Alla fine degli anni Settanta, giornalisti e osservatori occidentali coniarono un termine per descrivere una tecnica usata dall’Unione Sovietica all’apice della Guerra Fredda. Esempio: il governo americano accusa l’Urss di violare i diritti umani dei suoi cittadini; risposta della propaganda: “E allora i neri linciati in America?” Quella tecnica prendeva il nome di whataboutism, e da allora nel mondo anglosassone è impiegato come una variante della fallacia logica del tu quoque: ossia il tentativo di screditare la posizione dell’interlocutore accusandolo di ipocrisia, senza però confutare la sua argomentazione.
A quanto pare, questo tipo di difesa retorica era stata talmente abusata dal regime sovietico da finire nelle barzellette politiche dell’epoca. E la situazione non è molto diversa da quanto accade sui social oggi, dove per ogni contenuto su un argomento più o meno sensibile è matematico ritrovare commenti come “E ALLORA < INSERIRE ARGOMENTO CHE NON C’ENTRA NULLA CON QUELLO DI CUI SI PARLA, MA VA BENE PER BUTTA IN VACCA LA DISCUSSIONE >?”
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In Italia questa strategia è spesso descritta con un neologismo in uso dagli anni Ottanta, “benaltrismo”, che indica un espediente retorico per eludere un problema sostenendo che ce ne sono “ben altri,” e più gravi, da affrontare. Per tutti gli anni Novanta l’accusa di “benaltrismo” è stata rivolta al centrosinistra, specialmente sull’immigrazione, insieme a quella di “buonismo.” Il termine è diventato di uso comune nei Duemila, quando la strategia è stata adottata trasversalmente dalla politica; i talk show e i social hanno fatto il resto.
Ora il fenomeno ha assunto dimensioni gigantesche—andando probabilmente oltre il “benaltrismo” in senso stretto. Alcuni di questi “E allora?” sono stati sfruttati talmente tante volte da essere assurti al rango di meme: è il caso dei celeberrimi “e allora le foibe?”, “e allora i marò?” (rispolverato l’anno scorso dopo la vicenda della Sea Watch) o “e allora Bibbiano?”.
Altri, per l’appunto, sono la moneta corrente del dibattuto politico e delle discussioni online. Un terrorista di estrema destra fa un attentato: e quelli islamici, allora? La riforma della legge sulla cittadinanza è necessaria: e gli italiani che dormono in macchina? La Lega potrebbe aver preso finanziamenti dalla Russia: e i fondi dei sovietici al Pci? Chiudono le discoteche per evitare l’aumento dei contagi di coronavirus: e allora i centri sociali? Si potrebbe andare avanti all’infinito.
“C’è sicuramente un elemento di novità legato ai mezzi,” mi dice al telefono Federico Faloppa, professore di storia della lingua italiana dell’Università di Reading e autore del saggio #ODIO. Manuale di resistenza alla violenza delle parole. “Ma c’è anche un elemento di continuità: perché tutto ciò fa parte dell’insieme delle fallacie argomentative che codifichiamo da molto tempo, a partire dalla retorica classica per arrivare a quella del ventesimo secolo.” L’aspetto significativo di questo whataboutism all’italiana (chiamiamolo pure “_eallorismo,_” sperando che l’Accademia della Crusca ci perdoni) è che combina più espedienti retorici in un colpo solo.
Per spiegarne il funzionamento, il docente menziona i meme sull’abbronzatura di Luigi Di Maio, tutti incentrati sul fatto che il ministro degli esteri era talmente scuro da sembrare nero, e che lo stesso ha poi ripreso sui social per mostrarsi spiritoso (tra cui uno con Michael Jordan e una scena di Totòtruffa ’62). Come hanno notato in diversi, tra cui la scrittrice Igiaba Scego, alcuni meme giocavano apertamente con la blackface (pratica notoriamente razzista) e più in generale erano la spia del fatto che “in Italia si pensa che fare le battute sulla pelle nera sia divertente. Ve lo dico da nera italiana: non è divertente, è molto offensivo.”
Il semplice atto di sottolineare l’inopportunità politica di rilanciare certi contenuti, soprattutto in un momento storico come questo, ha scatenato reazioni di ogni tipo. Le più gettonate erano di questo tenore: “non è razzismo, ormai vedete il razzismo ovunque,” accompagnato da “il vero razzismo è un’altra cosa” (senza mai specificare cosa); “ora state davvero esagerando”; o “e allora anche Totò era razzista?”
Nel primo caso c’è una negazione del problema che mira a chiudere il dibattito, rafforzato dall’argomento fantoccio (“vedi razzismo ovunque, e quindi sei tu il vero razzista”) che travisa volutamente la posizione dell’interlocutore e non entra mai nel merito. Nel secondo invece si è di fronte ad un’affermazione ad hominem, cioè un attacco alla persona: sostenere di aver “esagerato” o di essere “ossessionati” è un’“arma retorica di fine mondo,” un po’ come “buonista” o “politicamente corretto”: nel senso che d’ora in avanti, dice Faloppa, “non è più possibile una discussione.”
Nel terzo, infine, c’è una ipersemplificazione. Nessuno ha detto che Totò è razzista; farlo notare è un modo di ridicolizzare l’argomento di un altro. “Sono tutte strategie interessanti,” prosegue il docente, “perché chi ti attacca ti lascia l’onere delle prova: è come ti mettesse all’angolo di un ring, costringendoti a uscirne in qualche modo.”
L’ambito in cui gli “e allora?” dominano incontrastati è quello legato all’immigrazione, con picchi assoluti quando si parla di salvataggi in mare. Tant’è che su ogni notizia o opinione sul tema si rovesciano addosso commenti di questo tipo: “perché dobbiamo accoglierli tutti in Italia?”; “perché non te li prendi a casa tua?”; “e i terremotati italiani?”
Per descrivere questi casi, Faloppa parla di loaded question (o fallacia della questione complessa), ossia una domanda che cerca di orientare già la risposta. In pratica, chi ne fa ricorso “ti gira in forma di interrogativo una cosa che non hai detto, svia l’attenzione e crea polarizzazione.” Aiutare i migranti non significa automaticamente abbandonare i terremotati. E parlare di canali d’ingresso legali, o criticare le attuali politiche migratorie, non equivale a dire “bisogna accogliere tutti” o “dobbiamo accoglierne solo qualcuno”; è un ragionamento ulteriore e fuorviante. “Entri in un’agenda che non è la tua,” spiega il docente, “e questa loaded question ti porta in una polarizzazione estrema, mentre il tuo ragionamento era più raffinato.”
Un discorso analogo si può fare in riferimento alla violenza di genere. Se si citano i dati dell’Istat su femminicidi e violenza fisica e sessuale nei confronti delle donne, automaticamente c’è chi chiede “e i dati sulla violenza contro gli uomini?” (sul sito dell’Istat per ora sono facilmente rintracciabili quelli relativi a molestie e ricatti sessuali sul lavoro su uomini e donne)—cercando dunque di ridimensionare il fenomeno, e spostando a spallate l’oggetto della discussione.
Similmente, qualsiasi discussione sull’uso dell’asterisco egualitario e di un linguaggio più inclusivo sarà deriso con argomentazioni quali “se non usi l’asterisco sei sessista e fascista” e sepolti da commenti del tipo: “occupatevi di cose più serie” o “il vero femminismo è un’altra cosa” (senza mai specificare cosa sia il “vero femminismo”).
Eppure, mi dice Faloppa, “le questioni linguistiche non sono affatto slegate dalla realtà, perché rientrano nei processi sociali e culturali di inclusione ed esclusione.” L’“eallorismo” sposta però l’attenzione su un singolo argomento, che di solito ricade in una cornice politica e narrativa ben precisa.
Tutto ciò non nasce all’improvviso, ma ha avuto una fase di gestazione molto lunga. Dagli anni Ottanta in poi, spiega il docente, le destre in vari paesi hanno iniziato a costruire specifici frame su sicurezza, immigrazione, economia e altro. Dopo decenni di sforzi enormi, questi frame sono effettivamente diventati maggioritari, lasciando agli avversari politici la possibilità di “maneggiarli un po’ meglio degli altri.” Di fatto però è difficile sganciarsene, e quando succede “ecco che ci sono vari tentativi di riportarti nel frame principale, perché da quello non puoi scappare.”
A questo fine, le fallacie di cui abbiamo parlato finora si rivelano molto efficaci—soprattutto quando vengono usate in dibattiti rapidi e polarizzanti, che possono svolgersi su Instagram o in un talk show televisivo, in cui non c’è troppo spazio per un ragionamento complesso. “Chi vuole sviare il ragionamento, semplificare e metterti in bocca cosa che non hai detto, lì ha gioco facile,” dice Faloppa, “e siamo di nuovo in difesa.”
Non sta scritto da nessuna parte, però, che si debba restare per sempre nell’angolo; esistono comunque vari modi di controbattere a queste tecniche. Quando ci sono insulti più o meno velati, ad esempio, ignorare è quello più istintivo. Non sempre però il silenzio funziona: in alcuni casi, spiega il docente, “ignorare può fare il gioco di chi usa questi metodi, generando l’impressione di non sapere cosa rispondere.”
La verifica dei dati e delle fonti può venire in soccorso, ma spesso chi ti attacca in maniera superficiale non se ne fa nulla del fact-checking. Secondo Faloppa, è meglio tenere il punto e sottolineare le debolezze dell’avversario, senza diventare troppo aggressivi.
In alternativa, a volte si può ribaltare l’accusa “riformulandola sotto forma di domanda.” Se qualcuno dice che sei “ossessionato dal razzismo,” si può chiedere (in maniera educata) cosa si intende per “razzismo,” visto che magari non usiamo la parola allo stesso modo. “Qui sei tu a dare all’altra persone l’onere della prova, è questa che deve dimostrare qualcosa,” puntualizza il docente. “Se si aprono delle brecce di ragionamento, allora vale la pena insistere.”
In generale, l’obiettivo finale di whataboutism e benaltrismo è far deragliare la discussione, o comunque restringerla in un percorso binario: o è bianco, o è nero. Ma nella realtà non è mai così; bisogna quindi continuare a tenere il punto e difendere il proprio ragionamento, anche se spesso—di fronte al millesimo “e allora …?”—viene voglia di lanciare il cellulare contro un muro.