Quasi ottomila chilometri da Washington, e poco meno di tremila da Mosca.
Sul tabellone dell’aeroporto di Comiso—a mezz’ora in auto da Ragusa—non ci sono voli per queste due destinazioni, ma solo boeing Ryanair e qualche aereo da turismo.
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Non c’è niente che racconti la storia di un’altra epoca. Quella in cui qui, oltre la rete che divide l’aeroporto dal resto della Sicilia, fino a 25 anni fa aveva sede la più grande base Nato di tutta l’Europa meridionale.
La struttura, in un’area oggi abbandonata ad ogni tipo di saccheggio, era stata scelta dagli Stati Uniti per custodire 112 missili Cruise a testata nucleare.
Bastava una telefonata perché da qui, in 14 secondi, partisse in direzione dell’URSS un Cruise con una capacità esplosiva 15 volte superiore alla bomba sganciata su Hiroshima.
Oggi, invece, non c’è più nulla. Non ci sono più i missili, non ci sono più gli americani, e non c’è più nemmeno la base.
Da qui gli sciacalli hanno portato via tutto quello che potevano, i tubi penzolano pericolosamente dai controsoffitti sfondati, i vetri sono frantumati, i tombini aperti e le porte spaccate.
L’erba è alta più di un metro, i segnali stradali sono un cumulo di ruggine, per strada si trovano vestiti, giocattoli e cavi d’ogni spessore e lunghezza.
Eppure ci sono ancora le villette a schiera, i negozi, il serbatoio per l’acqua, il burger bar, il bowling, la chiesa e il comando militare. A Comiso, insomma, c’è ancora in piedi una città fantasma per una base che non esiste più.
VICE News è riuscita a ottenere l’autorizzazione per entrare all’interno di quello che resta della struttura, chiusa definitivamente nel 1999.
Da quando sono andati via gli americani, il 25 settembre del 1991, la competenza è dell’aeronautica militare. Una parte della Comiso Air Station, dove c’è la pista e la nuova aerostazione, è stata ceduta al Comune, e nel 2013 è stato aperto un aeroporto civile.
Si entra scortati da due ufficiali. Non c’è nessuno a piantonare la base: soltanto un cancello sbarrato all’ingresso, mura d’epoca fascista—il primo aeroporto qui lo costruirono nel 1939—e un’altra recinzione in metallo e filo spinato.
“Le predisposizioni rispecchiano quanto previsto dalle norme vigenti in merito alla messa in sicurezza e sorveglianza di un sito in dismissione,” dicono a VICE News fonti del ministero della Difesa. Polizia e Carabinieri, saltuariamente, passano per pattugliamenti e sopralluoghi.
L’ultimo lucchetto lo hanno messo nel 2013, e prima di allora un solo soldato presidiava l’area in orario lavorativo—escluso la notte e il weekend, quindi—per controllare un’area di 193 ettari complessivi.
All’ingresso non c’è più nemmeno l’insegna. È stata smontata, ed è l’unica cosa—assieme ai missili e agli estintori—ad essere scampata agli sciacalli.
C’è persino chi ha staccato le lettere e composto il nome “Michele” sotto il Cruise di pietra che ricorda i caduti negli otto anni—dal 1983 al 1991—trascorsi qui dal 487th Tactical Missile Wing della US Air Force.
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“Nel 1985 c’erano 1278 soldati americani assegnati a Comiso,” si legge nei documenti passati in esclusiva a VICE News da Laura Simich, ricercatrice al Vera Institute of Justice di New York e autrice nel 1988 di una tesi di dottorato alla Columbia University sulla base.
A rafforzare il perimetro di sicurezza erano dispiegati anche un centinaio di militari italiani, che però non avevano “niente a che fare con le operazioni della base né con i missili Cruise.” Non era prevista “una disposizione ‘double key’ per cui gli Italiani dovessero essere consultati in caso di lancio di missili,” si legge ancora nei documenti.
Il cuore operativo della base era il comando militare, la prima struttura dove entriamo.
L’ingresso è nascosto tra rami d’albero. Una volta dentro, le scarpe affondano tra calcinacci bagnati dalle infiltrazioni d’umidità, cavi e prese elettriche. Le pareti sono marce, i tetti pericolanti, per terra c’è di tutto.
Le cabine blindate con le centraline di trasmissione sono state sfondate: lo scenario è a metà tra un bombardamento e un terremoto. Qui, però, fino a 25 anni fa era tutto nuovo di zecca: “La maggior parte degli edifici ha strutture nuove dove non sono stati tolti nemmeno i nastri,” si legge in un articolo del Washington Post del 1989.
Sono più di 230 i milioni di dollari spesi dal Pentagono qui a Comiso per demolire le vecchie strutture—utilizzate dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale—e costruire una città.
L’avevano pensata letteralmente così. “Intendiamo costruire una città. Non solo una base dove mettere i missili GCLM, ma parliamo di costruire case, una chiesa, una scuola,” spiegò al Congresso, nel 1983, il repubblicano William Dickinson.
E in Congresso ci si interrogò più volte sulla necessità di costruire alloggi familiari e strutture scolastiche. Per il generale Clifton D. Wright, non costruire tutte le strutture progettate avrebbe “mandato un messaggio che dice che non siamo molto sicuri di quello che stiamo facendo e che stiamo ballando il tip-tap.”
Invece no. La Air Base di Comiso doveva essere un simbolo da esibire, con negozi e strutture di ogni tipo e senza badare a spese: una piscina da 680mila dollari, un negozio di ricambi auto da 440mila dollari, e scuole da 12,9 milioni di dollari per i figli del personale di stanza.
“Era una struttura all’avanguardia. Quando noi avevamo i tetti con le tegole, loro già avevano i pannelli solari,” racconta a VICE News l’architetto Vincenzo di Pasquale, autore di una tesi sulla base di Comiso.
“Un regalo molto costoso per il paese ospitante,” lo definì nel 1989 la democratica Patricia Schroeder, presidente della Commissione Servizi Armati della Camera USA.
Un regalo soprattutto per chi qui si mette comodo, butta giù il muro, trancia la rete e—incurante del fatto che questa sia zona militare—va a caccia di rame e trafuga di tutto.
Girando per la base si trovano cartoni di vino, resti di uova, scatolette di carne e bottiglie d’acqua. Qualcuno dentro la ex-caserma dei vigili del fuoco ha dimenticato una camicia.
Nessun edificio è stato risparmiato da furti e devastazione. Ci sono le insegne, ma il resto bisogna immaginarselo, guardando un vecchio video amatoriale girato da un militare nel 1990.
Della palestra restano soltanto i canestri, le gradinate, il tabellone con i punti e i poster ancora alle pareti con gli esercizi da svolgere. In chiesa ci sono solo le vetrate colorate e qualche lastra di marmo.
Del teatro resta il palco, le insegne d’emergenza e tre poltrone accatastate all’ingresso. Scritte colorate sulle pareti e il murales della squadra dei Comiso Cavaliers è quanto resta della scuola, dove i canali degli impianti rischiano di venire giù da un momento all’altro.
E poi ci sono le 480 residenze, dove abitavano i militari con le loro famiglie.
Entriamo anche in una di queste case, tutte uguali in tipico stile suburb: ingresso, quello che resta di una cucina, moquette per terra, armadi a muro e una veranda che porta nel backyard.
Ci sono ancora i bagni, perfettamente integri. C’è umidità ovunque, sui tetti e sui pavimenti. Qui nel 1999 durante la Missione Arcobaleno sono arrivati 5mila profughi dal Kosovo, per 4 mesi.
Da quel momento in poi la base è stata progressivamente abbandonata anche dal personale italiano civile e militare fino al 2005, quando a rimanere attivo è un servizio di presidio e controllo, revocato—come detto—nel 2013.
Lontano dalla zona residenziale era stata pensata l’Area Gama, la zona dove venivano custoditi i missili Cruise. Solo una parte dello shelter numero 8 è accessibile, quel che rimane è una cabina comandi, un segnale di pericolo, e tanta ruggine.
Anche qui sono stati scoperchiati tombini, e degli impianti restano solo le carcasse delle centraline con le pulsantiere tradotte in italiano e inglese.
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“L’ordine di lancio sarebbe dovuto arrivare da un sistema di comunicazione molto complesso che connetteva quattro centri di comando, inclusi Casa Bianca e i comandanti statunitensi in Europa,” si legge nei documenti di Laura Simich. Ma la telefonata che arriva l’8 dicembre del 1987 è un’altra.
A Washington, il presidente Ronald Reagan aveva firmato insieme al presidente dell’URSS Michail Gorbachev un accordo—il trattato INF—che prevedeva lo smantellamento dei rispettivi missili nucleari a medio raggio. Sono 2.692 missili in tutto, si legge sul sito del Dipartimento di Stato.
Da quel momento, Comiso diventa una “base senza missione,” scriveva il Washington Post. Le batterie di missili vengono trasferite a Sigonella, e da lì a Davis Monthan in Arizona. L’ultimo aereo carico di Cruise decolla il 26 marzo del 1991. Sei mesi dopo, con una cerimonia militare, gli americani tirano giù la bandiera a stelle e strisce e vanno via.
Come racconta la giornalista Molly Moore, nemmeno il comandante della base—il Colonnello Lester R. Willey—era a conoscenza di cosa ne sarebbe stato in futuro dell’area.
“Mi piacerebbe saperlo, non lo so,” rispose nel 1989. “È isolata, l’accesso è uno schifo, non c’è niente che ci si possa fare,” era l’opinione di un deputato del Congresso che Molly Moore definisce “conoscitore dei dibattiti sulle basi.”
La pista oggi è stata riconvertita per uso civile: c’è un aeroporto con numeri in crescita, ma il resto è sempre più irrecuperabile.
“Hanno portato via la condizione di città, di abitabilità di quel luogo. Un luogo dove c’era l’acquedotto, l’impianto di depurazione, gli impianti elettrici,” raccontano a VICE News gli architetti dell’Ordine di Ragusa.
Ad ottobre scorso hanno organizzato un workshop dal titolo “Air Place Visioning”, dove si sono discusse idee e proposte per riqualificare l’area ancora sotto la competenza dell’aeronautica, ed espandere l’aeroporto.
“Vogliamo portare turismo in questo luogo,” raccontano. Otto i progetti presentati: la linea comune è quella “togliere il cemento e riportare la natura,” ripensare le aree verdi, creare poli didattici e un museo della Guerra Fredda.
O ancora, sfruttare le potenzialità della pista—lunga 2.538 metri e larga 45—per farne scalo cargo adibito al trasporto merci.
Una pista che secondo l’architetto Maria Antonietta Esposito, docente di “Gestione del Progetto per gli Aeroporti” all’Università di Firenze, è “perfettamente attrezzata sul piano delle dotazioni tecnologiche, e potrebbe ospitare anche aerei ad alta capacità e lungo raggio.”
La professoressa Esposito, dopo aver effettuato un sopralluogo all’interno della base, ha presentato la sua idea durante il workshop. Per far rivivere l’area—spiega a VICE News—”ci si potrebbe ispirare al concetto di aerotropoli,” ovvero un aeroporto come lo “Schipol ad Amsterdam, intorno al quale si sono insediate molte attività rilevanti che si avvantaggiano della prossimità del servizio aereo.”
O ancora, si potrebbe guardare allo scalo di Hyderabad, in India, dove “l’aeroporto è anche gestore autostradale e sviluppatore urbano delle aree circostanti, e dove si sono localizzate attività correlate come spedizioni merci, servizi sanitari internazionali, officine high-tech.”
“Siamo disponibili a fare nostro qualsiasi progetto serio di riqualificazione, finanziato da privati o dall’Europa, e aprire anche un tavolo di discussione con l’aeronautica militare e la Regione,” spiega a VICE News il sindaco di Comiso Filippo Spataro.
Senza finanziatori esterni “non ha senso che il Comune si prenda carico di questa area,” precisa. “Non abbiamo le risorse anche solo per controllare la zona e prendercene cura.”
Dall’altra parte, fonti del ministero della Difesa assicurano a VICE News come sia “stata data la disponibilità alla cessione della rimanente zona agli enti locali.” Ma in attesa di capire chi—e quando—prenderà in mano la situazione, quest’area rimane ancora oggi prigioniera della sua storia: una “città straniera che parlava un’altra lingua, pragmatica e tecnologica” e che “ora è muta ed incomprensibile,” come la descrive l’architetto Esposito.
“Non hanno idea di cosa farsene di Comiso,” disse nel 1989 un deputato del Congresso americano. Ed è ancora così.
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