Quando voi e io guardiamo una montagna accanto alla superstrada, vediamo una serie di picchi maestosi. Ma se la guarda Kirk Johnson, ci vede centinaia di milioni di anni di storia. Negli strati di roccia e di detriti di cose una volta in vita, lui può tracciare il lento e impercettibile lavoro dell’evoluzione e del tempo geologico e riconoscere gli shock lasciati dalle cinque estinzioni che hanno cancellato ogni volta quasi tutta la vita presente sulla terra nell’ultimo mezzo miliardo di anni.
Johnson è un paleobotanico e geologo, ed è il direttore del National Museum of Natural History dello Smithsonian. Mi ha spiegato il lungo arco dei cambiamenti fisici della terra—e il suo interesse per le rocce— mentre passeggiavamo tra i diorami in vetrina e gli scheletri di dinosauri che hanno reso il suo museo uno dei migliori al mondo.
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“I musei sono fatti per tenere traccia della vita sul nostro pianeta: fossili, rocce e specimen,” mi ha detto. “Finiscono tutti nei musei, e qui è dove la nostra cultura registra tutte le stranezze che sono capitate negli ultimi 5, 4.6 o 4.7 miliardi di anni alla Terra.”
Dalla metà del Ventesimo secolo, gli scienziati hanno sviluppato metodi altamente accurati per datare la nascita—e la fine—delle specie e teorizzare come il mondo è diventato quello che è: come si sono separati i continenti, i modi particolari in cui le piante e gli animali sono distribuiti per il globo. La datazione al Carbonio 14 e la teoria della deriva dei continenti sono arrivate solo negli anni Cinquanta, ha detto Johnson. Così come i vari metodi per discernere come e perché durante gli ultimi 4,5 miliardi di anni la maggior parte della vita sulla terra sia sparita. “Tutti questi strumenti ci hanno permesso di raccontare come il pianeta è cresciuto mentre io crescevo,” ha detto Johnson. “E l’ultima cosa che è entrata nella coscienza collettiva delle scienze,” ha aggiunto, “è che gli umani possono avere un impatto sul pianeta.”
Johnson stava parlando dell’Antropocene—l’era dell’uomo, forse il tema di dibattito più significativo al momento sul rapporto tra uomo e natura.
Le trasformazioni apportate dall’uomo al pianeta sono così visibili che Johnson e altri ricercatori sostengono che siamo entrati in una nuova fase della storia della Terra. Non siamo più nell’Olocene, il periodo relativamente caldo che è iniziato con lo scioglimento dei ghiacciai 12.000 anni fa. Questo perché la fine dell’era glaciale e la prolificazione degli umani per i continenti, il nostro modo di coltivare, le città, le energie per la produzione, i nostri mezzi di trasporto, la nostra plastica e i nostri test nucleari hanno alterato la composizione biologica e chimica di aria, acqua e terreno—e hanno anche lasciato un’impronta che qualcuno ritiene immutabile alla geologia della Terra. L’aumento esponenziale di questo genere di cambiamenti potrebbe aver portato alla sesta grande estinzione della storia del nostro pianeta.
l fatto che gli umani possano segnare irrimediabilmente l’ambiente non è cosa nuova. Nel 1854 Thomas Jenkyn coniò il termine che definisce l’impatto delle attività umane a livello geologico: antropozoico. Nel suo libro Man and Nature , pubblicato nel 1864, il politologo George Perkins Marsh ha scritto che spogliando la terra dagli alberi, l’umanità ha portato a una serie di disturbi ecologici che di contro hanno portato a una diminuzione delle capacità delle società di crescere e prosperare. Il chimico svedese Svante Arrhenius scoprì nel 1895 che se fossero aumentare le concentrazioni di anidride carbonica, sarebbe aumentata anche la temperatura della superficie terrestre.
All’inizio del Ventesimo secolo, il geochimico ucraino Vladimir Vernadsky e due francesi—Pierre Teilhard de Cardin e Édouard LeRoy—proposero il termine noosfera per descrivere la crescente influenza dell’innovazione tecnologica umana nei cambiamenti dell’ambiente.
Nel 2000, il premio Nobel olandese Paul Crutzen e il suo collega Eugene Stoermer fecero notare in un numero della Global Change Newsletter che l’influenza umana sul mondo fisico era arrivata a un punto tale per cui si doveva parlare di una nuova era geologica.
La popolazione umana, dicevano, è cresciuta a dismisura negli ultimi tre secoli, e anche il numero di animali allevati è arrivato a quasi 1,4 miliardi. Anche l’urbanizzazione è cresciuta a dismisura durante il Diciannovesimo secolo, e questa crescita avrebbe consumato le forniture di combustibili fossili che avevano richiesto centinaia di milioni di anni per formarsi. Gli umani hanno introdotto il fertilizzante a base di azoto, scrivevano, e (facendo eco a Marsh) hanno trasformato il 50 percento della superficie terrestre. Si parla di migliaia di specie estinte. I gas serra sono aumentati in modo sostanziale nell’atmosfera, e altri agenti inquinanti hanno bucherellato lo strato di ozono.
Il loro elenco sembra una scheda tecnica da una scena del crimine. Ma il terreno su cui queste trasgressioni sono state compiute non è una strada isolata di periferia, ma il nostro pianeta, e ha toccato le proprietà biologiche, chimiche e fisiche del pianeta su cui viviamo.
“Considerando questi e molti altri effetti gravi delle attività umane sulla Terra e nell’atmosfera,” hanno scritto, “sembra più che appropriato enfatizzare il ruolo centrale dell’umanità nella geologia ed ecologia, perciò proponiamo di utilizzare il termine ‘antropocene’ per l’attuale era geologica.”
La coppia non ha solamente descritto le caratteristiche dell’era dell’uomo. Hanno anche proposto come data di inizio il tardo Diciottesimo secolo, specificatamente con l’invenzione del motore a vapore di James Watt nel 1784, che è stata fondamentale per la Rivoluzione Industriale.
L’emergere dell’influenza dell’umanità sulla natura è stata così repentina, hanno concluso, che è molto probabile che questi cambiamenti siano di tipo permanente.
“Se non si verifica una catastrofe importante come un’enorme eruzione vulcanica, un’epidemia inaspettata, una guerra nucleare su larga scala, l’impatto di un asteroide, una nuova era glaciale, o il continuo depredare le risorse della Terra per l’uso di tecnologie ancora primitive,” hanno detto, “l’umanità resterà ancora una forza geologica per molti millenni, anche per milioni di anni a venire.”
Per molti scienziati, compreso Kirk Johnson, la questione non è più se esiste l’antropocene, ma quando è iniziato. È iniziato, come dicono Crutzen e Stoerme, all’alba della Rivoluzione Industriale, oppure in un altro momento?
L’International Commission on Stratigraphy si occupa proprio di prendere questa decisione. È quel tipo di organizzazione di cui nessuno ha mai sentito parlare, un gruppo oscuro con dei sottocomitati che si occupano di stratigrafi a precambriana, stratigrafi a ordoviciana e stratigrafi a giurassica, tra le varie ere geologiche.
Probabilmente l’anno prossimo il comitato dell’ICS deciderà se utilizzare formalmente il termine antropocene e da quando farlo partire.
Jan Zalasiewicz è un docente universitario di paleobiologia all’Università di Leicester e tra i membri dell’ICS che sta valutando la validità dell’era dell’uomo. “Sai la barzelletta sui geologi,” mi dice. “Metti tre geologi in una stanza e avrai cinque diversi approcci a una questione. Con l’antropocene stiamo valutando la somma delle azioni umane, e i geologi non sono molto bravi a giudicare le azioni umane.”
Ma sono molto bravi a guardare le rocce. E sulle rocce hanno identificato le tracce dell’attività umana, nello specifico le radiazioni dovute ai test delle armi atomiche. È stato un punto di svolta secondo Zalasiewicz, che insieme agli altri membri del comitato sostiene che il 14 luglio 1945, data del primo test nucleare, debba essere considerata la data di inizio dell’antropocene. L’era atomica ha portato a una nuova forma di energia—e una nuova fonte di rifiuti che possono durare per migliaia di anni. E quel giorno di luglio coincide con molti dei fenomeni elencati nel testo di Crutzen e Stoermer: esplosione della popolazione umana, concentrazione di gas serra nell’atmosfera, estinzione di specie e produzione di cemento, plastica e metalli—a cui ci si riferisce come “Grande Accelerazione”.
Simon Lewis e Mark Maslin dello University College di Londra hanno scritto sul numero di marzo di Nature che la data di nascita dell’antropocene può essere il 1610 o il 1964. Per loro il mix tra Vecchio e Nuovo Mondo iniziato nel 1492 è stata la più grande riorganizzazione dell’umanità da 13.000 anni e ha portato a un enorme cambiamento dello scambio biologico mondiale tra piante e specie animali. Lo “Scambio Colombiano” è stato un punto di svolta. Piante del Vecchio Mondo come la canna da zucchero e il grano sono arrivate nei nuovi terreni dell’America, mentre le piante del Nuovo Mondo come il granoturco, le patate e la manioca sono arrivate in Europa, Asia e Africa. È stata una riorganizzazione globale senza precedenti.
Ha anche portato a una forte diminuzione della popolazione umana. Il numero di abitanti nelle Americhe è sceso da 61 milioni di persone stimate nel 1492 a circa 6 milioni nel 1650 a causa delle malattie, delle carestie, della schiavitù e della guerra. Meno persone significava meno produzione agricola e meno distruzione di foreste per creare spazi coltivabili. Questo ha portato, secondo Lewis e Maslin, a una grande espansione della biomassa nelle Americhe. Con un paesaggio pieno di alberi e arbusti, più anidride carbonica veniva presa dall’atmosfera, e tra il 1570 e il 1620 i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera sono calati.
L’arrivo del polline del Nuovo Mondo in Europa e la flessione dell’anidride carbonica hanno fornito il marker geologico per segnare l’inizio dell’antropocene, così dicono. Ma come Zalasiewicz, Lewis e Maslin, hanno individuato l’aumento della radioattività dai test nucleari come un possibile confine tra le ere geologiche. Invece di segnare come data iniziale quella del primo test—14 luglio 1945—segnalano come possibile inizio dell’antropocene il 1964, quando all’interno di tronchi d’albero sono stati rintracciati livelli di carbonio radioattivo.
Che differenza fa se l’influenza dell’uomo sul pianeta è iniziata 12.000, 500 o 50 anni fa, vi chiederete. Per Lewis e Maslin, la definizione potrebbe fare la differenza nella nostra interpretazione di quello che sta modificando irrimediabilmente e senza precedenti l’ambiente globale.
“Il [calo dell’anidride carbonica nell’atmosfera] implica che il colonialismo, il commercio globale e il carbone sono causa dell’antropocene,” spiegano. “Scegliere la bomba significa invece raccontare una storia di sviluppo tecnologico portato avanti da un’élite che minaccia di distruggere il pianeta.”
Tornando allo Smithsonian, Johnson è preoccupato su cosa raccontare alle persone—dopotutto il suo museo è frequentato da milioni di visitatori ogni anno. Il modo in cui Johnson e il suo staff decidono di raccontare 4,5 miliardi di storia della Terra ha un impatto sulla percezione dei giovani e degli anziani che ogni giorno partecipano attivamente a discussioni di vario tipo su dinosauri, estinzione, cambiamenti climatici e il futuro della civiltà.
“Il tasso attuale di estinzioni è straordinario— è alla pari delle cinque grandi estinzioni—e la cosa incredibile è che siamo noi a causarla. Non c’è dubbio,” dice Johnson, accompagnandoci di fronte a un affresco degli anni Settanta.
La scena male illuminata è ambientata 15.000 anni fa in quello che ora è l’Alaska, dice. Mammut e mastodonti, un Cervalces Scotti, leoni americani, un orso dal muso corto e un bue muschiato pascolano nella tundra verde e marrone macchiata di neve. È una rappresentazione, spiega Johnson, della fine dell’ultima era glaciale, quando gli uomini hanno iniziato a comparire per i continenti, il periodo noto come Olocene.
Johnson ci fa notare un punto in alto a destra del murale, dove quattro uomini con le lance accerchiano un bradipo terricolo gigante. “Nel Nord America, le persone sono arrivate circa 13.000 anni fa,” dice, “e poco dopo hanno cominciato a comparire i mammut con le punte di lancia conficcate nel corpo. E poco dopo ancora, non c’erano più mammut.
“Siamo sulla buona strada per far scomparire gli elefanti, i rinoceronti bianchi, le tigri. Siamo sulla buona strada per far scomparire molte grandi specie,” dice. “Ma siamo anche sulla buona strada per eliminare molte cose più piccole. Negli ultimi cento anni abbiamo perso la tigre della Tasmania, certi tipi di antilope. Iniziate a metterle insieme, e un centinaio di anni non sono molto tempo nell’arco della storia geologica, e il tasso di estinzioni continuerà a salire.”
E tutti questi cambiamenti, dice, sono dovuti al diretto impatto dell’uomo: deforestazione, bracconaggio, predatori privati delle loro prede. Ma ci sono anche gli impatti indiretti: i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera, l’inquinamento degli oceani.
“Ci sono il doppio delle persone sulla Terra ora di quando sono nato io, e se stai cacciando di frodo, mangiando un hamburger o guidando un’auto, stai contribuendo all’antropocene,” dice.
È per un innato bisogno dell’uomo di uccidere, per l’arrivo della produzione capitalista o per l’esplosione della popolazione umana—e bovina? Non ha risposto.
“Noi come esseri umani possiamo cambiare il corso della storia verso un esito più piacevole, o verso una fine meno piacevole,” dice. “Gli ultimi 50 anni hanno dimostrato che l’uomo può cambiare il pianeta. Ora dobbiamo solo decidere se in meglio o in peggio.”