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blackbear è davvero famoso, anche se non sai chi è

“Voglio farmi congelare la testa. Samantha, puoi dire al mio financial advisor di mettere da parte duecentocinquantamila dollari?” blackbear fa questa richiesta rivolgendosi al capannello di amici e sottoposti, sia full-time che pagati a giornata, che si è creato attorno al suo tavolo da biliardo, sulla cui superficie un tatuatore ha organizzato una sorta di studio improvvisato per lavorare. È un raro giorno libero a Los Angeles, e la sua casa di tre piani è piena di gente: ci sono un fotografo allampanato che documenta la sua vita, un paio di artisti che sta curando, amici che sonnecchiano di fronte a una maratona di reality delle Kardashian, un addetto stampa che si preoccupa di dare un senso di ordine all’intera situazione, un veterinario passato a dre un’occhiata a Pocky—il suo cucciolo di Shiba Inu—e un po’ di persone che nessuno sembra conoscere, almeno a quanto dicono le persone che interpello a riguardo. Per Samantha, mamma adottiva della casa barra manager di Bear, non deve essere facile gestire tutto questo.

Una voce si innalza sul baccano e afferma che Walt Disney si sia fatto criogenizzare l’intero corpo. blackbear si ferma un attimo a pensarci, e per un attimo la stanza resta in silenzio.

“Oh. Bé, ha senso”, dice. “Non c’è bisogno che mi faccia decapitare”.

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Quando sei famoso finisci a fare conversazioni come questa e blackbear è molto famoso. Ha 26 anni, fa l’autore, il cantante e il produttore, ed è così famoso che quando cerchi “blackbear” su Google appare prima lui dell’animale da cui ha preso nome. È così famoso che ha assumere uno chef privato per cucinare un buffet di cibo per bambini—composto da crocchette di patate, sandwich con burro d’arachidi e banana, una crostata ripiena di vermi di gomma—non è lontanamente la cosa più da-persona-famosa che ha fatto nella giornata che abbiamo passato assieme.

blackbear è così famoso che deve trasferirsi, perché sia TMZ che delle ragazzine hanno scoperto che vive in questo quartiere senza pretese. Sono dall’altro lato della strada rispetto alla sua porta di casa, e gli scattano foto, e cercano di attirare la sua attenzione restando fuori dal cancello proponendogli idee. Si sente “quasi stalkerato”, mi dice.

“Le groupie non vogliono i miei figli. Vogliono il mio sangue”, dice, mentre va in balcone per fumare una delle sigarette che si concede—un pacchetto al giorno. Il modo in cui ti guarda negli occhi è davvero particolare per il modo in cui piega la testa e sorride a bocca chiusa risultando al contempo infantile ed eccitante. Capisco perché, a quanto mi dice, una delle sue ex sta avendo difficoltà ad accettare che tra loro sia finita.

Foto di Wassim Farah

Attorno al suo corpo snello fluttuano dei bermuda rosa shocking e una felpa nera con una grande scritta “Ketamine”. Il sole si riflette sul glitter rosa delle sue sneaker, delle Gucci Ace, in pendant con il suo cappello di Gucci, anch’esso rosa. Ha molti tatuaggi, e alcuni se li è fatti da solo. Ne riesco a vedere solamente uno, una faccia in stile cubista con scritto sotto “sry i suck”, “scusa se faccio schifo”. Guarda dall’altro lato della strada con uno sguardo assente, controlla l’orizzonte in cerca di un furgoncino di TMZ e si chiede se domani magari posteranno delle nostre foto assieme. Ok, no: sono io che me lo sto chiedendo.

“La fama è strana”, dice, finalmente, sospirando.

Ed è vero. Una delle qualità della fama, oggi, è che appartiene anche a persone simultaneamente famosa e completamente sconosciute (date un’occhiata alla sezione “Figure Pubbliche” di Instagram per farvi un’idea). In quest’era distintamente Americana di fama che nasce dal nulla, non ci sono mai state così tante facce al contempo celebri e irriconoscibili.

Quella di blackbear è una fama di questo tipo, ed è impressionante. Le ragazze svenivano di fronte a Elvis per il modo in cui si dimenava, per i suoi capelli corvini, per la sensualità del suo baritono. Ma erano tempi in cui le scorte di artisti non bastavano a soddisfare le loro richieste gridate. Oggi, un artista come blackbear ha una competizione enorme—come per esempio quella di Justin Bieber, per cui ha co-scritto “Boyfriend,” la canzone del 2012 che gli ha permesso di mettere via abbastanza soldi da poter andare in pensione a 21 anni. Essendo cresciuto facendo l’artista, blackbear non si sarebbe mai accontentato di restare in uno studio a scrivere canzoni. Fu sempre quell’anno, qundi, che pubblicò il suo primo EP Foreplay e il suo mixtape Sex, un paio di onesti e iper-prodotti progetti pop. Il suo primo album, Deadroses, aveva una certa qualità magica. Uscì il giorno di San Valentino del 2015 e ha generato due singoli di successo. Uno è“idfc”, un brano vuoto e luccicante che ha circa 30 milioni di ascolti su Soundcloud, e “90210”, un esperimento mezzo rock assieme a G-Eazy da 15 milioni.

Definire blackbear un artista prolifico sarebbe un eufemismo. Nei due anni passati da Deadroses ha formato un duo alt-R&B assieme al suo amico e collaboratore Mike Posner, i Mansionz, e un collettivo di produttori, le Bear Trap Records. Nel frattempo ha buttato fuori una serie di singoli e ha ricevuto il supporto di Kylie Jenner, che ha postato su Snapchat alcune sue canzoni. La scorsa estate ha firmato un contratto di distribuzione con la Interscope Records da dieci milioni di dollari, ha annunciato un tour in supporto ai Fall Out Boy e ha pubblicato il suo quarto album, Cybersex, il giorno del suo compleanno. La gelida “do re mi”, tratta dal suo ultimo album Digital Druglord, è arrivata alla quarantesima posizione della Billboard Hot 100 ed è stata cominciata a essere trasmessa dalle radio statunitensi, cominciando a dargli esposizione a livello mainstream. Ma non sembra essere troppo preoccupato da questioni simili: il brano ha già più di 113 milioni di ascolti su Spotify, e il suo video su YouTube—su cui compare anche Gucci Mane—ha più di 35 milioni di views (è comprensibile, provate pure a togliervi il “Do re mi fa, so fuckin’ done with you” dalla testa dopo averla ascoltata). E già che stiamo parlando di numeri, buona fortuna a trovare un suo pezzo su SoundCloud che abbia fatto meno di un milione.

In tutto questo, la vera sorpresa è scoprire che la musica non è la principale fonte di introiti di Blackbear. “Per me la musica è un hobby. Ho investito in azioni e bitcoin, faccio consulenze per robe varie, vesto ragazze per Coachella. Voglio pubblicare solo ancora un paio di album”, dice. “Vorrei fare provare qualcosa al mondo, qualcosa di felice o triste, qualsiasi cosa, in fondo sono tutte le emozioni del mondo, e mi sento un vero troll. Il mio obiettivo, nella vita, è essere il troll definitivo”.

Proprio come molti altri ventiseienni che passano troppo tempo a vagare su internet, anche blackbear è molto bravo a trollare. “Playboy Shit”, uno dei suoi ultimi singoli, è stato pubblicato su Pornhub. Ha registrato una canzone con un quattordicenne dell’Oklahoma, tale Jacob Sartorius, solo perché questo Jacob è stata la persona più googlata del 2016. L’artwork di Digital Druglord è una donna con delle bottiglie di pillole appiccicate al petto a formare una sorta di bikini.

In realtà c’è una spiegazione per quest’ultima trovata, e non è la glorificazione dell’abuso di farmaci. “Non è così”, protesta Bear. “Quelle sono pillole prese per restare in vita, ero in ospedale mentre registravo quell’album”.

L’anno scorso, Bear si è svegliato con quella che credeva essere una certa acidità di stomaco. Con il passare delle ore, i crampi allo stomaco sono peggiorati fino a farlo finire a terra, sul pavimento del magazzino dove tiene il suo merchandising. Prima di arrivare al pronto soccorso si era messo a vomitare sangue. La diagnosi è stata di pancreatite necrotizzante, un’infiammazione del pancreas spesso dovuta a un consumo eccessivo di alcool. Da allora, Bear si è sottoposto a una serie di operazioni chirurgiche per rimuovere cisti dal pancreas, che continuano a tornare anche se ha smesso di bere.

“Ho imparato la lezione. Ho provato a bere un bicchiere di champagne pensando che potesse essere ok e sono finito in ospedale”, dice. “Devo starci attento. Fa paura”.

Forse è per questo che si è tatuato la Serenity Prayer (“Dio, dammi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare”) sulla schiena, anche se il font scelto dal suo tatuatore sembra la calligrafia di un serial killer. Inoltre, la parola “Dio” è sbarrata.

Foto di Wassim Farah

Nato Matthew Musto da una mamma semi-adolescente e un eroinomane a Daytona Beach, Florida, blackbear si è sempre sentito la pecora nera della famiglia. Suo padre abbandonò la famiglia molto presto, e sua mamma sposò un tizio “fantastico” che adottò sia lui che suo fratello. Il suo patrigno aveva una piccola azienda che si occupava di ripulire gli scafi delle barche da crostacei vari—un lavoro fisicamente spietato e spesso poco fruttuoso da un punto di vista economico. Sua mamma, che Bear chiama “la sua cheerleader professionale”; lavorava come segretaria e usava sussidi statali per tappare i buchi. Ma suo padre, un cattolico di origine italiana, si impuntava e rifiutava qualsiasi aiuto.

Quando Bear era piccolo, un amico di suo padre gli portò un rullante di batteria. A quanto ricorda, passò ore a suonarlo. A sei anni gli regalarono la sua prima chitarra, e a 11 suonava ai compleanni dei suoi amici e aveva già fondato dei gruppi punk. Sono state esperienze che hanno formato la sua personalità, che lui definisce quella di “un bambino maleducato, un casinista, un ribelle, lo scemo della classe, un esibizionista”.

“Facevo qualsiasi cosa per attirare l’attenzione degli altri. Mi vestivo in maniera assurda. Ero l’unico vero punk della mia scuola, tipo con i pantaloni di plaid e la maglietta dei Rancid. E sto parlando di quando ero, tipo, in quarta elementare. La gente mi chiedeva se avevo un fratello maggiore che mi passava la musica e i vestiti, e io rispondevo la verità: no”.

Quello che aveva era un babysitter, tale Danny, che gli fece ascoltare per la prima volta band come i New Found Glory e i Catch 22. “Ero già un fan dei Blink-182 e lui mi disse che se mi piacevano allora avrei adorato queste altre band. Mi sono innamorato perdutamente degli Alkaline Trio e mi sono spinto sempre più a fondo nella sottocultura punk rock”, dice.

Quando aveva quindici anni la sua band dell’epoca, i Polaroid, ricevettero un’offerta da un’etichetta. Lui lasciò la scuola immediatamente. La band suonò a diversi festival e si costruì un seguito, ma dopo qualche anno Bear decise di mettersi in proprio e di usare il suo nome proprio come solista. Nel 2008 postò il suo primo progetto a nome Mat Musto, un EP intitolato Brightness che gli diede l’opportunità di dare un veloce sguardo al suo potere—tirò su circa un milione di ascolti.

Grazie all’aiuto di un suo ex manager, mandò il suo EP in giro per l’industria musicale cercando di capire che cosa se ne pensava. Ne-Yo lo apprezzò, e Bear si trasferì ad Atlanta. Rimase lì due anni, studiando duramente in studio e buttando fuori due o tre canzoni al giorno. Quando Ne-Yo gli offrì un contratto che lo fece sospettare di un paio di punti, però, decise di tornare a vivere con sua mamma. “Ho passato un anno intero a chiedermi che cosa avrei fatto con tutta la pratica e le demo che avevo accumulato”, mi dice.

Poi Mike Caren, un influente dirigente di Warner Music, lo chiamò. Aveva sentito qualche suo pezzo e voleva pagargli un biglietto perché lo raggiungesse in California.

“Così ho fatto, e ho registrato 21 pezzi in una settimana. Mike Posner li ha sentiti e ha detto che voleva fare qualsiasi cosa con me. Nella nostra prima sessione di scrittura abbiamo fatto “Boyfriend””, continua. “A quel punto avevo già cominciato tatuarmi il collo e roba simile, quindi non avrei mai avuto un vero lavoro. E bé, praticamente è così che sono cresciuto”. Si ferma e alza le spalle. “Il resto è su Wikipedia”.

Foto di Wassim Farah

blackbear si sente preoccupato. Non è religioso, è agnostico, e… qualcosa non è stato felice della cancellatura della scritta “Dio” nel tatuaggio sulla sua schiena.

“Sono stato davvero sfortunato. Ho scoperto di avere altre cisti”, mi dice. È passata una settimana e mezzo dalla nostra prima intervista. Oggi la casa è più silenziosa—ci sono un paio di amici, anche loro autori, nello studio privato della casa. Per il resto, è tutto completamente fermo. Non c’è nemmeno Pocky. “Quando ho grattato via la parola ‘Dio’ sono cominciate a succedermi un sacco di robe brutte. Quindi ho fatto tornare il mio tatuatore e gli ho fatto rifare la parte di ‘Dio’”.

Dopo il suo 2017, non vuole prendersi nessun rischio. Oltre alla sua malattia, a luglio ha perso il suo migliore amico—Chester Bennington dei Linkin Park, che si è suicidato lo scorso luglio. “Quando Chester è morto, nessuno sapeva che era il mio unico amico, che anche lui aveva la pancreatite e che aveva subito interventi come i miei. Era l’unica persona che potevo davvero chiamare per chiedergli dov’erano gli specialisti di cui avevamo entrambi bisogno. O che cosa fare quando sentivo il bisogno di bere”, dice. “Ho lavorato sul loro ultimo album. L’ho presa davvero, davvero male”.

A complicare il lutto sono arrivati anche i paparazzi. Appena scoperto della morte di Chester, Bear chiamò un’altra amica, Bella Thorne, per cercare di tranquillizzarsi. Giravano voci su una loro relazione, e quindi i paparazzi diedero ai loro abbracci un significato diverso. “Quando il tuo migliore amico muore, sei sul balcone a piangere e TMZ ti scatta delle foto dicendo roba tipo ‘ooooh, che scandalo!’—quella è la parte peggiore della fama”, dice.

Bear parla raramente alla stampa, ma non è ingenuo. Più di una volta, dopo qualche parola succosa, conclude le sue frasi specificando, che mi ha appena detto una cosa “confidenziale”. Fa firmare ai suoi associati e ai suoi sottoposti accordi di non divulgazione, e non si fa problemi a licenziarli dovessero infrangerli. Nonostante questo, butta nella conversazione abbastanza frasi da “scusa, cosa?”—”La cosa di cui sono più orgoglioso è che non mi sono mai iniettato niente in vena”—da rendere interessante passare la giornata con lui.

Mi sembra che sia leggermente perseguitato da un desiderio che aleggia su molti autori—il bisogno di avere successo in quanto artista e non in quanto cantautore. E l’aggiustamento del tatuaggio va in questo senso. Cybersex è un album importante per lui, ed è più visibile, e quindi più vulnerabile, che mai. Nonostante questo il processo di promozione, spinto dalla forza di “do, re, mi”, è andato bene. Superstizioni o no, l’ultima cosa di cui ha bisogno è mandare tutto a puttane per una parola cancellata dalla schiena.

https://www.youtube.com/watch?v=eL2LhaZA24o

Bear auto-alimenta la sua paura dicendo, irrazionalmente, che l’album non ha una posizione definita all’interno della struttura musicale contemporanea. “Oggi la gente resta lì a fare un cazzo, e continua a ripetere le stesse cinque parole ancora ed ancora”, dice, mentre la sua voce fa per spezzarsi. Se ne rende conto e si corregge prima che io possa parlargliene. “Non posso dire di non fare la stessa cosa. Ho appena buttato fuori un pezzo in cui non faccio che ripetere le stesse quattro parole”.

D’altronde, è da quando era un ragazzino che lavora nell’industria musicale. Bear sa benissimo come i trend possano passare, e come tutto possa cambiare da un momento all’altro. Quando dai tanta importanza alla tua musica (“È triste che il mio album costi tanto quanto altri album che sono stati scritti senza testa e cuore, mentre il mio ha dentro così tanta umanità”), vederla rifiutata può essere davvero triste. Dall’altro lato, la nostra cultura pone un tale accento sul successo lavorativo che la felicità diventa una nota a margine delle nostre vite. Puoi tornare in una casa vuota e mangiare popcorn al formaggio per cena, ma se la tua carriera sta esplodendo ti senti soddisfatto, no?

Nonostante tutte le sue preoccupazioni sul costo di ciò che fa, Bear non riesce a lasciar perdere. Dice che non continuerà a registrare e pubblicare musica per molto. Quando gli butto lì l’idea di fare le valigie e ritirarsi su un’isola, però, lui sorride debolmente. “Se avessi voluto, lo avrei fatto appena dopo aver scritto “Boyfriend””, dice.

“Provare a restare in vita è più importante di qualsiasi certificazione. Chissenefrega se faccio un doppio platino, non puoi portarti una placca commemorativa sottoterra”, mi dice. Si ferma per un secondo, e pensa… “Voglio dire, puoi portartela a dietro. Ma resterà lì a prendere polvere”.

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