Questo post fa parte della nostra settimana della salute femminile, una serie di contenuti sulla salute delle donne e sull’importanza della libertà e l’autodeterminazione di ognuna nel governarla.
Ho scritto per la prima volta di violenza ostetrica nel 2016, dopo il caso degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria, dove quattro medici—incluso il primario di ostetricia e ginecologia—erano stati arrestati, e altre sette persone sospese dall’esercizio della professione per aborti colposi, morti sospette, lesioni, maltrattamenti e falsificazione di cartelle cliniche.
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Sono passati due anni, e da allora si è cominciato a sentir parlare sempre più spesso del fenomeno dei maltrattamenti e degli abusi ai danni delle madri anche in Francia, in Spagna, nel Regno Unito. È anche per questo motivo che abbiamo deciso di affrontare il fenomeno con un video, incontrando madri, ostetriche, associazioni e legali che si battono affinché la violenza ostetrica sia riconosciuta e sanzionata.
Già nel 2014, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) denunciava come, in tutto il mondo, molte donne siano vittime di trattamenti “irrispettosi, negligenti o abusanti” durante il parto in ospedale. Tra questi, l’OMS evidenziava non solo l’abuso fisico diretto o la trascuratezza nell’assistenza medica, ma anche la profonda umiliazione, il rifiuto a offrire un’adeguata terapia per il dolore, e la mancanza di riservatezza o di un consenso realmente informato.
“Il problema culturale con il quale noi ci confrontiamo è che è sufficiente sopravvivere al parto,” mi ha fatto notare Alessandra Battisti, avvocata e attivista che abbiamo contattato per il documentario. “[Ma] io non penso che chiedere di essere rispettata sia una richiesta così straordinaria da parte della donna,” aggiunge.
Battisti, che in passato ha subito un cesareo senza che vi fossero motivazioni mediche, è una delle co-fondatrici dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia, nato proprio nel 2016 in seguito alla campagna social #BastaTacere: Le madri hanno voce, con la quale erano state raccolte oltre un migliaio di testimonianze anonime.
“[Dopo questa campagna] abbiamo ritenuto opportuno commissionare, al fine di produrre una ricerca statisticamente significativa, alla Doxa la ricerca dal titolo ‘Le donne e il parto’ volta ad indagare il fenomeno della violenza ostetrica all’interno del nostro paese,” spiega Battisti.
I risultati dell’indagine, pubblicati lo scorso settembre, hanno rivelato che, a fronte di una maggioranza che ritiene di aver ricevuto un’assistenza adeguata, quattro donne su dieci dichiarano di aver vissuto esperienze lesive della propria dignità personale e della propria integrità psicofisica, durante il parto o il travaglio; addirittura, il 21 percento del campione avrebbe subito una qualche forma di violenza ostetrica: circa un milione di madri negli ultimi 14 anni. Per alcune, il 6 percento, l’esperienza del parto sarebbe stata talmente traumatica da convincerle a non voler affrontare una seconda gravidanza.
Insieme a Battisti, nel documentario ho incontrato Carla, pediatra e madre. “Io stavo bene, il bambino stava bene, era solo questione di aspettare, non so, un’ora in più e avrei partorito da me,” ricorda, parlando del suo primo parto, cinque anni fa. Un parto segnato non solo dalla poca empatia da parte del personale sanitario, ma che le ha causato una lacerazione così importante da richiedere tre vaginoplastiche ricostruttive. “[Senza che ci fosse necessità medica,] c’è stata questa fretta di creare un parto aggressivo, per cui il bambino è stato sparato fuori con una grande forza e mi ha lacerato completamente,” spiega.
Costretta a letto per mesi, ai problemi di salute si sono aggiunti quelli lavorativi e coniugali, sfociati poi nella fine del matrimonio. Soltanto dopo essersi rivolta a un’associazione di madri che si occupava di racconti del parto Carla ha capito che quello che aveva vissuto–e che fino ad allora non era riuscita definire—era un’esperienza, gravissima, di violenza ostetrica.
Sebbene il fenomeno sia stato già riconosciuto anche da parte del personale sanitario—inclusa un’ostetrica che ha accettato di apparire in video, in forma anonima—abbiamo incontrato chi contesta apertamente l’indagine Doxa e il termine ‘violenza ostetrica’.
“Se noi consideriamo che chi ha subito le [episiotomie], chi ha fatto il cesareo ha subito violenza, allora non c’è bisogno di fare nessuna indagine, sappiamo che il 70-80 percento delle donne che ha partorito in Italia ha subito violenza, punto. Ma non è così, non è questo il problema,” sottolinea Elsa Viora, presidente dell’Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI).
Bisogna lavorare per arrivare ad una medicina di condivisione, sostiene Viora: “Dobbiamo pensare a fare delle indagini sul gradimento, sulla qualità percepita, sul coinvolgimento delle donne in modo prospettico, non a posteriori. Noi possiamo essere convinti di avere avuto un ottimo risultato, perché si è evitata una grave conseguenza o addirittura la morte,” continua Viora, “e magari la donna ha percepito tutto questo come evento negativo.”
In Italia, sul modello di paesi come Argentina, Venezuela e Portorico, nel 2016, era stata presentata una proposta di legge che avrebbe introdotto il reato di violenza ostetrica, ma con le ultime elezioni la proposta è decaduta, ed è difficile capire se verrà presentata nuovamente. Al momento, uno degli strumenti disponibili a tutela delle donne è il cosiddetto “piano del parto”, un documento che può essere proposto alla struttura o al personale sanitario per accordarsi sulle richieste relative al momento del travaglio e del parto.
Le attiviste ribadiscono comunque che le loro azioni non sono un attacco al personale sanitario, ma iniziative volte a far riconoscere un fenomeno sotterraneo al fine di migliorare le pratiche di assistenza, perché l’esperienza del parto non sia soltanto sicura ma positiva, nel pieno rispetto dei diritti della donna.
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