Di Benso ho sentito parlare dal momento in cui ha aperto, a dicembre 2017. I colleghi andavano da Benso. Gli amici andavano da Benso. I vicini di casa andavano da Benso. E tutti ne tornavano entusiasti. Eppure Benso per me presentava un grosso problema di origine geografica: era a Forlì. Ovvero dall’altra parte della mia personale linea Maginot, quella che divide l’Emilia dalla Romagna e mi fa tracimare il campanilismo da bolognese. C’era sempre un altro ristorante da provare, un’altra gitarella da organizzare, qualcosa da mettere prima in agenda.
Alla fine a Forlì ci sono andata. Però da Don Abbondio, un’Osteria Slow Food che rientra perfettamente nei canoni della trattoria contemporanea, quella che sta (fortunatamente) punteggiando la nostra penisola: si mangia tradizionale, ma alleggerito; semplice, ma pensato; verace, ma ben presentato. Ho postato una Stories e subito, nei miei DM (tutte le favole del 2019 cominciano così), è comparso un messaggio di Simone Zoli, il proprietario di Benso, che mi ha domandato perché fossi a Forlì e non fossi da Benso. Non preoccupatevi, non c’è pubblicità negativa o conflitto di interessi: Simone è proprietario di Benso e di Don Abbondio.
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E così nel centro di Forlì è spuntato questo chiosco futuristico, metà in muratura e metà in vetrata, 50 metri illuminati e arredati con un design moderno ed essenziale
Nel giro di due settimane sono tornata a Forlì – e stavolta mi sono seduta a un tavolo di Benso insieme a Simone. Davanti a noi i primi due, coloratissimi piatti della nostra cena. Da una parte un Carpaccio di rapa bianca marinato nel thai basil con zenzero candito, capperi, pompelmo e pasta di foglie di basilico. Dall’altra la Tartare di verdure infornate (rapa rossa, rapa bianca, sedano, carota e cipolla) con tahina, sommacco e mollica di pane al limone. Questo, mi spiega Simone, è uno di quei piatti che rimangono in menu sempre – modificando gli ingredienti principali di stagione in stagione. Due note iniziali ben esemplificative della cifra stilistica di Benso: una forte SPINTA vegetale, spigolature amare e acide, presentazioni cesellate al dettaglio. Il perché di questa cifra stilistica lo vedremo tra poco.
Nel frattempo Simone mi racconta la sua storia. Ha frequentato l’istituto aeronautico, ma quasi subito in lui ha prevalso la passione per il vino, e dopo la gestione di alcuni locali è passato, nel 2001, alla creazione di Don Abbondio. La storia di Benso, invece, parte nel 2017.
In realtà inizia molto prima – forse potremmo addirittura farla risalire al 1978, quando nasce Maicol Ravaioli e, nello stesso anno, i suoi genitori aprono il Big Bar, oggi un punto di riferimento per i forlivesi. Ci si beve il Cynar con il Crodino, ci si gioca a Maraffone e la sera si fa l’aperitivo di paese, quello “per farsi vedere”. Un bar di provincia, insomma, ancora frequentato dai nipoti dei primi clienti, dove la mamma di Maicol sforna ancora i suoi famosi scrocchiadenti noci e gorgonzola e prepara la giardiniera con le sue mani, e allo stesso tempo un bar con una cantina che molti ristoranti invidierebbero e una selezione certosina del prodotto.
L’idea di aprire un posto insieme è nata a Maicol, Simone e un altro amico, Jacopo Valli, proprietario della Locanda Appennino. Una facciata da ristorante di campagna anni Settanta, una cucina solidamente romagnola, una filosofia a “km zero meno” – i formaggi, tipo, vengono da un caseificio dall’altra parte della strada. “Ognuno fa le cose che gli vengono meglio,” spiega Simone. Per questo definiscono Benso un “progetto collettivo di pubblica ristorazione”.
La scelta del luogo dove aprire Benso è stata a dir poco curiosa: un chiosco del 1980 all’interno dei Giardini Orselli. E così nel centro di Forlì è spuntato questo chiosco futuristico, metà in muratura e metà in vetrata, 50 metri illuminati da lampade di Viabizzuno e arredati con un design moderno ed essenziale, ancora più bello perché così incongruo, qui, in uno spiazzo in cui ci vedresti solo una baracchina a vendere gelati ai bambini. Non mancano i dettagli più scandinavi (se chiedete a me non ci sono mai abbastanza dettagli scandinavi in un ristorante): le ceramiche dai toni freddi della cooperativa Eta Beta, le posate nel cassetto a scomparsa sotto il tavolo.
L’ultimo tassello di Benso è Piergiorgio Parini. Ora, voi dovete capire che per gli appassionati di alta ristorazione, quella ristretta e pericolosa cerchia di persone disposta a farsi centinaia di chilometri per mangiare a un ristorante, il nome di Parini è leggenda. Un unicorno del fine dining, ecco. Lo chef è stato per anni alla guida delle cucine del Povero Diavolo, una stella Michelin sul cocuzzolo di Torriana, in provincia di Rimini. Nel 2016 se n’è andato, ma attenzione!, non per aprire un altro ristorante: ha pubblicamente affermato di non voler aprire un ristorante. Mi è capitato personalmente di intervistarlo ed è sembrato davvero contento della sua scelta, decisamente controcorrente in un mondo in cui ogni chef si affanna ad aprire il proprio posto, anche quando non sembrano esserci le condizioni giuste, anche quando, anzi, tutte le condizioni sembrano essere sbagliate. Ora Parini fa consulenze ad aziende o a ristoranti, come Benso appunto, e sembra divertirsi un sacco.
Ai fornelli ci sono i giovani Matteo Milandri e Davide Gumbranin, ma Parini stesso è in cucina almeno una volta a settimana, guidando la rotazione di un menu che cambia continuamente. Menu in cui il vegetale è protagonista, appunto, ma non assoluto: sul tavolo si alternano anche Verza con latte e fumetto di pesce, bottarga e verza, le Costine spruzzate con tequila sale e limone e gli strepitosi Bottoni di aringa con mascarpone, ricotta e fave di cacao. Piatti che fanno godere, ma con la mente aperta e recettiva. Piatti per tanti, non per tutti. Come i prezzi: 65 per IperBenso, il degustazione più lungo, mentre gli altri vengono proposti rispettivamente a 50 e a 55 con abbinamento vini a 36. A pranzo c’è la formula 20 euro con due piatti, bicchiere di vino, acqua e caffè.
La mia cena si conclude con il Riso al latte e vaniglia, feioa crema al vermouth e ricotta, che è più o meno l’epitome del dessert che vorrei mangiare sempre. Benso, invece, è l’epitome del ristorante dove vorrei mangiare sempre. Tutto il giorno, tutti i giorni.
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