un contest di dj che la radio avrebbe organizzato di lì a poco all’Aquafan di Riccione, il Walky Cup.
Come andò?
Era l’89, e a sfidarci eravamo io, Mauro Picotto, Daniele Davoli dei futuri Black Box e Francesco Zappalà, tutti giovanissimi. Vinse Picotto. Io arrivai secondo, ma avevo la sensazione che tutto si stesse muovendo nella direzione giusta—è incredibile come ognuno di noi poi abbia avuto successo. Da allora ho messo su un vero e proprio live set con 909, Juno, Akai S900 e SH101.
Qual è stata la tua prima produzione?
Ho deciso di farmi avanti come produttore nel momento in cui ho capito che quello che creavo nel mio studio era all’altezza dei dischi che compravo in negozio. Ero nel pieno trip Acid Techno, e non c’erano etichette che stampassero cose del genere, i tempi erano un pò prematuri. Mandai un demo alla Flying Records di Napoli, unica opzione realistica in Italia. Mi proposero di distribuire il mio disco in contovendita a patto che avessi affrontato i costi di stampa. Dopo aver racimolato un milione di lire riuscii a produrre il mio primo vinile, in mille copie. Grazie a un passaggio su Radio Deejay di Albertino andarono via tutte in due giorni, così la Flying si decise a mettermi sotto contratto e a stamparne altre trentamila. Quello fu il momento della vera svolta: cominciai a suonare in giro per l’Italia e per l’Europa, nel momento in cui la techno veniva sdoganata nei club e nasceva la rave culture.
Ecco, raccontaci un po’ di quei tempi…
Ho dei ricordi bellissimi dei primi rave in Italia. L’esperienza era così libera, pura e spontanea che è impossibile associare il pubblico dell’epoca a qualsiasi categoria, a partire dall’abbigliamento, per il quale all’inizio non c’erano punti di riferimento. Inoltre, il successo di un rave non era determinato dalla presenza di dj più o meno importanti, quanto dalla creazione di una sinergia tra pubblico, musica e location. Quasi sempre i dj ospiti provenivano da scene musicali diverse, e l’ordine con cui si esibivano seguiva l’intensità del loro sound, dalla deep house alla acid techno. Non c’era nessuna star, l’unica differenza tra noi dj e il pubblico era che noi suonavamo e loro ballavano.
Poi però le cose sono cambiate, no?
Con il passare del tempo la massa di persone che seguivano i rave ha preso forma in un vero e proprio trend, anche stilistico. Ricordo che io stesso compravo i vestiti a Camden Town, dove avevo trovato quegli occhiali col mirino sulla copertina di Futuristik. Poco dopo l’uscita dell’album andai a suonare giù in Meridione e beccai un fiume di ragazzi con quegli stessi occhiali.
Negli anni l’esperienza rave si è trasformata da una Woodstock elettronica, libertaria e alternativa, a qualcosa di violento e inspiegabilmente politicizzato. Verso la fine dell’epoca d’oro, più o meno nel ’94, si sono avvicinate al genere una serie di subculture nazistoidi con cui non avevo nulla in comune. Ma nel frattempo mi stavo già occupando di altro; poco dopo avrei aperto un mio locale a Rimini, il Gheodrome. Mi reputo comunque fortunato di aver visto nascere coi miei occhi il fenomeno rave in Italia. Ricordo alcune serate come le feste più belle a cui abbia partecipato, tipo quelle a Roma o il mio rave-tour con Adamski.
A quel punto eri già piuttosto conosciuto, e non solo in Italia.
Passavo quasi tutti i venerdì a suonare in Olanda o in Belgio, dove la techno era un fenomeno di massa, eppure tornavo in Italia al sabato per suonare al Cocco e trovavo lo stesso vibe. Il Cocoricò è stato il primo locale italiano a proporre la musica techno, e più in generale a lasciare i dj liberi di esprimersi. Pur avendo una proposta di davvero alternativa per l’epoca, era molto frequentato, sulle 3/4000 persone a serata. Condividevo la consolle con i grandi dell’epoca, Joey Beltram, Speedy J, Richie Hawtin. Un altro locale storico era l’Immaginazione. Definirlo club forse è sbagliato, perché era completamente illegale, ospitato in una ex Chiesa sconsacrata a Pantigliate (dove raramente si usciva prima delle 4 di pomeriggio).
Tutto questo è successo quando avevi 20, 22 anni. Avrai fatto sicuramente fatto qualche cazzata.
Si, ho comprato una Camaro, cash.
L’italiano medio che pensa all’America vuole trasferirsi a New York o Miami. Come sei finito a Las Vegas?
Un mio amico americano che lavorava da Flying Records si era trasferito lì per mettere su famiglia, e continuava a dirmi di andare a dare un’occhiata. A fine anni Novanta ero in un momento di “turning point”, sia io che mia moglie Ornella avevamo voglia di una realtà nuova, diversa, con un senso di libertà che cominciavamo a sentire mancare in Italia. Il club che gestivamo a Rimini era destinato a chiudere a causa di un piano di costruzione urbana. Siamo partiti con l’idea di fare vacanza per tre mesi in Nevada e…
Alla fine siete rimasti. Perché?
Ci siamo innamorati del posto, del suo clima, del deserto e delle montagne intorno, ma abbiamo anche trovato del potenziale. Quello che colpiva è che i club avevano una struttura organizzativa spaventosa, ma zero gusto musicale. Tutto girava intorno ai casinò bling bling, live-club che sembrano rimasti fermi agli anni Ottanta—c’era un locale chiamato Studio 54 come tributo alla disco NY, ma il sound era solo dance schifosa di 4 anni prima, top 10 rnb americana e qualcosa di rock. Avevo la sensazione che la città avesse tutto a disposizione—soldi, organizzazione, gente motivata—però mancava qualcuno che indirizzasse le cose nel verso giusto, almeno dal punto di vista musicale.
Il nuovo studio di Luca.
E quel qualcuno, in parte, eri tu. Come ti sei inserito nella scena?
Ho conosciuto uno dei manager di questi locali, che mi ha proposto di curare la direzione artistica di un nuovo evento—un afterhour, il primo a Las Vegas. La cosa ha avuto una specie di effetto bomba in città, e ho ricevuto una pioggia di richieste. Così ho creato un roster di dj per per i quali adesso faccio da manager, gestendoli sulla programmazione delle decine di club che nel frattempo hanno aperto. È un lavoro che mi lascia tanto tempo a disposizione, perciò ho ricominciato a fare musica col mio approccio iniziale di quando ero ragazzino, sperimentando in studio, senza pressioni. Ho deciso di lavorare sui progetti perché voglio, e non perché devo. Mi sono concentrato più su missaggio e mastering per altri artisti, quelli che mi piacciono.
Facci qualche nome.
Nell’ultimo anno ho mixato e masterizzato l’album dei Cypress Hill e di Steve Aoki; al momento sto lavorando con Major Lazer, Rusko e Peacetreaty. Le ultime produzioni techno-rave fatte come Digital Boy, invece, sono uscite nella collaborazione con l’mc Shark, anche lui mezzo italiano.
Digital Boy e Shark.
A proposito dell’Italia, c’è qualcosa che non sei riuscito a portare qui a Las Vegas?
Brioche e cappuccino caldo nei vicoli del mio quartiere di Genova, le quattro chiacchiere col barista. Da Starbucks non funziona così.
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