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Peti, pidocchi e patriarcato: il punk nel 2020 sa ancora darti un calcio in culo

moshpit punk

DISTORTO è la rubrica in cui Giacomo Stefanini, che è un punk, tiene una rubrica sul punk. Gli abbiamo chiesto di parlare principalmente di quello italiano, però sappiamo già che non finirà così dato che ne sa tanto di tutti i tipi di punk.

Visto che il punk è sprovvisto di una narrazione mainstream, ed è per definizione (seppur la definizione stessa sia un po’ problematica) orizzontale, viaggia per passaparola e raccontarlo per mode o correnti non fa altro che mistificarlo e renderlo divisivo per chi ne è appassionato, ho pensato che scrivere “una panoramica sulla situazione attuale della musica punk”, come avevo concordato, fosse fuori luogo.

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A causa dell’onnipresenza di internet le informazioni sono sparse, difficili da trovare e spesso categorizzate per “bolle” in cui il modus operandi punk viene diluito e indebolito.

Certo, avrei potuto parlare della rinascita del punk di New York a inizio anni Dieci grazie a etichette come Toxic State e Katorga Works e band come Crazy Spirit, Hank Wood and the Hammerheads, Dawn Of Humans. O dei primi EP degli Hoax che hanno fatto ricrescere le borchie anche a chi le aveva messe nel cassetto nel decennio precedente. Avrei potuto citare la rivoluzione transfemminista portata dalle G.L.O.S.S. nel 2015, o le Good Throb che con la loro semplice ricetta di rabbia, incompetenza e talento hanno rimesso l’Inghilterra sulla mappa. A proposito di UK, che ironia che proprio nel decennio della Brexit una delle personalità chiave del punk inglese sia stata un immigrato spagnolo di nome Paco con la sua etichetta La Vida Es Un Mus.

Negli ultimi anni abbiamo osservato anche il fenomeno dei canali YouTube che si sono sostituiti ai blog come veicoli per le nuove uscite DIY di band provenienti da tutto il pianeta, alimentando secondo qualcuno mode e sottogeneri, il primo dei quali è sicuramente il post punk cartoonesco e robotico della scena dell’Indiana rappresentata dai leggendari Coneheads o, in maniera più “adulta”, dagli Uranium Club che hanno appena firmato per la quasi-major Sub Pop. E come dimenticare la scarica di 45 giri di Total Punk che ha riportato ai vecchi fasti il punk rock aggressivo, veloce e senza fronzoli, presentato nella veste più economica e diretta possibile (una bustina di carta con dentro un disco, la copertina un semplice timbro fatto a mano su ogni copia).

Quello che annusiamo nell’aria non è lo spirito del tempo: siamo chiusi in uno sgabuzzino e ci stiamo avvelenando con i nostri stessi peti.

E tra le altre cose che avrai notato se hai seguito il genere ci sarà stato che improvvisamente i dischi delle band angloamericane della tua collezione erano sempre meno e aumentavano quelli di band latinoamericane, europee, asiatiche. E le persone americane di seconda generazione hanno ricominciato a cantare nella lingua dei loro genitori, facendo tantissimo per abbattere il muro di pregiudizio del pubblico in favore della cultura occidentale. Abbiamo ascoltato punk cantato in spagnolo, catalano, portoghese, tedesco, greco, ungherese, serbo-croato, russo, malay, finlandese… e anche italiano.

E questo è una parte di quello che ho visto dal mio punto di osservazione negli ultimi dieci anni. Non è tutto manco per niente. Potrei davvero andare avanti per altre dieci pagine e non avrei coperto un decimo di quello che è successo in questa sottocultura presunta morta. Mi sono addirittura dimenticato di citare il mio disco preferito in assoluto, l’omonimo mini-album degli Anxiety. O forse è la seconda cassetta dei Kaleidoscope. O il primo album dei Low Life. Non importa.

È un secolo complicato per il punk, non c’è dubbio. Prima di tutto nella vita reale, perché l’emergenza di governi legalisti, neoliberisti e di estrema destra soffoca la libera espressione di chi ama fare le cose al di fuori delle logiche commerciali, privando il movimento punk di spazi, influenza e libertà di azione. A causa dell’onnipresenza di internet le informazioni sono sparse, difficili da trovare e spesso categorizzate per “bolle” in cui il modus operandi punk viene diluito e indebolito. Anche le stamperie di vinile, che fino a 15 anni fa si sostentavano soltanto grazie ai proventi dei dischi punk prodotti in 300 copie, ora sono intasate di porcate “da collezione” che hanno lo stesso valore culturale dei souvenir per turisti.

Ma siccome tutto ciò che è è vivo, il punk è vivo. Il fatto è che abbiamo scelto di costruirci attorno camere ecoiche che moltiplicano esponenzialmente le voci della maggioranza. Ma quello che annusiamo nell’aria non è lo spirito del tempo: siamo chiusi in uno sgabuzzino e ci stiamo avvelenando con i nostri stessi peti. E così in molti di noi stanno allucinando un 21esimo secolo in cui a vivere sono soltanto alcuni generi musicali, perché è quello che respirano.

La sottocultura continua a produrre musica e situazioni che, a seconda di quali fumi ti stanno avvelenando, sono le più stimolanti e vivaci o le più noiose e incomprensibili della contemporaneità. Scherzo, non sono nessuna di queste cose: sono e basta, come tutto il resto. Ecco cinque dischi che senza particolare ordine o motivazione ti consiglio di ascoltare in questo inizio di 2020: alcuni sono già usciti, altri sono solo online. Annusa qua.

Neon – Neon

Folle, libero, fastidioso, atonale, completamente senza freni è il suono di Neon da Oakland, California. Questa è musica punk per teste pensanti, che si prende il 100 percento della tua attenzione e non lascia spazio per maledizioni come il lavoro e i social media, costringendoti a concentrarti sugli imprevedibili scrosci di chitarra e sulle improvvise sfuriate ritmiche, mentre la voce trasforma in mantra frammenti di pensieri tra la poesia e rivolta. Una delle uscite più interessanti ed esaltanti del punk contemporaneo, con una palette di colori infinita e brillante. Nella migliore tradizione punk, la band si è sciolta subito dopo aver pubblicato l’album.

Tuono – Ho scelto la morte

Hai presente la storia per cui ci sono infiniti universi paralleli con infinite versioni di te? I Tuono sono punk in ogni universo. La band è composta da membri di Kontatto, Horror Vacui, Sang, Impulso—ma se leggendo questo elenco credi di sapere già come suona ti sbagli di grosso. Ho scelto la morte fa l’hardcore italiano anni Ottanta, ma non nel senso che vi si rifà pedissequamente, ma perché allo stesso modo di band come Wretched, Impact o BedBoys incorpora e sintetizza influenze hardcore dal resto del mondo, mescolandole con suggestioni post punk per nulla scontate (l’intro di “Non mi aspetto più niente” omaggia il dub alla Slits). I testi sono perfetti per riflettere su quello che sta succedendo dentro e intorno a noi, e magari decidere di cambiare qualcosa. Se quest’anno devi ascoltare un solo disco hardcore italiano (ma perché porsi dei limiti), eccolo qua.

Sniffany And The Nits – I Love You (…But You’ve Got Nits!)

La bandiera del punk hardcore diretto, stupido e col gusto per le cose schifose sventola alta nel punk di oggi più o meno da quando Lumpy and the Dumpers hanno iniziato a inondare il pubblico dei loro concerti di gelatina verde. Sniffany and the Nits si inseriscono in questa tradizione con un EP di tre canzoni di brillante inettitudine. Riff semplici e diretti, batteria pogo, voce super espressiva e testi ironici su pidocchi e patriarcato. Il tutto dura poco più di 5 minuti ed è pura perfezione punk.

The Cowboy – The Cowboy

Due membri di The Cowboy vengono dalla formazione dei leggendari Homostupids, di cui questa band sembra decisamente la versione adulta: nel mio mondo questa informazione fa mettere subito mano al portafogli o almeno al pulsante Play, ma se proprio insisti ti spiego due cose in più. Questo EP di tre pezzi segue il primo album di due anni fa e anticipa il secondo che uscirà in primavera. In tipica formazione rock’n’roll chitarra-basso-batteria, The Cowboy mettono su un razzo un immaginario mid-America quasi da, beh, appunto, cowboy, e lo lanciano nello spazio interstellare abitato da fini futuristi come gli Hot Snakes. Riff di metallo liquido tipo T-1000 che incontrano un suono da scantinato di inizio anni Settanta, un’attitudine hardcore anni Ottanta e una sfacciataggine anni Novanta (se sul finale di “Way Out Beneath” non ti vengono in mente le Breeders non hai ascoltato abbastanza le Breeders). Quando la gente dice che se gli Stooges si fossero formati in questo secolo avrebbero suonato elettronica, si dimentica che si può fare anche roba come questa.

Iena – La Morte Chiama

Un sacco di gente ha paura ad avvicinarsi a un genere come l’Oi! perché è legato talmente a stretto giro con una sottocultura, quella skinhead, che da fuori pare così codificata da risultare inaccessibile. I fiorentini Iena, al secondo album, hanno spogliato le loro canzoni di quelle tradizioni polverose (il vocabolario per iniziati, le tematiche trite e ritrite, il suono freddo e impersonale) che avevano reso il genere solo una specie di rituale di culto, scavando più a fondo e ritrovando il filone dorato dell’Oi! primordiale: riff memorabili, ritmo trascinante, cori ingegnosi (i giochi con accenti e sillabe di “Sprofonda L’Abisso”, “Il Bacio Della Morte” o “Iena”), aggiungendo testi dal fascino cupo, che non si perdono in cazzate e banalità (anzi, “Contro La Città”, come avevano fatto “Firenze Nord” e “Lo Stivale Brucerà” nell’album precedente, suscita riflessioni sull’alienazione nelle città italiane). Certo che suona come un disco registrato nell’82, ma il suo essere retrò è soltanto un accessorio e non, come per tanti altri dischi con le chitarre, la caratteristica principale—serve solo a contestualizzare propriamente otto canzoni punk fatte come i Nabat comandano.

La foto in alto è tratta dalla serie Rat King di Marco Dapino. Grazie Marco.

Giacomo è su Instagram.

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