Avere vent’anni e “finire i soldi”

Non è ancora finito il mese e sono rimasto di nuovo, quasi, senza un euro sul conto. Ho comprato una chitarra nuova, un po’ di libri, pagato delle spese mediche per il mio gatto, ed è questo il motivo per cui non andrò in vacanza e per la prossima settimana mangerò gli avanzi del frigo.

Mentre riflettevo sulla situazione mi sono tornate in mente due puntate dei Griffin. In una dicono che non importa se sei nero o bianco, l’unico colore che conta davvero è il verde dei dollari. Nell’altra, Peter Griffin si butta in un gigantesco forziere di monete d’oro come Zio Paperone, solo che invece di affondarvi si rompe le ossa, scoprendo che l’enorme gruzzolo di monete “non è liquido” ma “è una montagna di pezzetti di materia solida che formano una superficie dura e compatta.”

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In un certo senso, questi due episodi sono una buona rappresentazione dei soldi: se sei senza, cose normali come uscire, rimorchiare, risultare simpatico, chiamare l’idraulico per fermare le perdite in bagno e soprattutto avere un po’ di speranza nel futuro diventano un po’ più complicate. E non parlo di non averne affatto o mai, perché quella è una condizione drammatica, complicata e diversa dalla mia. Che, come per altri amici e coetanei, corrisponde invece al “finire i soldi”.

Sono uno studente universitario, ma nonostante abbia due lavori part time—lavoro in un bar e in un negozio di dischi, oltre che scrivere su internet, che come tutti sappiamo il più delle volte non è riconosciuto come lavoro, ma rientra comunque tra le mie fonti di reddito—più di una volta mi è capitato di andare in rosso. Nulla di grave, solitamente si tratta di qualche giorno in cui vivo con acredine e aspetto angosciato qualche pagamento in ritardo. Fortunatamente abito a Perugia, una città in cui le spese non sono molto alte e tardare qualche giorno nel pagare l’affitto non mi ha ancora fatto finire nei guai.

Quando capitano situazioni simili, ad ogni modo, comincio puntualmente a interrogarmi su come ho fatto a finirci dentro, e tirando le somme la risposta sta sempre in un miscuglio indissolubile di cause tra cui le più ovvie sono: fallimentare gestione dei fondi, pessima pianificazione e assenza completa di autocontrollo.

Qualche giorno fa mi sono messo a rifletterci più in profondità perché su VICE Canada è uscito un articolo sul tema, e devo dire che mi sono sentito sollevato quando mi ha ricordato che non sono l’unico a cui capita ritrovarsi in una situazione del genere. Soprattutto a pensare che non sono l’unico per cui rimanere senza soldi vuol dire rimanere senza soldi nel vero senso del termine, senza poter contare su una telefonata a mamma e papà—non che condanni la cosa, potendo li chiamerei subito.

È che per la mia famiglia, come in moltissime altre famiglie non necessariamente “povere”, i soldi sono sempre stati una questione delicata: se ritorno indietro con la mente, ci sono sempre state discussioni in merito. Mia madre e mio padre litigavano costantemente, e apparentemente i motivi erano i più vari—ma dietro, come per l’articolo canadese, c’erano molto spesso i soldi, che sembravano non bastare per mandare avanti la casa e per mantenere me e i miei fratelli. Era un quadro che conoscevo bene: mio padre riversava le sue frustrazioni su mia madre, su di noi e sul bere.

Perciò, fin da piccolo sono stato messo davanti al fatto che i soldi possono essere un problema, ma per quanto avessi paura a volte di diventare effettivamente povero (con tutto quello che povero nella mia immaginazione significava), il frigo era sempre pieno e la luce non è mai stata staccata. Certo, non avevo le Air Max—per fortuna, col senno di poi—ma andavo agli allenamenti di calcio e mia sorella a scuola di musica.

Insomma, aleggiava la paura che potessimo diventare poveri davvero, ma è una paura che non si è mai concretizzata nei fatti. Era come vivere sotto una persistente nube grigia che minacciava pioggia senza mai far piovere. E credo stia qui l’ambiguità che molti passati per queste esperienze nutrono nei confronti dei soldi: li percepisci, appunto, come qualcosa di astratto che nel bene o nel male influenza profondamente la tua vita senza che tu te ne renda conto—un po’ come il tempo o la forza di gravità.

Quando i miei hanno divorziato ero abbastanza grande e ho iniziato a lavorare. Ho lavorato mentre finivo il liceo, ho lavorato mentre non facevo nulla di concreto della mia vita e sto lavorando adesso che sto finendo l’università. Tuttavia, il fatto di aver cominciato a disporre di soldi miei, che guadagnavo io, non toglie che sia un vero disastro ad amministrarli: non sono mai riuscito a mettere da parte nulla, e molto di quello che spendo sta un po’ al di sopra del “minimo per la sopravvivenza”.

Certo, pago tutto quello che devo pagare. Dall’assicurazione della macchina all’affitto fino all’abbonamento di Netflix. Ma col tempo mi sono reso conto che altrettanto lo investo in birreria, in dischi, in sushi, in tabagismo e, quando va bene, in libreria. Così, prima che me ne accorga il mio conto rasenta di nuovo lo zero.

D’altronde, mi autogiustifico ogni volta che ci penso da ormai quasi dieci anni, sono soldi miei e se li spendo chi mi dice nulla? Anzi, credo siano sempre stati una delle cause ma anche il riflesso delle mie tendenze autodistruttive—in qualche modo inconsciamente ho sempre “voluto” che il saldo del mio conto rispecchiasse tutto ciò. È sempre stato una sorta di perverso orgoglio di cui vantarmi segretamente con me stesso quando me ne sto accovacciato sul divano a smaltire una sbronza da 50 euro.

Ovviamente mentirei se dicessi che nei giorni in cui sono di nuovo a zero mi sento in pace con il mondo e con me stesso. Per evitare di risultare più odioso di quanto non lo sia normalmente, l’ultima volta che il bancomat si è rifiutato di sputarmi qualche banconota sono rimasto a casa a leggere racconti russi di gente che stava messa peggio di me. Quando poi sono costretto a uscire stringo i denti, mi metto i vestiti più belli che ho e faccio finta che tutto vada bene. Non voglio che nessuno mi “compatisca”, o mi guardi con occhi diversi.

C’è stato un periodo in cui traducevo questa mia situazione in termini di avversità nei confronti del mondo borghese o lo rimasticavo per nutrire i miei vezzi pseudo-romantici, ma poi mi reso conto che erano solo meschini tentativi di mascherare la mia irresponsabilità. Di questo però me ne rendo conto solo ora che ho superato da qualche anno i venti. In quel preciso momento in cui capisci che gli anni passano, e tu devi farci qualcosa. Quando l’ansia e la paura per il futuro iniziano a farsi concrete e hai i primi capelli grigi (sì, di già). Forse dovrei iniziare a mettere da parte qualcosa, magari per una casa e tutte quelle cose che si vedono nei film.

Ma finora non sono riuscito a entrare nell’ottica; per ora ho una chitarra nuova, dei libri da leggere e un gatto di cui prendermi cura. Magari dal prossimo mese inizio a mettere da parte qualcosa per il mio futuro. Il problema è che l’avevo detto anche un mese fa.

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