Cibo

Ho scoperto che l’ospitalità in Georgia è molto meglio che in Italia

Componente fondamentale del supra è il tamada, ovvero il ‘capo brindisi’. Una cultura che ha una parola per descrivere il capo brindisi è una cultura che evidentemente prende molto sul serio la faccenda del bere e del mangiare

Mentre mi trovavo con il biglietto per Tbilisi in mano, in attesa del connection flight all’aeroporto di Istanbul, due cose mi facevano scalpicciare dall’eccitazione e mi tenevano sveglia nonostante l’ora tarda. La prima: stavo per volare in una terra che portava il mio nome. Quante volte capita nella vita? A quante persone? Ve lo dico io: pochissime. Dai, su: statisticamente parlando, le Sofia o le Atena o le Carolina non sono poi tante. La seconda: stavo per scoprire la cucina della Georgia. Tra le tante ragioni per visitare il paese caucasico il cibo – e il vino – sono unanimemente riconosciuti tra le principali. Perfino i miei amici che normalmente all’estero ordinano gli spaghetti sono tornati dalla Georgia con gli occhi a raviolo sostenendo che il khachapuri fosse meglio della pizza.

La tradizione dell’ospitalità georgiana non può essere paragonata a nessun’altra nel mondo. Non è questione di quantità né di qualità del cibo, è questione del modo in cui viene vissuto e di come viene considerato l’ospite: un dono di Dio. Nella mia settimana in Georgia ho avuto modo di essere ospitata a casa di vignaioli, chef, contadini; case più o meno ricche, pietanze più o meno elaborate, tenore alcolico più o meno alto (tendenzialmente più); dovunque ho trovato la stessa gioia nell’accogliere, lo stesso piacere nel condividere, la stessa spiritualità – financo lo stesso misticismo – nel farlo.

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Il nome georgiano per banchetto è supra. Il supra può essere organizzato in un’occasione speciale – matrimonio, battesimo, funerale o festa religiosa che sia – o anche solo per onorare un ospite, appunto, per accoglierlo in casa propria. Componente fondamentale del supra è il tamada, ovvero il ‘capo brindisi’. Una cultura che ha una parola per descrivere il capo brindisi è una cultura che evidentemente prende molto sul serio la faccenda del bere e del mangiare. Ce lo racconta John Wurdeman durante il mio primo pranzo in Georgia al ristorante Azarphesha in centro a Tbilisi. L’Azarphesha è un cucchiaio gigante d’argento, parte del costume tradizionale georgiano, con cui il tamada passava il vino intorno al tavolo: chi lo riceveva doveva alzarsi in piedi, fare un brindisi, svuotarlo e passarlo al commensale. Al giorno d’oggi non si usa quasi più ma rimane la potenza rituale del brindisi.

Un discorso per un brindisi in Georgia deve essere lungo, parlare di amore e amicizia, vita e morte, affrontare lunghe circonvoluzioni filosofiche, toccare inaspettate vette di spiritualità

Ora, non immaginate il nostro brindisi, il rapido ‘Cin cin, salute, evviva!’ con cui sbrighiamo la faccenda. Il brindisi georgiano è molto di più. Il tamada deve essere dotato di un eloquio brillante e particolarmente forbito (nelle locandine delle degustazioni viene indicato il nome del tamada scelto per l’evento): un discorso per un brindisi deve essere lungo, parlare di amore e amicizia, vita e morte, affrontare lunghe circonvoluzioni filosofiche, toccare inaspettate vette di spiritualità – e potenzialmente innescare lunghe discussioni, sempre che il tamada conceda la parola ad altri commensali.

Ovviamente, una volta concluso il brindisi, si deve bere. Ovviamente non finire il bicchiere è considerato molto maleducato. Ovviamente si finisce la cena un po’ ubriachi e un po’ commossi e un po’ confusi, chiedendosi cosa sia accaduto nelle ultime quattro ore.

La confusione aumenta perché di solito, proprio quando pensi che tutto sia finito, arrivano altre portate – tendenzialmente quelle ‘di carne’, come l’agnello cotto al forno o i ravioli khinkhali ripieni di brodo, da succhiare dopo aver morso un minuscolo pezzo di impasto.

Una tavola georgiana imbandita / Foto dell’autrice
Khinkhali / Foto dell’autrice

Il vino è nei geni dei georgiani: ognuno ha una vigna. Se lasci giocare il tuo bambino nella polvere e nel fango lui svilupperà sistema immunitario più forte: noi crediamo sia lo stesso con il vino.

John è un perfetto tamada. La sua storia è molto nota (ha anche fatto un bellissimo TEDx) e meriterebbe un articolo a sé: riassumendo, è arrivato qui dagli Stati Uniti nel 1995 per la musica, è rimasto per il vino. John è stato uno dei principali promotori della rinascita enologica del paese: produce vini famosi in tutto il mondo, possiede due ristoranti, sogna in lingua georgiana e cerca di promuovere il paese all’estero. “Ho mostrato loro che bisogna essere orgogliosi di essere contadini, orgogliosi di fare vino, orgogliosi delle loro tradizioni che, a differenza di tanti altri posti del mondo, sono ancora vive” mi spiega mentre passeggiamo nelle vigne della sua tenuta poco fuori dal villaggio di Sighnaghi “Io sono venuto da fuori per far fluire la loro vera anima. Cosa c’è di speciale in Georgia? Qui puoi sentirti libero di piangere, ridere, vivere. Se c’è un contributo che la Georgia ha da dare al mondo è la vita”.

L’autrice mentre contempla i giorni di brindisi georgiani che la aspettano / Foto di Gennady Jozefavichus
Kwevri nelle vigne di Pheasant’s Tears / Foto dell’autrice


John è stato una delle prime persone che ho conosciuto appena arrivata in Georgia. Sul momento pensavo che questo modo di parlare, di sentire le cose, fosse una sua peculiarità; poi ho capito che era il paese stesso ad essere così. Nella regione di Khakheti, una delle più importanti aree vinicole della Georgia, andiamo a visitare Shota Laghazidze, un giovane vignaiolo che ci mostra come si produce il vino nelle kwevri, le anfore interrate di ceramica in cui i grappoli vengono fatti fermentare per alcuni mesi senza essere diraspati. Un metodo di macerazione che si dice risalga al 6000 AC: il primo documentato al mondo, che qui i vignaioli definiscono ‘lasciare il vino nel ventre della madre’. Come ci spiega Shota: “Da noi il vino è sempre stato una cosa divina. Il vino è nei geni dei georgiani: ognuno ha una vigna. Se lasci giocare il tuo bambino nella polvere e nel fango lui svilupperà sistema immunitario più forte: noi crediamo sia lo stesso con il vino. Il vino è vivo. Ha i tannini, l’alcol, i batteri, il lievito, tutto. Se lo lasci crescere da solo sarà forte. Certo, non hai controllo sul risultato: se tu hai ogni anno la stessa cosa è molto noioso. Non voglio quella vita e non voglio quel vino”.

John Wurdeman e Shota Laghazidze / Foto dell’autrice


Ora, non mi addentrerò in considerazioni di carattere tecnico che non mi pertengono e non sono sicuramente in grado di fare. Posso dire che i golden wines – “A noi non piace definirli orange. Sembra il nome di una bibita. L’oro è il colore più bello. Quando il vino è più chiaro assomiglia all’acqua. Dove l’alcol?” – georgiani, ma i rossi come il delizioso Saperavi, uno dei miei preferiti, non si limitano ad essere buoni, hanno un qualcosa in più. Ad esempio, non ti danno hangover. Vi sembra poco? Sarà la suggestione, ma questa spiritualità ti contagia, ti prende al cuore e alla pancia.

Pollo alla ciliegia e formaggi georgiani / Foto dell’autrice


Una sera siamo andati a cena da Lamara, in un minuscolo paesino sperduto nella campagna orientale del paese. Lamara è una specialista in erbe medicinali con una grande passione per le fermentazioni, il formaggio, il pane e soprattutto i bachi da seta che alleva, usandoli per la seta ma anche per “olio, pelle, capelli. Curano 38 malattie, come la circolazione del sangue, o l’infertilità”. Una specie di strega buona insomma – con la dovuta specifica che qui, però, la conoscenza media di piante ed erbe officinali è comunque molto diffusa.

Lamara (non è splendida?), il suo khachapuri e la tavola imbandita da lei / Foto dell’autrice

Il supra preparato da Lamara è probabilmente uno dei più buoni che ci capita di mangiare. La struttura è sempre simile. Quando ci si siede i piatti sono già a tavola. All’inizio sono in prevalenza vegetariani: melanzane ripiene di noci (badrijani), jonjoli fermentati, aglio sottaceto e altri pickles, zuppa di fagioli, frittelle di mais, polpette di pasta di noci ed erbe (phkali), il puri – pane cotto in un forno simile al tandoori – e decine di altre pietanze profumate delle tre spezie base della cucina georgiana, ovvero fiori di calendula, semi di coriandolo e finocchio. Dopo un po’ arrivano i piatti caldi, quelli a base di carne, e il khachapuri che non manca mai, in tutte le sue innumerevoli versioni, come quella preparata da Lamara allo spiedo.

Parlare della cucina di un paese come un unicum è sempre riduttivo. Lo è ancora di più in un paese come la Georgia, per anni crocevia – più o meno pacifico – di culture diverse e rotte commerciali, dove ogni area ha tradizioni culinarie diversissime. Per un approfondimento consiglio questo splendido libro. Se c’è una cosa che ho capito, però, nella mia pur breve (a me la settimana è parsa brevissima. Al mio fegato forse meno) permanenza in Georgia, è che se c’è un segreto della cucina georgiana, non è la bontà del formaggio, o la qualità del pane, o l’attenzione con cui viene lentamente arrostito sul fuoco fino a risultare croccante fuori e grondante sulguni (formaggio) e burro dentro. È il sorriso con cui Lamara ce lo porge.

Ah, alla fine ho scoperto che i georgiani non chiamano il loro paese Georgia, bensì Sakartvelo (საქართველო). A quanto pare per volare in una terra che porta davvero il mio nome dovrò andare nella Georgia degli Stati Uniti, il cui piatto tipico sono i gamberi con il semolino. Dannazione.

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